Torre del Lago, tutto Puccini firmato Pizzi

Il regista, insieme a Gasparon, firma il Festival del centenario riportando i titoli di Puccini al cuore del racconto musicale Erika Grimaldi è Tosca, Adolfo Corrado illumina Bohème

Le mani in tasca. L’immancabile sigaretta tra le labbra. Cappello in testa. Bavero dell’impermeabile alzato. L’immagine iconica, da più di cento anni, è quella. Non c’è ritratto, non c’è fotografia che non lo racconti così. Con quello sguardo. Profondissimo. Che ti interroga ogni volta. E che qui, scolpito nel bronzo sulle sponde del suo lago, Massaciuccoli di canne e ninfee tante volte scandagliato con fucili e carabine (sono ancora sottovetro, nella stanza della caccia della sua villa…), qui va lontano. Si perde in quell’orizzonte che la sera, quando il sole d’estate cala e l’aria umida e calda si alleggerisce di vento, si colora di rosa e di azzurro. Aria che si riempie – e che si illumina, nel viale alberato che porta al lago che si accende di scritte luminose con le frasi più pop, da Che gelida manina a Vissi d’arte – aria che si riempie della sua musica. Quella diffusa dai piccoli altoparlanti dei baretti in riva al lago… In quelle trine morbide… e poi un Recondita armonia di struggente malinconia. La musica che arriva da oltre il ponticello in legno che attraversa il lago. Riconoscibilissima. I primi accordi del coro a bocca chiusa della Madama Butterfly sono il segnale che lo spettacolo sta per iniziare. Attraversi il ponte, lasci la statua a guardare l’orizzonte che si fa di un blu sempre più intenso e sei lì nell’arena azzurra e grigia di legno, vetro e cemento che affaccia sul lago – 3370 posti per la struttura costruita nel 2008, immersi in oltre 7mila e 500 metri quadrati di verde e arte contemporanea. Tutta da fotografare e da postare sui social con l’hastag #puccini100

Tappa imprescindibile Torre del Lago in questo 2024 che ricorda i cento anni dalla morte di Giacomo Puccini – era il 29 novembre 1924 quando il compositore toscano si spegneva a Bruxelles, aveva progettato di tornare a Torre del Lago, ma senza riuscirci. Appuntamento irrinunciabile quello con il Festival Puccini a Massaciuccoli. Puccini lasciò la sua villa, che oggi è un bellissimo e curatissimo museo gestito dalla fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini (nessun contributo pubblico per il grande lavoro di conservazione e ricostruzione degli ambienti pucciniani, l’ultimo, in ordine di tempo il tavolo da pranzo nella veranda liberty e presto nella rimessa arriverà una macchina d’epoca, perché Puccini, uomo del suo tempo, amava le auto e la (futurista) velocità… Puccini lasciò la sua villa, incastonata in un rigoglioso giardino (anche questo fatto rinascere dalle sterpaglie dalla fondazione e dal suo presidente Giovanni Godi), nel 1919, infastidito dalla costruzione di una (nauseabonda) torbiera, e si trasferì a Viareggio, un’altra villa, nella pineta sul mare, altro edificio oggi in ristrutturazione… lavori in dirittura d’arrivo per le celebrazioni del centenario.

Appuntamento irrinunciabile quello con il Festival Puccini a Massaciuccoli. Edizione numero settanta della rassegna lirica, dunque un altro motivo per celebrare e festeggiare. Anche se la prima edizione, prova generale della manifestazione che oggi richiama turisti musicali da tutto il mondo (basta ascoltare le lingue che si mischiano in platea e vedere le targhe dei pullman in attesa nei parcheggi di erba e terra lungo il viale che porta al lago), fu nel 1930 – prima vicende alterne, poi, dal 1972 si è andati in scena con la rassegna ogni anno, con i più grandi interpreti pucciniani. Era il 24 agosto 1930 quando Pietro Mascagni salì su un podio improvvisato sul piccolo molo di Torre del Lago –oggi dove c’è la statua di Puccini c’è un’ampia piazza, ma un tempo Massaciuccoli arrivava a lambire il giardino della villa – per una Bohème messa in scena da Giovacchino Forzano (librettista di Puccini al quale il compositore, pochi giorni prima di morire, scrisse che avrebbe voluto vedere una sua opera rappresentata davanti alla sua villa… detto fatto…) con gli artisti del Carro di Tespi lirico. Opera, che già nasce come forma popolare, nella sua forma più popolare, pop, girovaga e ambulante su un carro che arriva, come il circo o i saltimbanchi da fiera, tra il popolo. Che gelida manina… ti ritrovi a cantare pensando a Bohème, frase, come tante di Puccini, diventate quasi proverbiali… Sono andati? Fingevo di dormireHo tante cose che ti voglio dire o una sola, ma grande come il mare… canti ci scappa la lacrima, maledetto Puccini, che ti prende lo stomaco con le sue melodie.

Bohème all’inizio del lungo cammino del Festival Puccini. Bohème anche oggi, sempre sul molo di Massaciuccoli trasformato in un parco della musica per realizzare il desiderio di Puccini. Bohème anche oggi nel cartellone completamente disegnato (e realizzato, in collaborazione con Massimo Gasparon) da Pier Luigi Pizzi. «Direttore artistico, ma solo per questa edizione del centenario, questa la condizione che ho posto ai vertici della fondazione quando mi hanno chiesto una mano» dice il regista (e scenografo e costumista) novantaquattrenne che per questo 2024 ha voluto proporre un percorso cronologico, da Le willis, esordio operistico pucciniano, all’incompiuta Turandot, titolo che torna ogni anno nei cartelloni di Torre del Lago. In mezzo, sino al 24 agosto, una versione inedita di Edgar (proposta in una serata che sfiora le quattro ore insieme a Le willis) e poi Manon Lescaut, Bohème e Tosca e un’appendice a settembre con Madama Butterfly (non si vedrà però l’allestimento del 2023 di Pizzi, ma quello di Vivien Hewitt) e i concerti “pucciniani” della Staatskapelle di Dresda con Daniele Gatti (prima uscita italiana del musicista milanese da direttore musicale di Dresda, mandato che si inaugura il 31 agosto) e della Rundfunk orchester di Berlino con Vladimir Jurovskij. Sempre presente, in fila 9 di platea, Pizzi. Infaticabile. Di giorno prova Turandot, di sera sovrintende agli spettacoli (annota, suggerisce, corregge…). E programma la trasferta a Pesaro, dalla “concorrenza” musicale estiva, da Rossini, perché il Rof 2024, quello in versione XXL per Pesaro capitale italiana della cultura, riprende il suo Barbiere di Siviglia. «Lo riprendo io, naturalmente» sorride seduto a fianco della sua “squadra”. Gasparon, il coreografo Gheorghe Iancu… quest’anno impegnati su tutto Puccini.

Un Puccini ridotto ai minimi termini, essenziale, quello proposto da Pizzi – che di Puccini in realtà ne ha fatto poco nella sua lunga carriera, Tosca, lo scorso anno Madama Butterfly e ora il cartellone 2024. Un Puccini ricondotto al nocciolo, quello della Tosca (edizione 2022, nata a Caracalla, portata a Torre del Lago e ora rimontata, ripulita dall’ambientazione nell’Italia fascista voluta dal regista). Niente Sant’Andrea della Valle, niente palazzo Farnese nella Tosca asciutta e squadrata di Pizzi che, quasi con un colpo di spugna, sembra voler cancellare qualsiasi incrostazione del tempo e della tradizione (che a volte rischia di scadere nel caricaturale) dalle opere del compositore. Pareti e scale spigolose e neutre (marchio di fabbrica degli spettacoli di Pizzi) sulle quali come su un foglio bianco vengono riscritti i titoli pucciniani. Pochi elementi, una cupola, un arazzo, l’angelo con la spada che domina la fortezza sul Tevere, appaiono sul grande ledwall che chiude il palcoscenico sul fondo – e che in qualche modo impedisce la visione del lago, anche se la luna, rossa e quasi piena, riesce a irrompere all’orizzonte quando la mezzanotte si avvicina. Pochi elementi evocano, suggeriscono i contorni di una vicenda tutta raccontata dagli interpreti, vestiti “alla moda” del tempo, fedeli alle indicazioni del libretto (in Tosca siamo in epoca napoleonica, nella Bohème, firmata, però, da Gasapron, la fedeltà al libretto è meno stringente).

Puccini ai minimi termini. Essenziale. Così l’attenzione è tutta per la musica, amplificata e spazializzata (abbastanza efficacemente) come il canto (che sembra dunque venire proprio da dove si posizionano i cantanti) nella platea del Gran teatro. La musica di Tosca la dirige Daniele Callegari, attento al dettaglio, alla proiezione novecentesca della partitura, ma non sempre sostenuto da una generica e a tratti sommaria orchestra del Festival Puccini – peccato per assoli che passano veloci, senza emozione… che è tutto in Puccini. Callegari asciuga la partitura da inutili puccinismi (che spessoa  torto sono confusi con le emozioni… quelle sono la musica che sa trasmetterle) e prova a ritrovare il nocciolo di una partitura che ha inaugurato il Novecento. Una Tosca lirica – più lirica che verista – come quella che disegna, benissimo, con il suo canto Erika Grimaldi. Tosca lirica, appunto, misuratissima, quasi cameristica nella raffinatezza di un canto mai esibito che il soprano cesella in dettagli bellissimi – il suo Vissi d’arte arriva dritto al cuore per delicatezza e drammatica, sofferta intensità. Generoso in acuto (ma la salita in alto non è sempre immune da aggiustamenti, così come il canto da “tenore di una volta” piega spesso verso un verismo troppo accentato) il Cavaradossi di Alejandro Roy. Cupo e spigoloso lo Scarpia di Dalibor Jenis, marcatamente cattivo più che suadentemente maligno tanto che la bellezza di un personaggio che incarna un potere sottile, che pretescamente insinua, striscia… distrugge lentamente un po’ si perde. Asciutto, mai caricaturale il Sacrestano di Andrea Concetti. Giustamente sinistro lo Sciarrone di Gianluca Failla. Scenicamente efficaci, ma non sempre a fuoco e in appiombo con la buca Alessandro Abis (Angelotti) e Luigi Morassi (Spoletta). Alice Pellegrini restituisce con bella partecipazione lo stornello del Pastorello mentre le campane disegnano l’alba su Roma e le nuvole corrono nel cielo (del ledwall) sopra Castel Sant’Angelo.

Nuvole anche nel cielo (sempre di ledwall e sempre disegnato con tratto asciutto e stilizzato in perenne loop da Matteo Giorgetti) di Parigi. La Parigi di Bohème. Meno asciutta di Tosca, più tradizionale, con la soffitta, il Café Momus, la Barriera d’Enfer seppur bianchissimi e lineari, sempre in stile Pizzi al quale resta fedele Gasparon, anche lui, regista, scenografo e costumista… Ambiente unico, un tronco di edificio parigino, montato su un girevole che fa scorrere il racconto in dissolvenza cinematografica. Racconto che si srotola come la più classica delle Bohème con Mimì (che però è un po’ più maliziosa del solito, perché sembra lei progettare il tutto, tirare le file della seduzione… aspetta che gli amici di Rodolfo siano usciti per presentarsi in casa sua, fa cadere intenzionalmente la chiave, soffia sul lume per farlo spegnere…) con Mimì che sviene sul divano, la gelida manina sfiorata in ginocchio… da Momus amici sui tavolini a destra e Musetta e Alcindoro su uno a sinistra… Racconto musicale dove l’orchestra esce meglio rispetto a Tosca, con soli e assiemi più musicali e drammaturgici. Nonostante la partitura arrivi dilatata in tempi ampi (non sempre teatrali e a volte quasi controcorrente rispetto al canto) da Michelangelo Mazza. Chi ha fiato e mestiere regge i tempi dettati dal podio. Come Carolina Lopez Moreno, generosa Mimì che prende sicurezza (in acuto e in drammaticità) strada facendo. Come Alessandro Luongo, convincente Marcello che il baritono fa diventare perno dell’azione grazie all’esperienza macinata in palcoscenico. E, soprattutto, come Adolfo Corrado, voce bellissima, canto di rara intelligenza musicale, capace di disegnare un Colline inedito, illuminato da una luce di speranza nel buio della morte che avvolge tutto. La sua Vecchia zimarra è una marcia funebre (certo, la scrive così Puccini…) che non ti lascia dentro il nero della morte, ma la speranza (quasi la certezza) che la vita si rinnova (e vince) sempre. Come Adolfo Corrado, tra i migliori interpreti che oggi si possano desiderare… e non solo in Puccini perché il suo Mozart è carico di febbrile attualità, il suo Donizetti è nobilmente appassionato, il suo Bellini canto puro (e all’orizzonte c’è Verdi).

Efficace lo Schunard di Gianluca Failla, più malinconica che civettuola la Musetta di Sara Cortolezzis. Se Italo Proferisce è un Parpignol misuratamente tragicomico, Stefano Marchisio disegna un Benoit (che a pensarci bene è uno dei personaggi più tragici di Bohème) troppo sopra le righe, eccessivamente e a tratti fastidiosamente caricaturale. Caricatura e non personaggio. Crinale sul quale si muove anche Ivan Ayon Rivas, insuperabile nel belcanto, ma che in Puccini fatica a ancora a trovare una cifra interpretativa, accentando ogni frase di Rodolfo che pur arriva musicalmente preciso e misurato. E anche il Parpignol di Saverio Pugliese (sarà anche per il costume caricato e sottolineato) è più maschera che personaggio-

Eppure i tipi umani in Puccini sono umanissimi. Piccoli ritratti di quel popolo (un padrone di casa a cui piacciono le donne giovani… un venditore ambulanti che vive di espedienti, ma che si illumina quando vede un bimboi felice…) che Puccini ama frequentare. Personaggi che possiamo trovare anche oggi nei nostri palazzi, nei nostri mercati rionali… Disegnati dal compositore guadando alla gente della provincia toscana. Alle donne che amava. Pizzi coglie benissimo questo aspetto. Così in Tosca si trona al cuore del racconto, triangolo di amore e morte (senza tempo, attualissimo nei soprusi e nelle violenze che la cronaca ci propone quotidianamente). In Bohème, dove si vede netto il cambio di mano in regia, gesti e movimenti di tradizione (ma anche tic di qualche interprete e il non rispetto del canto dentro e fuori scena indicato in partitura) appesantiscono la narrazione e non ce la rendono attuale. Come, invece, è.

Sfida, quella dell’attualità di Puccini (insieme al lavoro sulle edizioni critiche, oggi abbastanza frammentato tra vari soggetti), dalla quale si potrebbe (dovrebbe) ripartire al Festival Puccini dopo questa edizione. Dopo il grado zero ritrovato nel suo Festival del centenario da Pizzi – che alla prima di Tosca ha ricevuto il Premio Cappuccilli, colto di sorpresa agli applausi finali da Patrizia, figlia del grande baritono, salita in palco per consegnare al regista il riconoscimento che ogni anno in memoria del padre. Ripensare Puccini nell’oggi. E in Italia, a parte pochissime cose (il Trittico del Regio di Torino… dove si è vista anche una bella Fanciiulla del West), in questo 2024 non si è davvero proposta una rilettura radicale e intelligente, tanto musicalmente quanto interpretativamente, delle opere del compositore toscano. Ripensare Puccini con una via tutta italiana, moderna, senza certi eccessi del regietheater, ma nemmeno senza oscillare tra tradizione e simbolismo che sono la cifra attraverso le quali vengono proposte le partiture del musicista, figurina Liebig o astrazione che va bene un po’ per tutto.  Per guardare avanti. Per gettare lo sguardo oltre l’orizzonte. Come fa Puccini, il Puccini di bronzo, le mani in tasca, l’immancabile sigaretta tra le labbra, cappello in testa, bavero dell’impermeabile alzato, sulle sponde del suo lago.

Nelle foto @fondazionefestivalpuccuni Tosca e Bohème a Torre del Lago