L’opera di Puccini in scena a Verona nell’allestimento di De Ana con il soprano protagonista con Yusif Eyvazov e Luca Salsi Pucciniana ed efficace la lettura del direttore israeliano
È tutto un Festival Puccini quest’anno in Italia. Nei teatri, che mettono in programma le opere del compositore scomparso cento anni fa – non sono tantissime, dieci, o dodici se si considerano come autonomi i tre titoli del Trittico –, ma soprattutto nelle rassegne estive (fatta eccezione per il Rossini opera festival, consacrato esclusivamente al compositore di casa) con Turandot e Tosche da nord a sud. Così oltre che sulla piazza “ufficiale” di Torre del lago, ecco che si moltiplicano Bohème e Butterfly sotto le stelle. Certo, i titoli che tornano sono sempre quelli… pop, popolari, conosciuti e consolidati. Pochi osano con Villi o Edgar (Torre del Lago lo ha fatto coraggiosamente… e doverosamente), rare le Fanciulle del west, pochi i Trittico, il capolavoro assoluto di Puccini, vertice della sua musica, da ascoltare e riascoltare, molto più moderno della novecentesca e incompiuta Turandot.
Pucciniano anche il cartellone numero 101 dell’Arena di Verona, dove, d’altra parte Turandot è la quarta opera più rappresentata (prima di lei Aida, Carmen e Nabucco) in oltre un secolo di stagioni. Arena che, dopo l’inaugurale Turandot (ripresa e trasmessa da Rai3, ahimè con presentazioni/riassunti/lanci di una banalità assoluta affidate a Luca Zingaretti), ad agosto cala l’asso della Tosca. Spettacolo supercollaudato e perfettamente “areniano” del 2006 firmato interamente (sue regia, scene, costumi – con qualche variante, però, rispetto a quelli bellissimi che Fiorenza Cedolins indossava alla prima – e luci) di Hugo De Ana. Siamo sulla piattaforma di Castel Sant’Angelo, il viso dell’angelo, la spada dominano la scena che si trasforma in Sant’Andrea della Valle, in palazzo Farnese per tornare ad essere nel drammatico finale la piattaforma della fortezza affacciata sul Tevere.
Star (che garantisce il tutto esaurito al botteghino) Anna Netrebko, che prima del 2019, quando la sovrintendente Cecilia Gasdia l’ha portata a Verona per Trovatore, in Arena non aveva mai cantato, ma che da allora non perde una stagione: Turandot (in versione distanziata per il Covid e in quella hollywoodiana di Franco Zeffirelli), Aida, Traviata e ora Tosca. Sempre con il marito (di recente, però, i due anno annunciato la fine della loro relazione) Yusif Eyvazov che qui è un Cavaradossi che fa sfoggio di acuti lunghissimi e tenutissimi – tra lui e la Netrebko sembra quasi una gara a chi resiste di più. Tre recite – la quarta vedrà un cambio di cast con Elena Stikhina, Jonas Kaufmann e Ludovic Tezier – con Netrebko, Eyvazov e Luca Salsi. Tre recite attesissime, documentate meticolosamente dal soprano sul suo profilo Instagram – l’unico suo social, come ha tenuto a dire la diva in una recente Storia, «il resto sono fake, non credete a chi risponde spacciandosi per me» – con dietro le quinte inediti che ti portano in sala prove, nei camerini, persino sul palco a pochi secondi dall’entrata in scena…
«Sei la più grande» si sente dalle gradinate mentre gli applausi dopo il Vissi d’arte non sembrano voler smettere… ma nessun bis – cosa che in Arena è all’ordine del giorno, il pubblico lo chiede, lo vuole, lo desidera per sentirsi in una “serata storica”… cosa che tanti artisti concedono generosamente. Anna e Yusif no. Occorre catturare la magia del momento… E come si dice in certi casi il Vissi d’arte da solo valeva il viaggio, cesellato dalla Netrebko nei minimi dettagli, intenso, sofferto, musicalissimo… puro piacere dell’ascolto nei fiati lunghissimi (in pianissimo, in crescendo e poi in diminuendo… da lasciare a bocca aperta) che il soprano russo regala. Il Vissi d’arte da solo valeva il viaggio, perché nella terza recita la Netrebko (comunque applauditissima dal suo pubblico di affezionati e da quelli che comprano il biglietto attirati dal nome in locandina) è sembrata stanca, forse un po’ distratta (qualche inciampo con il libretto, uno o due attacchi in rincorsa…). Tosca generosa, musicale, intensa, intendiamoci, ma senza quella zampata, senza il graffio che ci si aspetta sempre da lei – ma forse lo spettacolo di De Ana è stato rimontato di fretta, distrattamente, perché sembra procedere a fatica, senza quel graffio che aveva nelle scorse edizioni. Zampata, graffio, recitazione all’ennesima potenza che il palco dell’Arena consente e (soprattutto) richiede.
Lo sa bene Luca Salsi, dominatore assoluto della scena, “divora” il palco dell’Arena disegnando uno Scarpia cinematografico (per i primi piani che il baritono sa farti veder grazie alla sua voce di chiaroscuri inquieti), perfido, giustamente volgare (perché Scarpia deve urtare… uomo di potere che usa la sua posizione per ottenere favori sessuali, ricattando una donna… ci dice qualcosa?) per quello che fa e per come lo fa – la verità dell’Arena richiede anche questo. Quello che fa – la tentata violenza – e come lo fa – nascondendosi sotto una parvenza di religiosità, come tutti quei cardinali che De Ana mette sul palco con uno scheletro in volto. «Qui si canta il Te Deum più emozionate» dice il baritono emiliano dopo che la sua voce ha svettato su quelle del coro, preparato alla perfezione da Roberto Gabbiani. Il più in sintonia, Salsi (e lasciano il segno anche l’ottimo Gabriele Sagona come Angelotti e il caricaturale quanto serve Giulio Mastrototaro come Sagrestano), con la lettura che, dal podio di un’orchestra dell’Arena efficacissima, offre Daniel Oren, genio e sregolatezza della bacchetta, capace ogni volta di proporre letture che hanno un senso, un peso specifico per l’Arena, ma soprattutto per il racconto musicale.
Oren detta tempi, colori, intenzioni di una Tosca cupa, intima, lugubre marcia funebre dove da subito la luce di una possibile speranza è fioca… per poi spegnersi inesorabilmente. Tensione, perché la partitura è un thriller, ma anche abbandoni che non sono, però, facili “puccinismi”. Salsi tiene bene il passo, sempre al servizio della musica, lo fa anche la Netrebko (al netto delle “distrazioni”) mentre Yusif Eyvazov è un Cavaradossi che fatica a lasciare il segno nonostante gli acuti lunghissimi (anche troppo, perché l’impressione è che tutto si riduca ad un’esibizione muscolare) e la generosità del canto che il tenore mette in campo anche questa volta. Oren, però, dal podio sferza il palcoscenico. Va dritto per la sua strada. Bellissimo, intimo e con slanci violenti il suo Puccini. Da interiorizzare. E sul quale meditare in questo moltiplicarsi di Puccini da centenario.
Nelle foto @ennevi Tosca all’Arena di Verona