A Macerata l’opera di Puccini diretta da Francesco Ivan Ciampa che si ferma alla morte di Liù dove si fermò il compositore Protagonista Olga Maslova nello spettacolo di Paco Azorín
Negli anni Novanta, quando non si passava tutto il tempo a fare TikTok o stories di Instagram, la moda (anche letteraria, perché no) del momento erano i libri game. Gioco, come dice la parola, ma anche letteratura. Avventura, soprattutto. Quei libri che ti permettevano di “costruire” la tua storia. «Se vuoi aprire la porta che conduce ai sotterranei vai a pagina 13. Se preferisci esplorare la torre dl castello vai a pagina 75» uno dei tanti esempi di frasi che ti trovavi a fine pagina. E che ti mettevano di fonte a una scelta. Decidere tu il finale della storia. E Turandot è un po’ un libro game. Perché da sempre, da quando Giacomo Puccini morì lasciando la sua ultima partitura incompiuta, la questione “finale” è sempre aperta. Perché non è stata mai detta una parola definitiva. Storia complessa già da subito, da quando Ricordi e Arturo Toscanini commissionarono a Franco Alfano un finale, elaborato sugli appunti lasciati da Puccini. Finale sul quale da subito mise le mani Toscanini – e il direttore d’orchestra, lui sì vero despota del podio, era abituato a fare, pensando di “migliorare” il lavoro dei compositori, lo fece anche quando diresse a New York La fanciulla del west… Toscanini “suggerì” tagli ad Alfano che preparò un secondo finale, più corto di un centinaio di battute. Quello più eseguito, quello più popolare. Il primo, integrale, lo so ascoltò la prima volta solo nel 1982 a Londra in forma di concerto e lo si “vide” in scena l’anno successivo a New York – in Italia arrivò nel 1985 a Caracalla con la bacchetta del “pioniere” Daniel Oren.
«Se scegli Alfano1 vai a pagina 24, se scegli Alfano2 vai a pagina 26». Poi nel 2001 è arrivato il finale di Luciano Berio, altre atmosfere, altri colori, sempre, però sugli appunti pucciniani. Pare poi che ci sia un’altra versione Alfano, in mezzo tra la prima e quella definitiva. E anche diversi tentatovi “apocrifi”… Roberto De Simone, Bruno Rigacci, Steven Mercurio, Janet Maguire, Hao Weiya, Christopher Tin… Ma il vero finale pucciniano resta uno solo. La morte di Liù. «Liù poesia…» le parole che sfumano nell’aria. Finale che a volte si sceglie, come in un libro game, appunto, tra i tanti a disposizione. Per una Turandot che si ferma al «qui Puccini morì» come disse Toscanini dal podio del Teatro alla Scala la sera del 25 aprile 1926.
Lo hanno scelto, in questo 2024 che ricorda il centenario della morte del compositore, la sua Torre del Lago. E lo ha scelto il Macerata opera festival. Dichiarandolo (anche se non così esplicitamente) da subito. Entri allo Sferisterio per Turandot e sul grande muro dello stadio c’è la faccia di Puccini, in uno dei suoi ritratti più iconici. E poi data di nascita e data di morte, 1858-1924. Turandot la scritta pop che cancella il volto di Puccini all’inizio del titolo che ha inaugurato l’edizione numero sessanta del Macerata opera festival 2024. Un piccolo Festival Puccini in terra marchigiana per l’inevitabile (e doveroso) omaggio al compositore toscano in questo 2024 che celebra il centenario della sua morte. Turandot e Bohème.
E per il suo libro game lo Sferisterio Francesco Ivan Ciampa ha scelto il finale zero, la morte di Liù. Sì, ci ha messo anche un’appendice, il coro finale, gli ultimi due minuti del finale Alfano, «O sole! Vita! Eternità!». Ciampa lo attacca alla fine. Quando le luci si sono spente sul quadro tragico della morte di Liù. Musica che parte sui titoli di coda, come accade a volte al cinema quando con le mezze luci in sala stai ancora seduto a vedere scorrere tutti i titoli… perché sai che nascosto lì in fondo ci può essere un piccolo spoiler su come proseguirà (siamo pur sempre in tempi di saghe, da Guerre stellari in poi) la storia che hai appena visto. Qui scopri che Turandot e Calaf si sposano… «O sole! Vita! Eternità! Luce del mondo è amore!». Ma devi aspettare il prossimo film, la prossima, opera, per scoprire come andrà la loro vita di coppia, se nasceranno figli e se questi saranno protagonisti di nuove avventure, tra sequel e spin off. E potrebbe essere un idea per un concorso dedicato a Puccini… scrivi un sequel di Turandot.
E la fantasia si potrebbe scatenare. Perché sono tanti i lati irrisolti (ed è anche il mistero che affascina di questo titolo) dei personaggi di questa favola. Una favola crudele (come tutte le favole…) che inizia con il taglio della testa al Principe di Persia che non ha risolto gli indovinelli di Turandot – moderno reality, La principessa cerca marito, che oggi terrebbe incollati alla tv milioni di telespettatori. Ciampa, che quest’anno ha collezionato tanti Puccini (una bella Fanciulla del west a Torino, una meno riuscita Bohème a Genova), tiene incollati con una Turandot solenne, rituale. Poche cineserie, tanto Novecento. Lettura meditata, dal respiro ampio (il taglio del finale, venti minuti di musica, accorcia, e non dio poco, la serata) quella del direttore sul podio di una puntuale Orchestra filarmonica marchigiana – ci sono poi il Coro lirico marchigiano Bellini e i Pueri cantores Zamberletti alle prese con la scrittura che spesso sale in acuto di Puccini. Lettura che si ferma «dove Puccini morì». Effetto strano, perché ti resta un senso di incompiutezza…
Perché Liù muore senza che il suo sacrificio porti frutto. E non c’è il sigillo della parola amore nello spettacolo, sottilmente crudele, di Paco Azorín. Che porta la sua Turandot in mezzo alle risaie, dove lavora continuamente, piedi nell’acqua e testa bassa per mondare il riso, un popolo oppresso dal potere che sta in alto, arroccato su ponti inaccessibili (lacche rosse, come nella Pechino ai tempi della favole del libretto nella scenografia disegnata dallo stesso Azorín). Un potere tutto al femminile, incarnato da Turandot, principessa che ha al suo servizio un esercito di amazzoni che torturano, tagliano teste, frustano il popolo. Idea interessante, ma che resta lì… non trova un suo sviluppo drammaturgico nel racconto a tratti duro, violento e a tratti più statico e innocuo che Azorín dispiega con un’estetica tutto sommato tradizionale, coro ai lati, protagonisti al centro, magari su pedane che li portano (efficacemente) in primo piano. Nessun affondo psicologico, piuttosto un richiamo – anche nei costumi di Ulises Mérida – alla commedia dell’arte, alle maschere che stanno all’origine della favola – Giuseppe Adami e Renato Simoni si ispirano a Carlo Gozzi.
Maschera, nel trucco bellissimo ed evocativo, è Turandot. Una Olga Maslova che lascia il segno. Musicalissima, canto cristallino, sfumato per una Principessa intima (non urlata, non esibita… lezione che per fortuna si sta diffondendo facendo dimenticare le urlatrici sovradimensionate di qualche tempo fa), alle prese con una guerra interiore che – visto anche il finale incompiuto – non sappiamo se vincerà o perderà. Non c’è il sigillo della parola amore perché Liù, una puntuale Ritrh Iniesta, dolente nel restituire i timori e i tremori della schiava innamorata di Calaf, muore senza che il suo sacrificio porti frutto. Perché non sappiamo se Calaf, che è Angelo Villari dallo squillo generoso, ma non sempre sostenuto e sfogato a dovere in acuti che vorresti più ariosi e volanti, non sappiamo se Calaf farà breccia nel cuore della Principessa. Nobile il Timur di Antonio Di Matteo, efficace il Mandarino di Alberto Petricca, difficile da mettere a fuoco nella vastità dello Sferisterio l’Altoum di Christian Collia. Ottima la resa del terzetto Ping, Pang, Pong, voci che si rincorrono, si intrecciano nella scrittura pucciniana e che a Macerata ben si fondono nel canto di carattere (d’altra parte sono maschere) di Francesco Pittari e Paolo Antognetti e in quello più umano e terreno di Ludovico Filippo Ravizza, voce di velluto, timbro avvolgente, di sicuro impatto.
Quattro recite di Turandot e quattro tutto esaurito nella vasta platea dello Sferisterio. Per un festival che segna un record di presenze e incassi con 49.078 spettatori e un incasso di 1.704.063 euro, miglior risultato di sessant’anni di rassegna. Ed è già pronta quella del 2025: dal 18 luglio al 10 agosto una nuova Vedova allegra e poi due classici dello Sferisterio, Macbeth con la regia di Emma Dante e il debutto come Lady di Marta Torbidoni, quest’anno applauditissima Norma, e Rigoletto nella lettura di Federico Grazzini.
Nelle foto @Luna Simoncini Turandot allo Sferisterio di Macerata