Al Festival Verdi di Parma la versione parigina dell’opera Cantano Ernesto Petti e Lidia Fridman, dirige Roberto Abbado Ancora il gioco del teatro nel teatro nella regia di Pierre Audi
Quello sguardo. Prima sulla corona. Poi sul nuovo re, mentre viene portato a spalla e acclamato sovrano, re che quella corona la indossa legittimamente. Quello sguardo dice molto. Dice che la catena di omicidi non è finita. Ma che la reazione innescata proseguirà implacabile. Senza dubbio. Quanto sopravviverà Malcolm? Quanto durerà il suo regno? Poco, forse. Lo dice quello sguardo. Che è – inaspettatamente – lo sguardo di Macduff. Il buono dell’opera, il fedele servitore al quale Macbeth e la Lady hanno ucciso moglie e figli. Quello che «la paterna mano non vi scudo o cari», meglio, detto in francese «Ah! C’est la main d’un père…» perché il Macbeth che inaugura l’edizione 2024 del Festival Verdi del Teatro Regio di Parma parla la lingua di Parigi (non solo letteraria, ma anche musicale… modello grand-opera). Macduff dalla cui parte stiamo tutti, perché ci tira dalla sua la musica, unica melodia veramente umana – forse insieme al Pietà, rispetto, onore (nell’autografo c’è scritto «onore» e non «amore») che in francese suona «Honneurs, respect,tendresse…» – unica melodia veramente umana in un’opera sghemba e tagliente, illuminata di luce sinistra.
Come lo sguardo di Macduff sulla corona. Sinistro. Inquietante. Sigillo che Pierre Audi mette al suo Macbeth. Prima elegante rappresentazione dell’ascesa al potere della coppia criminale, teatro nel teatro (tanto che l’impressione è di essere di fronte a un calco pressoché identico del Don Giovanni scaligero di Robert Carsen o comunque di tanti altri allestimenti che giocano sul far specchiare palco e realtà) con la scenografia che riproduce platea e palchi del Regio e moltiplica il sipario rosso in un gioco novecentesco di rimandi al Globe di Shakespeare – Macbeth è una delle sue tragedie più nere. Poi racconto astratto e senza tempo della parabola discendente del potere dove le apparenze si sgretolano, il dietro le quinte si rivela per quello che è, vuoto scheletro che si affaccia sul nulla. Palchi e platea, che anche prima, comunque, erano visione piatta e in bianco e nero su grandi teli, scompaiono e lasciano il posto alle impalcature che li sostenevano – firma le scene Michele Taborelli. Così il racconto da concreto si fa astratto, visione metafisica che dà forma ai pensieri deviati di Macbeth e della Lady, che ci porta dentro una coscienza che ha abdicato.
Spiazza, e non poco, quello sguardo di Macduff. Come spiazza, abituati alla versione italiana, il Macbeth francese. Tanto che spesso ti trovi a cantare nella testa le parole del libretto di Francesco Maria Piave, quelle per la prima versione del 1847 a Firenze e quelle della versione oggi più eseguita, quella “tradotta” e rimodellata sull’adattamento francese del 1865 – quella dove la cabaletta della Lady Trionfai lascia spazio all’inquieta La luce langue, dove il terzo atto è completamente ripensato e arricchito dalle danze…, dove il Patria oppressa ha altra musica e altre parole e dove scompare il Mal per me, l’arioso che sancisce la morte in scena di Macbeth per lasciarla fuori scena, come capitava nella tragedia greca. Tanto che è un errore drammaturgico portarla in palcoscenico. Come è un errore – non solo drammaturgico, ma anche musicale, perché altera la “tinta” dell’opera – affidare a Macbeth e non alla Lady la lettura della lettera, «Je les vis apparaître au jour de la victoire». Pierre Audi lo fa. Perché? Non si capisce. E non si capisce perché Macbeth sia sempre a fianco della Lady durante tutta la sua aria di sortita. Nulla aggiunge al racconto. Che anzi zoppica, nella successione cronologica degli eventi (le parole hanno pur un senso) e nella costruzione della tensione emotiva, cosa che Verdi, uomo di teatro, sapeva (e sa) fare benissimo. Anche se certi uomini di teatro di oggi pensano il contrario… correggendo con i loro spettacoli una drammaturgia compiuta e perfetta.
Spiazza lo guardo di Macduff. Spiazza Macbeth in versione francese. Certo, all’apparenza la lingua di Charles-Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont, che hanno curato l’adattamento per Parigi, potrebbe suonare più dolce rispetto a quella tagliente e spigolosa del libretto di Piave, ancestrale, con certi passaggi “carnali” alla Giovanni Testori verrebbe da dire se non fosse che lo scrittore di Novate – che pure ha scritto un Macbetto – è cosa del Novecento (e pure tardo, quello degli anni Settanta dei collettivi teatrali milanesi, degli Scarrozzanti, di Franco Parenti…). Dolce e musicale solo all’apparenza. Ma più dura nel racconto, cruda nel descrivere la scalata al potere, anatomia di un’anima (anzi due) che ha dimenticato la sua vera essenza, che ha messo da parte l’umanità da cui è stata plasmata. E poteva forse essere questa, la dureza di un racconto che mette in scena una miseria umana senza tempo, la chiave di uno spettacolo, quello di Pierre Audi, che arriva innocuo, non graffia, non tocca, non lascia il segno se non (ma certo, è davvero poco) in quello sguardo inaspettato di Macduff. Spettacolo che alla fine è un grande concerto in costume (a volte nemmeno troppo perché coro e solisti sono spesso in abito da sera, da concerto… certo belli nei figurini di Robby Duiveman), narrazione che scorre piatta, a tratti drammaturgicamente errata, a tratti confusa, a tratti fin troppo banale – le danze del terzo atto, che hanno la firma del coreografo Pim Veulings, sono un catalogo di già visto, di vecchia accademia.
Non c’è, dunque, nel Macbeth di Audi il senso della proposta “francese”, non c’è l’urgenza di restituire la versione parigina dell’opera. Che pur c’è nella proposta culturale del Festival Verdi. Che torna per la seconda volta in quattro anni a mettere in locandina la versione francese di Macbeth. Nel 2020 la prima esecuzione in epoca moderna della partitura proposta, ieri come oggi, nella revisione di Candida Mantica sull’edizione critica di David Lawton. Allora, causa Covid – che aveva spostato il Festival indietro di un mese e nello scenario en plein air del Paro Ducale (ma poi con opportuni distanziamenti si era tornati al Regio) – il Macbeth francese si era ascoltato, sotto le stelle, in forma di concerto. Perché nel 2020 si era dovuto rinunciare alla forma scenica – si parlava di un allestimento nella chiesa di San Francesco, un tempo carcere in seguito alle soppressioni napoleoniche e restituita alla città e al culto nel 2022 in occasione di Parma Capitale italiana ella Cultura.
Forma scenica che arriva ora. Sempre con la bacchetta di Roberto Abbado, sul podio, ieri come oggi, della Filarmonica Arturo Toscanini. Che dice, in musica, il perché del Macbeth francese. Che, certo, è sovrapponibile a quello italiano. Sicuramente nella storia e nella concezione drammaturgico-musicale. Forse meno nel gusto. Piccole cose, imposte anche dal testo e dal diverso modo in cui si sovrappone, in italiano e in francese, alla musica. Ruvido, nella versione di Piave, apparentemente più dolce in quella di Nuitter e Beaumont. Colori tenui, non muscolarmente marcati quelli che Abbado sbalza, nella sua lettura, che suona meno ancestrale e sghemba, meno inquietante del solito (della versione italiana?), non certo rassicurante, perché racconta pur sempre di menti malate, di delitti per ottenere il potere, di uomini che perdono la loro essenza sino ad annientarsi. Perché sentito così (e forse anche visto, specie nella seconda parte dello spettacolo che riunisce terzo e quarto atto) il Macbeth francese nella sua asettica leggerezza diventa più psicologico che carnale, più di testa e meno di pancia. Meglio? Peggio? Diverso. Sicuramente da ascoltare. Da ri-ascoltare, in questo caso. Nella lettura di Abbado, elegante e attenta al dettaglio come sempre e a tratti sorprendentemente infiammata da guizzi e bagliori. Moti che certo accendono di calore l’interpretazione del direttore milanese, ma portano an che a diversi scollamenti (e non te lo aspetteresti da un braccio saldo come quello di Abbado) con il palco, specie con il Coro del Regio di Martino Faggiani. Che ha colore e tinta verdiana, ma non sempre impeccabile dizione francese.
Che, è un po’ il punto debole di tutti gli interpreti. Musicalmente impeccabili. Perfetti tutti, ciascuno in appiombo sul suo personaggio. A iniziare da Ernesto Petti che debutta nel ruolo del titolo, scelta coraggiosa quella di farlo con la versione francese, ma sicuramente anche strategica, per “provare” un ruolo che potrebbe portare il baritono campano ad essere uno degli interpreti di riferimento di Macbeth. Per come Petti, con una voce sempre timbrata e avvolgente, scolpisce nella musica la parola verdiana, per come la porge con un canto sempre intonato, a fuoco (ogni suono è messo nel posto giusto), narrativo. Per come il personaggio del re ne esce, tutto ripiegato su se stesso, non solo burattino nelle mani manipolatrici della Lady, ma vittima di se stesso e della sua inettitudine. Lady che è una carismatica, nel suo lavorare più per sottrazione che per accumulo, Lidia Fridman. Ogni accento è verdiano, ogni parola è pensata, ogni suono è drammaturgico, modellato sul testo e sulla psicologia di uno dei personaggi femminili più sfuggenti della lirica. Non c’è nulla di più di quello che serve nella Lady della Fridman, qui nella sua interpretazione più convincente di sempre.
Michele Pertusi – che gioca in casa, sempre circondato dall’affetto del pubblico – è un Banquo nobile e inquieto, voce penetrante, ombrosa e capace di raccontare, con poche pennellate di suono, un mondo e di far intravedere l’abisso entro il quale il potere malato può far precipitare il mondo. Lo sguardo sulla corona, inaspettato e inquietante, è quello di Luciano Ganci che disegna questa doppiezza del personaggio anche con il suo canto, allungando sul suo squillo luminosissimo (voce bella, che arriva naturale, sempre) un ombra sinistra. Che si allunga su Malcom che ha la voce squillante e corposa (e la tecnica solida) di David Astorga. a fuoco la Comtesse di Natalia Gavrilan, un Médecin di Rocco Cavalluzzi mentre Eugenio Maria Degiacomi è un Serviteur, un Sicaire e il Premier Fantôme, mentre gli altri due cono affidati alle voci bianche di Agata Pelosi e Alice Pellegrini.
Presenze sinistre. Che appaiono a Macbeth e lo portano alla rovina. E che forse tutti vedono. Perché il potere, il desiderio di esercitarlo e non solo in campo politico, ma in qualsiasi ambito della vita – ce lo dice ogni giorno la cronaca che racconta di guerre, invasioni, ma anche di omicidi nei confronti di chi si dice di amare – è qualcosa che tocca tutti. Spinti, come Macduff, il buono, a gettare uno sguardo desideroso, inquieto e inquietante sulla corona.
Nelle foto @Roberto Ricci Macbeth al Festival Verdi di Parma