A Macerata torna la Bohème sessantottina di Leo Muscato Valerio Galli dirige un Puccini intenso con Mariangela Sicilia
Mimì muore in ospedale. Nemmeno il tempo di piangerla. Via le flebo che la idratavano e le sedavano la tosse. Un lenzuolo bianco a coprirla. E via, in fretta, in camera mortuaria. Gli altri, Rodolfo, Marcello, Musetta, Schunard e Colline, restano soli, con il loro dolore – dolore che segna il passaggio necessario dalla giovinezza all’età adulta – nella sala d’attesa. «Mimì» urla Rodolfo mentre il letto con la salma della ragazza è già oltre il telo che fa da parete di fondo, adesso lo vedi grigio, quasi quel verdino smunto degli ospedali, senza le macchie di colore che lo avevano acceso prima, schizzi di tempera di un pittore che dipinge i suoi quadri. Mimì muore in ospedale. Immagine potente. Pugno nello stomaco. Tutta sul testo letterario che servì a Giacomo Puccini – e ai suoi librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa – per prendere ispirazione per la sua Bohème. Perché nelle Scènes de la vie de bohème di Henri Murger Mimì muore sola, in ospedale, gettata poi in una fossa comune. «Non lacrima o fiore avrà la mia fossa, non croce col nome che copra quest’ossa» profetizzava Violetta nel suo straziante Addio del passato, anche lei, come Mimì (e quanto sono sovrapponibili i due personaggi…!), morta di tisi.
Mimì muore in ospedale. Immagine che commuove – e per una volta prima che la musica di Puccini ci metta lo zampino, «Sono andati, fingevo di dormire» –, commuove sino alle lacrime. Perché vera. Vissuta. Ferita che ancora brucia. Immagine che Leo Muscato mette come sigillo alla sua Bohème. Spettacolo del 2012 – ma ancora oggi potente, crudo e vero, arrivato qualche anno prima di un’altra Bohème altrettanto potente e cruda, quella bolognese di Graham Vick – tornato sul palco dello Sferisterio per il Macerata opera festival 2024. Con la sua carica di gioventù nei primi due quadri. Tutto sommato “tradizionali” nonostante il salto in avanti, alla Parigi della contestazione del Sessantotto: prima la soffitta, poi Momus che diventa un locale alla moda dove si balla la dace. Ma che nella seconda parte diventa una delle Bohéme più vere e inquiete Bohème. Con una potenza, cruda e immediata, che ti spettina dopo la pausa. Quando il terzo e il quarto quadro (Illica e Giacosa dividono il racconto in quadri, non in atti… scene di vita vissuta, scorci di esistenze, istantanee di gioventù da catturare e incorniciare, come dei quadri appunto), quando il terzo e il quarto quadro ci portano in un’altra dimensione, prima quella delle fabbriche occupate (è questa, secondo Muscato la Barriera d’Enfer) e poi nella soffitta dove Benoit, il padrone di casa, arriva con le forze dell’ordine per eseguire lo sfratto (d’altra parte Marcello e compagni non possono sempre passarla liscia e non pagare l’affitto) e dove poi, un cambio di luce – taglio cinematografico del racconto – ci porta nell’ospedale dove muore Mimì.
Ultima immagine – perché Bohème è stata l’opera che ha chiuso il cartellone – dell’edizione numero sessanta (edizione da record al botteghino) del Macerata opera festival, festeggiata e celebrata con un volume, Ad ornamento della città, a diletto del pubblico, che ripercorre le stagioni liriche nell’arena del gioco della palla col bracciale. Edizione numero sessanta che è stata un piccolo Festival Puccini in terra marchigiana. Inevitabile l’omaggio al compositore toscano in questo 2024 che celebra il centenario della sua morte. Turandot e Bohème nel cartellone dello Sferisterio insieme a Norma. Due titoli pucciniani su tre. Per uno sguardo tutto italiano (o quasi) sull’interpretazione, musicale e scenica, di Puccini. Puccini che ti guarda dal muro dello Sferisterio prima che inizi Turandot. Lo stesso muro che Muscato tappezza di manifesti – tutti rigorosamente in francese – slogan di lotta che stanno sul muro delle fabbriche, grida di battaglia dipinti Marcello nella soffitta, invece del classico Mar rosso che «ammollisce assidera» perché lui è uno dei capi della contestazione.
Una Bohème sessantottina – e la contestazione è forse il periodo storico che meglio racconta la carica rivoluzionaria dei bohémiens di Murger e di Puccini, ma anche le disillusioni che sono seguite a un periodo durante il quale si pensava di cambiare il mondo, ma le cui istanze libertarie si scontano ancora oggi – una Bohème sessantottina nelle belle scene di Federica Parolini e nei costumi “filologici”, chiassosi e attuali (li puoi vedere ancora oggi, in città, addosso a qualche nostalgico… ma anche sulle passerelle di un a moda che non inventa nulla, ma che orami cita e virgoletta) di Silvia Aymonino. Una Bohème sessantottina dove la carica di Puccini – ancora una volta maledetto per come ogni volta sa far scendere la lacrima, ma questa volta il “merito” è più di Muscato, perché il regista di Martina Franca sa colpirti e toccarti con il suo racconto e il suo finale di vita vissuta – è immutata, anzi esaltata dal racconto che non si sovrappone, mai alla musica, ma in essa trova la sua radice e la sua ragione.
Pucciniana la regia di Muscato, pucciniana la lettura che sul podio di una sempre puntuale Orchestra filarmonica marchigiana offre Valerio Galli. Bohème confidenziale, intima quella di Galli. Pucciniano doc (pucciniano e verista il direttore di Viareggio, nessuno come lui conosce Mascangi e tutto quel mondo…) che restituisce la partitura nel suo malinconico sguardo sulla giovinezza che (inevitabilmente) finisce. In perfetto appiombo sul racconto di Muscato. Galli tiene bene le briglie dell’orchestra nella buca lunga e stretta che segue tutto il palco in cinemascope dello Sferisterio – palcoscenico che è “la” sfida per ogni regista che è passato (e passerà) da Macerata – e del Coro lirico marchigiano Bellini, scenicamente efficace e presente (senza strafare). E bravissime sono anche le voci bianche dei Pueri cantores Zamberletti.
Una Bohème nella Parigi della contestazione del Sessantotto. Che inizia come tante Bohème, la soffitta e un Momus beat. Ma che nella seconda parte, tra le fabbriche occupate e l’ospedale dove muore Mimì, assesta un colpo di teatro che difficilmente si dimentica. Anche grazie alla prova intensa di Mariangela Sicilia, Mimì toccante e vibrante nel canto. Prima ragazza timida, ma anche scaltra – perché la chiave la perde di proposito e la lampada la spegne intenzionalmente – come tante sessantottine (e non solo) finto-timide e finto- umili, poi donna che matura in fredda quando capisce che la vita le sta sfuggendo, «Mimì è tanto malata, ogni dì più declina. La povera piccina è condannata». Così se il suo Mi chiamano Mimì è ancora intriso di una vitalità (seppur venata di malinconia, ma è la cifra che sempre affascina del canto della Sicilia) che fa sperare, il Donde lieta uscì diventa la consapevolezza, per nulla consolatoria, di una fine che non si può rimandare e arriva, nell’incedere quasi da marcia funebre sel Sono andati.
Incassato il forfait di Yusif Eyvazov (che nelle stesse sere era, però, a Verona, in Arena, con un altro titolo pucciniano, Tosca) Rodolfo è passato a Valerio Borgioni (previsto inizialmente in locandina solo per una replica, ma poi diventato titolare del ruolo in ogni serata) generoso nello squillo, ma non sempre “pucciniano” nel canto che arriva a tratti opaco come la presenza scenica poco incisiva. Mario Cassi è un Marcello di solida esperienza, capace di condurre il gioco scenico e musicale con intelligenza e graffio modero. Come moderno arriva il Colline di Riccardo Fassi, interprete che sempre lascia il segno con un canto scolpito, musicale, sulle intenzioni di musica e testo e con una presenza scenica capace di calamitare l’attenzione. Lo fa anche questa volta – Fassi quest’anno ha cantato in tutti i tioli di Macerata, Colline in Bohème, Oroveso in Norma e Timur in Turandot – insieme allo Schunard di un efficace, musicalissimo e incisivo (nel canto e nella scena) Vincenzo Nizzardo. Brillante e dolente (nella preghiera asciutta e umanissima – geniale Puccini – del Madonna benedetta fate la grazia a questa poveretta) al punto giusto la Musetta di Daniela Cappiello. Azzecatissimo il Benoit, il padrone di casa che solo apparentemente si fa fregare, di Francesco Pittari, puntuale l’Alcindoro-vitellone di Giacomo Medici.
«Fra mezz’ora è morta» dice Schunard agli amici, per preannunciare la morte di Mimì. Frase sempre un po’ buttata lì, ma che qui funziona alla perfezione perché il musicista la dice dopo aver parlato con il medico dell’ospedale… bellissima intuizione di Muscato. Tutta sulla musica. Come la sua Bohème sessantottina. «Avec nous combact pour vivre libre» l’unico manifesto di lotta che resta illuminato sul grande muro dello Sferisterio mentre Mimì muore e viene coperta da un lenzuolo e portata in camera mortuaria. «Con noi combatti per vivere libero» leggi mentre chi fino a poco tempo prima ha provato a fare la rivoluzione piange.
Nelle foto @Luna Simoncini Bohème allo Sferisterio di Macerata