A Pesaro torna l’allestimento del 2018 di Pier Luigi Pizzi Protagonisti Andrzej Filonczyk, Jack Swanson e Maria Kataeva
Sono tutte in guerra le donne del Rof 2024. Anche quelle che si raccontano (ce le racconta il compositore pesarese) con il sorriso. Le donne di Gioachino Rossini che a Pesaro, sul palco – sui palchi, quello in cinemascope della Vitrifrigo Arena, quello ritrovato dell’auditorium Scavolini e quello all’italiana del Teatro Rossini – sui palchi del Rossini opera festival, raccontano la loro storia di anime in trincea. In trincea. O, meglio, sulle barricate. Come Ermione che si scaglia su Pirro, tigre assetata di vendetta, forse di amore. Come Bianca, decisa a sposare l’uomo che ama e non quello che la ragione di stato (incarnata dal padre) le vorrebbe imporre. Come Ernestina che, con un sorriso stralunato, combatte (e vince) i pettegolezzi di una società di campagna di ieri, ma dove ci leggi il nostro tragicomico presente olimpico – dicono che sia un uomo, castrato dal padre per evitare il servizio militare, progetto sfumato, ma aggirato con un travestimento in abiti femminili. Come Rosina. Combattente, lei ostaggio di un vecchio che vuole sposarla per mettere le mani sulla sua dote, per sposare l’uomo che ama – ma la guerra, lo sappiamo, non sarà finita, in agguato ci sono Le nozze di Figaro (certo c’è Beaumarchais perché Mozart scrive il sequel prima del prequel di Rossini) con la guerra che la Contessa deve combattere per tenersi il marito, farfallone tra le donne di casa.
Le donne del Rof 2024. Ultima, in ordine di apparizione – in questa edizione extralarge, con quattro titoli anziché i soliti tre – la Rosina de Il barbiere di Siviglia, titolo al maschile (e ruoli iconici al maschile, oltre al baritono del «Figaro qua, Figaro là» c’è basso della «Calunnia» e c’è il tenore del «Cessa di più resistere», perché a Pesaro si fa l’edizione critica e dunque il – bellissimo – rondò del tenore. Titolo al maschile che torna al Rof nello spettacolo (datato 2018) monocromo di bianco abbagliante di Pier Luigi Pizzi (che firma, come sempre, regia, scene e costumi). Titolo iconico, il più pop di tutti quelli rossiniani e non solo, perché tutti abbiano canticchiato o fischiettato il «Tutti mi cercano, tutti mi vogliono…» di Figaro – e forse anche per questo difficile da affrontare non solo perché Rossini scrive il tragico e il comico allo stesso modo – che non poteva mancare nell’edizione speciale del Rossini opera festival per Pesaro Capitale italiana della cultura 2024.
Confezione collaudata, vista e rivista… e non solo a Pesaro (a gennaio ha inaugurato la stagione del Regio di Parma, ad esempio). Confezione sempre uguale a se stessa (e sempre uguale ai tanti spettacoli che Pizzi allestisce, confezioni che quasi sono intercambiabili da un titolo all’altro…) con pregi – quello di essere un contenitore nel quale ogni cantante che ci si trova dentro fa il “suo” personaggio – e difetti – quello di essere a volte “sopra” la musica come nei balletti rap e nelle infinite, estenuanti passerelle che in qualche modo sono “colpa” non sempre del regista, ma della logistica della Vitrifrigo Arena che ha, appunto, una passerella che abbraccia l’orchestra e serve per portare il racconto in primo piano, quasi in mezzo al pubblico; quello di trovate non azzeccate che magari nelle riprese si potrebbero anche ripulire…) come lo spogliarello di Figaro sul Largo al factotum o la finta comunione, con salame e prosecco, di Basilio a Bartolo sulla Calunnia… Un Barbiere in bianco e nero (solo qualche macchia di colore nei costumi pastello di Rosina, nel mantello rosso del Conte, nell’abito viola, alla faccia della superstizione, di Berta ad accendere il palco) in un luogo senza tempo e senza identità, asettico nel suo chiarore e nel suo impacchettare sedie e tavoli in teli bianchi. Un mondo, un non luogo che non ha nulla a che vedere con la Siviglia del libretto quello di Pizzi, che veste i personaggi alla moda dell’Ottocento napoleonico, ma li fa ballare come rapper e trapper di oggi.
Ed è un Barbiere in bianco e nero anche quello che propone dal podio Lorenzo Passerini. Bianco e nero per dire i contrasti netti, la lettura marcata e quasi espressionistica che si ascolta. Tempi veloci, stacchi netti, ritmo frenetico… sempre. Così a soffrire sono i momenti più patetici, lirici… che pure non mancano nella partitura – che. Inutile dirlo perché siamo a Pesaro, è proposta integralmente (non una parola tagliata nemmeno da un recitativo – e come è bello ascoltarli tutti) nell’edizione critica di Alberto Zedda. Bianco e nero per dire che non ci sono mezze misure nell’approccio alla partitura del direttore, alla guida di un Orchestra sinfonica Rossini sempre ad inseguire i tempi vorticosi staccati dalla bacchetta di Passerini. Che è in perenne movimento, come se volesse avere accesi sempre addossi i riflettori, ipercinetico nel cercare lo sguardo e la sintonia dei cantanti (che, come l’orchestra, comunque viaggiano per conto loro…) con gesti, ammiccamenti, persino canto a fior di labbra che rischiano di distogliere l’attenzione da quello che accade sul palco perché distratti da ciò che succede intorno al podio.
Certo, Barbiere alla fine vince sempre. Anche un Barbiere in bianco e nero, che sembrerebbe a tratti fuori stile. A Pesaro vince grazie a un cast di rossiniani doc. Capitanato dal Figaro di Andrzej Filonczyk. In stile, perfettamente, nel restituire tutta la vitalità e la furbizia di un personaggio che prima ancora che musicale è letterario. Filonczyk è un Figaro che straripa di impeto giovanile, vocalmente e scenicamente – tecnica e musicalità ci sono e si sentono nel personaggio modellato, nel Barbiere a porte chiuse del 2020 dell’Opera di Roma, da Daniele Gatti, e collaudato a Parma con Diego Ceretta. Un Figaro a briglia sciolta, musicalissimo quello del baritono polacco grazie ad una voce sempre a posto, intonata, presente e a piombo sul racconto. In stile (seppur con qualche aggiustamento di tecnica necessario nella salita all’acuto) il Conte d’Almaviva di Jack Swanson, voce da tenore rossiniano – non si può spiegare com’è, ma basta ascoltare due note per capirlo… e farsi venire alla mente i rossiniani di un recente, glorioso passato – presenza scenica efficace negli slanci giovanili e irresistibilmente comici che il tenore del Minnesota offre al suo personaggio.
Vincono. Come Rosina. Che vince la sua guerra, la guerra delle donne del Rof. Lei lo fa con un sorriso che è quello di una convincente Maria Kataeva. Canto e declamato mixati a dovere da Carlo Lepore, Bartolo che arrota la erre e stacca con moderna sensibilità il sillabato che Rossini scrive anticipando di secoli rap e trap. Don Basilio ha la tecnica solida e la grande intelligenza scenica e musicale di Michele Pertusi. Applauditissimo la Calunnia come tutti dopo le loro arie. Non c’è allestimento di questo Barbiere di Pizzi che non abbia avuto William Corrò nei panni di Fiorello. Puntuale e immancabile anche questa volta. Dove Berta ha la musicalità e la giusta vena malinconica di Patrizia Biccirè, efficacissima nel disegnare il personaggio stralunato… perché oltre lo starnuto c’è di più. Musicalissima, così come “musicalissimo” è l’Ambrogio muto, “danzato” in punta di piedi in una coreografia surreale da Armando De Ceccon.
Le guerre, spesso, si risolvono a tavola. E i trattati di pace si firmano a un banchetto. Succede anche nel Barbiere di Pizzi. Tutti a tavola, dopo aver cantato ciascuno la strofa del suo rondò – «Di sì felice innesto serbiam memoria eterna…», «Costò sospiri e pene un sì felice istante…», «… più bel destin ti aspetta, su vieni a giubilar» –, per una “fazzolettata” degna del Castello delle cerimonie.
Nelle foto @Amati/Bacciardi Il barbiere di Siviglia