Pesaro, grande successo per l’opera ritenuta irrappresentabile Protagonisti Anastasia Bartoli, Enea Scala e Juan Diego Florez Dirige Michele Mariotti, regia dark tra palco e realtà di Erath
Alla fine a morire è l’Amore. Trafitto dalla sua stessa freccia. Corpo – corpo di cosa che un corpo non l’ha, ma che fa palpitare i corpi, li attrae e li fonde – corpo candido immolato nell’estetica dell’ultima, folgorante immagine dello spettacolo, moderna deposizione, pop e psichedelica, intreccio caravaggesco di corpi trafitti da luci led che li illuminano sbalzandoli dal nero che li avvolge. Immolato, l’Amore, sull’altare della vendetta. Della solitudine. Dell’incomunicabilità. Muore l’Amore perché tutti (forse) amano, ma nessuno è riamato da chi ama. Oreste ama Ermione che ama Pirro che ama Andromaca, ma Ermione non ama Oreste, Pirro non ama Ermione, Andromaca non ama Pirro… Amano, ma non sono riamati, questi figli di eroi, gli eroi della guerra di Troia – Oreste è figlio di Agamennone, Pirro di Achille, Ermione, in realtà, più che di un eroe è figlia di quella donna che ha scatenato la guerra, Elena. Amano non riamati. O forse amano solo se stessi. Incapaci di amare e di accettare il rifiuto. Tragedia della vendetta, dunque. Tragedia della solitudine. Tragedia dell’incomunicabilità. Alla fine, davanti a quell’immagine voluta come sigillo alla sua Ermione al Rof dal regista Johannes Erath, davanti a quel corpo immolato in cui muore l’Amore, riavvolgi il nastro e ti accorgi che nessuno si è quasi mai sfiorato, toccato, abbracciato… Perché quella freccia che trafigge l’Amore non è mai andata a segno. E non può essere solo destino. A deviarla sono stati gli uomini. Indurendo il cuore.
Tragedia della solitudine, dell’incomunicabilità. Tragedia di un mondo che ha contorni e nomi e storie del mito, ma che è specchio (o forse è lui stesso trasfigurato in una profetica visione) del nostro mondo, Ermione. Mondo di solitudine e di incomunicabilità e di vendetta – perché la logica della guerra è questa, ce lo dice quotidianamente ciò che accade in Ucraina, in Medioriente, in Myanmar… Pirro come uno dei tanti signori della guerra. Arricchito. Volgare. Sprezzante. Ermione donna con i pantaloni, che vuole nutrirsi di potere. Gestirne le trame. Oreste uomo che vorrebbe la pace, ma che è costretto a fare la guerra. Tragedia dell’apparire. Tragedia di chi, suo malgrado, deve recitare un ruolo. Modernità che (ancora una volta) Gioachino Rossini ci butta in faccia. Con Ermione. Opera tra le più belle (impossibile sceglierne solo una, dove metteremmo Tell, Semiramide, Cenerentola…, dunque una “tra le più” belle…) del compositore, sicuramente la più sperimentale – carattere che si palesa da subito, sulle note della Sinfonia contrappuntate da un coro interno «Troia! Qual fosti un dì!» – tra classicismo delle forme e affondi novecenteschi nella vertiginosa discesa (quasi piscologica) nel baratro nero della coscienza. Moderna. Troppo moderna. Forse anche per questo confinata in un limbo, dimenticata dopo la prima di Napoli del 1819 (fatti due conti Rossini la scrive a 27 anni, nello stesso anno di Bianca e Falliero, altro titolo del Rof 2024, e de La donna del lago) e riscoperta prima sul finire degli anni Settanta a Firenze, poi consacrata da disco (con Cecilia Gasdia, Ernesto Palacio e Chris Merritt diretti nel 1986 da Claudio Scimone) e messinscena al Rof, nel 1987 con Monserrat Caballé (ma allora la produzione non fu felicissima, con la diva che non sapeva la parte…). MA ritenuta, comunque, irrappresentabile per la scrittura vocale impervia. Tragedia della solitudine, dell’incomunicabilità. Tragedia dell’apparenza quella che Erath racconta nella sua Ermione, sicuramente il miglior spettacolo del Rossini opera festival 2024 (ma il migliore non solo di questa edizione… e non solo del Rof). Applauditissimo, anche perché la partitura, vuoi perché di raro ascolto vuoi per la sua unicità, è tra le più amate e “desiderate” dai rossiniani (e non solo da loro).
Tragedia della solitudine, dell’incomunicabilità che Rossini racconta buttandoci in faccia la modernità di una vicenda che sa farci guardare al nostro presente. Di politica. Di guerra. Di copioni da recitare di fronte alla società. «Potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso». Così Ermione, l’Ermione di Johannes Erath e Michele Mariotti – visione unitaria, lettura all’unisono quella del regista tedesco e del direttore d’orchestra pesarese che si sono voluti reciprocamente per questo spettacolo che segna la storia del Rof –, così Ermione abita in teatro, tra palcoscenico e camerini, tra ribalta e dietro le quinte. Mondo senza tempo. Dove tutto è possibile. Luogo che trasfigura il reale. Lo amplifica, lo deforma, per farcelo comprendere (paradossalmente) ancora meglio. Allora Anastasia Bartoli è Ermione. Che detto così… Anastasia Bartoli è Ermione, Juan Diego Florez è Oreste, Enea Scala è Pirro… sembra uno di quegli annunci radiofonici che danno lettura della locandina di un’opera trasmessa in diretta nel programma della sera. Anastasia Bartoli è Ermione, detto così è il cuore drammaturgico dello spettacolo di Erath. E inevitabilmente… Ermione è Anastasia Bartoli. Costume da dark lady di borchie e tulle nero, chioma nerissima in libertà, trucco espressionista. Personaggio e interprete si sovrappongono, si confondono nella lettura di Erath – e vale anche per Juan Diego Florez che è Oreste (completo bianco, elegantissimo come il tenore peruviano è nella vita) e per Enea Scala che è Pirro (camicia pop aperta su un torace scolpito, perfettamente instagrammabile sul profilo del tenore siciliano).
Così Ermione è Anastasia Bartoli, consacrata rossiniana doc e star del Rof con questa Ermione che arriva dopo il successo dello scorso anno con il ritrovato Eduardo e Cristina. E Anastasia Bartoli è Ermione. Dark lady che si muove tra palco e realtà. Tra ribalta e dietro le quinte. Tra passerella (immancabile quella che alla Vitifrigo Arena abbraccia l’orchestra, usata spesso per riempire vuoti di idee, ma qui drammaturgica, narrativa, parte integrante della scenografia) e camerini. Si guarda (si guarda lei, ma si guarda anche Pirro) in una cornice di lampadine dove però manca lo specchio. Impossibile guardarsi dento. Lo sguardo deve andare oltre, oltrepassare la quarta parete… ferire l’altro – magari con quella stessa freccia che dovrebbe far scoccare l’amore. E lo sguardo di Ermione/Anastasia è penetrante. Interroga. Ti interroga. Ti butta in faccia le domane della vita. Che sono poi le domande che Rossini mette nella sua musica.
Personaggio e interprete si sovrappongono, a volte si confondono, raccontano l’uno la storia dell’altro in questa rilettura di Erath. Evocati, quasi personaggi pirandelliani in cerca d’autore, dalla musica. Catturati, questi uomini allo sbando, in un’istantanea di quotidiana disgregazione familiare. Coatta e volgare la famiglia di Pirro. Arricchiti, eccessivi in ogni cosa (abiti e movenze) vincitori di un guerra che non ha lasciato traccia – la pietà che Omero mette nei suoi racconti epici qui è bandita in una violenza cercata ed esibita. Una tavola apparecchiata, su in alto, alla fine della scalinata nera che ingombra il palco (lo stesso tavolo, spezzato in due, è in primo piano, sulla passerella, zoom che il regista sceglie per gli snodi cruciali dell’azione), una tavola imbandita, che dovrebbe essere luogo di condivisione, di famiglia, ma che si trasforma in campo di battaglia, attorno alla quale si consuma, sulle note della Sinfonia, l’antefatto. «Troia! Qual fosti un dì!». Lo strappo di Pirro, un piede sul tavolo, in mano un bicchiere di vino, che mette da parte la promessa di sposare Ermione perché vuole come sposa Andromaca, la vedova di Ettore, il nemico sconfitto a Troia. E per ottenerla le promette di salvare il figlio Astianatte – un sacchetto di plastica sempre in testa, sempre in bilico sulla fine per le sevizie della corte di Pirro – dalla morte che impone il codice di guerra. Muore l’amore. Già all’inizio.
Amore. E guerra. E morte. Che da sempre sono i cardini su cui si regge l’opera. «Potenza della lirica…» che da sempre conquista, come tutta la letteratura popolare (dalla tragedia in poi… dall’epica in poi…) dalla quale, spesso, la lirica attinge… il caso di Ermione qui raccontata dal libretto di Andrea Leone Tottola che si ispira a Racine (e anche ad Euripide). Telenovela ante litteram, oggi diremmo serie tv che, in costume o in abito moderni, raccontano disfacimenti familiari… tra amore e guerra. E la lirica da sempre conquista con storie di amore e guerra. E anche morte. Perché spesso si muore. In guerra. Una guerra che è sì una delle tante che si sono succedute (e si ripetono, lezione non compresa della Storia, ancora oggi) e che fanno da sfondo alle storie vere o di fantasia dei libretti dei melodrammi. Ma una guerra che è (ancora più spesso e ancora più drammaticamente) interiore. Che fa morire dentro. Pur restando vivi.
La guerra che combatte Ermione, umiliata da Pirro che le preferisce come moglie Andromaca, la vedova del nemico. Erath la rilegge come una telenovela. Meglio, forse, come una serie tv di quelle che si moltiplicano sulla varie piattaforme on demand. Estetica aggiornata ai giorni nostri. Dark. Andamento cinematografico. Racconto serrato, disseminato di simboli e rimandi anche di non immediata comprensione. Montaggio in dissolvenza giocando sui piani che offre il vasto spazio della Vitrifrigo Arena. Cifra inconfondibile delle regie di Erath nel palco con cornici di led in fuga prospettica (qui rettangolari, in altri allestimento ellittiche, come in un Faust a Köln) e scale irte sulle quali si consuma la tragedia – scene eleganti ed evocative di Heike Scheele, costumi chiassosi di Jorge Jara, video (poetici quelli girati sul mare di Pesaro) di Bibi Abel. Erath svuota i personaggi della loro classicità, della loro statura morale e ne fa un campionario di umanità che possiamo trovare oggi su story di Instagram e, dunque (umanità che imita il virtuale), nelle nostre città. Li scandaglia a livello psicologico in uno spettacolo ricco di simboli (anche di non facile e immediata lettura). Per poi provare a ricostruirli da dentro. Per dare un senso a una tragedia che è tragedia della solitudine e dell’apparenza. Che avviene sotto gli occhi di tutti, anche quando il libretto vorrebbe i personaggi fuori scena. In un teatro – bella e vertiginosa la proiezione in bianco e nero di un teatro all’italiana. Sedie di legno e velluto. Sulle quali siedono tutti, personaggi che si fanno spettatori, nella seconda parte dell’opera, quando la tragedia si compie ed Ermione impone ad Oreste di uccidere Pirro, sedici minuti di teatro all’ennesima potenza nella grande scena che Rossini scrive, riscrivendo le regole dell’opera (anche di quella che lui aveva fino ad allora frequentato), per Ermione, «Essa corre al trionfo». E il tempo si ferma. In platea e sul palco. Spettatori i personaggi come lo siamo noi in platea. Il teatro, ancora una volta, diventa specchio della vita. Tutti sospesi tra palco e realtà. In quella scena che Erath costruisce come un lungo piano sequenza. In perfetto appiombo con la musica di Rossini.
E quella di Ermione è una musica tipicamente “rossiniana”, impossibile confondersi. Ma è anche un grande laboratorio, forse un unicum, dove il compositore, ripensando le forme, costruisce un racconto serrato e teatrale nella perfetta alchimia di scene, arie, duetti e concertati. Musica restituita in tutta la sua grandezza e la sua bellezza unica da Michele Mariotti. Il direttore pesarese, che ha fortemente voluto tornare sul podio del Rof proprio con Ermione, restituisce la partitura – sul leggio l’edizione critica di Patricia Brauner e Philip Gosset – in un unico grande respiro, costruendo passo per passo un racconto dove la tensione è tutta in crescendo, dove ogni dettaglio è soppesato, ogni colore cercato e trovato in un’efficacissima Orchestra sinfonica nazionale della Rai. Il Rossini di Mariotti, festeggiatissimo alla fine, sgorga naturale, nulla è esibito, dimostrato, ma restituito con una naturalezza che spiazza. Naturalezza frutto di un lungo lavoro di concertazione. Che senti nell’intesa perfetta con il palcoscenico, nel dialogo sempre alla pari tra canto e tessuto orchestrale. Un’Ermione inquieta quella di Mariotti, immersa nel nero (che è lo stesso dello spettacolo di Erath) di una tragedia della solitudine e dell’incomunicabilità. Nero nel quale, colpiti da luci caravaggesche, vengono illuminati (da una luce livida, certo, ma a tratti anche avvolgente e intrisa di pietas) i personaggi.
Anastasia Bartoli è Ermione. Non solo perché il regista le cuce addosso lo spettacolo. Ma perché è impressionante l’immedesimazione scenica e vocale del soprano con il personaggio – a alla prima, agli applausi finali che per lei sono stati un trionfo (dopo quelli alla fine della sua grande scena), sul volto si sono disegnate lacrime vere. Voce (un torrente sempre ben governato, in acuto, nei centri, nella discesa negli abissi che apre uno squarcio di terrore come a mostrarci un inferno già sulla terra), temperamento (grande tenuta, energia che si diffonde), istinto scenico (sempre in parte, sempre dentro il personaggio, voce, temperamenti, istinto scenico per un’Ermione che riscrive la storia dell’interpretazione con un canto dove agilità e tragicità si fondono e si compenetrano. Enea Scala è Pirro. Applauditissimo. Un Pirro tutto istinto, capace di divorare il palcoscenico (bellissimo il duetto con Ermione) e di dominare con un canto musicalissimo e sempre controllato – al netto di qualche increspatura negli acuti in pianissimo – una parte che pochi oggi possono affrontare. Juan Diego Florez è Oreste. Applauditissimo. Un Oreste tutto testa. Altro ruolo impossibile da cantare. Non per il tenore peruviano – che è anche direttore artistico del Rof (e dunque scritturatore di se stesso…) – che calamita l’attenzione appena entra in scena, in cima alla scalinata, in quell’occhio/luna/buco nero sull’anima che Erath mette come punto di fuga della prospettiva scenografica. Florez non si risparmia, scolpisce il suo canto (sempre un miracolo gli acuti che non sembrano essere intaccati dal tempo) con dolente partecipazione, disegnando un personaggio sconfitto che deve piegarsi a una vita che non vorrebbe. Victoria Yavarova è una Andromaca di autorevole e nobile presenza, voce di velluto, canto avvolgente, accenti sempre drammaturgici per un personaggio tragico (nonostante per lei ci sia il comicamente involontario appellativo da parte di Ermione «avanzo di Troia»), l’unico, forse, che con le sue scelte tiene testa al destino.
Teatro. Quello che Erath chiede agli interpreti. Ed è questa la sfida che, dopo la restituzione di tutte le opere in edizione critica, attende ora il Rof. Perché il Rof resta “il” riferimento rossiniano per il mondo, ma oggi la valorizzazione dell’autore di casa – e compito di un festival è di proporre linee interpretative, essere avanguardia – deve passare attraverso una rilettura registica, nell’oggi, di Rossini. La strada è segnata. Dopo Erath il prossimo anno arriva Calixto Bieito per Zelmira poi toccherà a Tobias Kratzer. Teatro che ben restituiscono il Fenicio di Michael Mofidian (meglio nei recitativi rispetto al canto, però), il Pilade di Antonio Mandrillo, la Cleone di Martiniana Antonie, la Cefisa di Paola Leguizamon e l’Attalo di Tianxuefei Sun.
Attori e spettatori, come noi che siamo in platea, di una tragedia della solitudine, dell’incomunicabilità. Attori e spettatori, tra palco e realtà sulla ribalta della vita. Dove ognuno combatte una guerra. E dove alla fine a morire è l’Amore.
Nelle foto @Amati/Bacciardi Ermione al Rof