Toccante tappa de Le vie dell’amicizia di Ravenna festival Nell’isola risuona lo Stabat Mater in siciliano di Sollima e Arriva con l’orchestra Cherubini e il controtenore Nicolò Balducci
L’aria di Lampedusa è impregnata di un’insolita umidità. Densa, che ti si appiccica alla pelle e la fa profumare di salsedine. La stessa che scava le rughe dei pescatori che verso sera, nella luce insolitamente livida del Porto Vecchio, tirano in barca le reti. Aria carica di vapore che immerge l’isola in un’atmosfera sospesa, sfumando i colori del mare e del cielo all’orizzonte, la Tunisia da una parte, dall’altra la Libia. Stasera no. Il cielo quasi ti soffoca. Ti schiaccia. Giù, in quella cava di arenaria dove la polvere della pietra si solleva e si attacca alle scarpe e ti si appiccica alla pelle. Giù, in quel cantiere sotto il livello del mare, diventato luogo della memoria. E non serve dire di chi. Lo sappiamo drammaticamente tutti.
Pietra e polvere. Il mare è lì a due passi. Non lo vedi (come non vedi l’infinito oltre la siepe di Leopardi), ma lo immagini, lo senti sulla pelle. Si infrange sugli scogli dentro i quali uomini hanno scavato pareti squadrate, ora diventate un teatro naturale, pareti tra le quali è stato messo un barcone, posato su un fianco, uno dei tanti barconi che hanno fatto naufragio, ed ora è lì, con il suo legno consumato dalla salsedine. Di fronte una parte, lunghissima. Squadrata e ruvida. Corre lungo tutta la cava, ferita da 368 fori – come quelli lasciati dai colpi di mitraglia sulle facciate dei condomini di Sarajevo o su una della tante, troppe città in guerra, da Kiev a Gaza –, segno indelebile da imprimere nella memoria, quello dei 368 morti del 3 ottobre 2013, il naufragio più tragico di sempre. Fori che risplendono nell’aria densa, luci nella sera, illuminati da piccoli lumini – un cielo di stelle, tante lampare nel mare – che evocano ciascuno una storia. Quella delle vittime davanti alle quali anche Papa Francesco si è inginocchiato nel suo primo viaggio. Molte non hanno più un nome. Riposano nel cimitero di Lampedusa, guardando il mare sotto la prua di un barchino, assi dai colori inconfondibili, rosse, verdi e azzurre. Azzurre. Come quelle di un altro barchino. In frantumi. Ancora lì, un po’ nascosto, sugli scogli che abbracciano la cava di arenaria, lì dove forse ha fatto naufragio. A due passi da quel luogo della memoria che stasera è schiacciato dal cielo denso di Lampedusa. Guarda in silenzio il mare.
Ninna nanna ninna ò chistu figghiu s’addurmò il canto che si leva nella sera umida di salsedine dell’isola. Ma a cantare la ninna nanna non è una donna che spinge un passeggino. È Maria, la Madunnuzza ai piedi della Croce. Culla il figlio morto. Lo accompagna verso il suo sonno. Trasfigurata, questa Maria, nelle tante, troppe madri che oggi piangono la morte dei propri figli. Senza porteli cullare, perché inghiottiti dal mare. Trasfigurata la Madunnuzza nello Stabat Mater che il violoncellista (siciliano) Giovanni Sollima ha scritto mettendo in musica il testo in siciliano antico di Filippo Arriva (siciliano anche lui) che reinventa la lauda di Jacopone e dal Golgota circondato dagli ulivi porta Maria sotto l’Etna, tra aranci e mandarini.
Lo Stabat Mater che Riccardo Muti ha voluto si levasse nella sera di Lampedusa per «uno dei viaggi più emozionanti e più ricchi di significato di sempre» de Le vie dell’amicizia di Ravenna festival. «Perché le ferite che cerchiamo di lenire attraverso la musica sono ancora sanguinanti, ci interrogano quotidianamente» racconta il maestro mentre attraversa la cava di arenaria, le scarpe nere impolverate, le mani nude, perché dirige senza bacchetta… succede sempre così quando sul leggio c’è un pagina sacra. E lo Stabat Mater di Sollima è sacro perché racconta, con una dolcezza disarmante, l’uomo, racconta il dolore, ma anche la speranza. La evoca la voce naturalissima e mistica, avvolta da una sapienza antica e ancestrale del controtenore Nicolò Balducci. Ninna nanna ninna ò, di la mammuzza so cu lu tieni strittu strittu il canto che resta nell’aria densa, impregnata di caldo e di rumore di elicotteri in lontananza, «segno che ci sono nuovi sbarchi al molo Favarolo» dicono i lampedusani. Rumore di soccorsi che avverti, insieme a quello del mare, in Limen Samia limen, per nastro elettronico e orchestra di Alessandro Baldessari che risuona (prologo allo Stabat Mater insieme ai canti migranti del Coro a Coro e alle musiche della Banda dell’Associazione culturale musicale Lipadusa – programma coraggioso, senza le “hit” della musica classica o lirica) mentre alcuni ragazzi “accendono” le fessure nella parete di arenaria.
Madunnuzza anneja lacrimi l’armuzza. Il pianto di Maria. Lo fa risuonare il coro della Cattedrale di Siena. Lo evocano i ragazzi dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini – che in questo 2024 compie vent’anni. Macchie di colore sul placo. Perché alcuni suonano violini, viole e violoncelli costruiti con il legno dei barconi. «Quei barconi che abbiamo fatto arrivare proprio da Lampedusa nel 2021 nel carcere di Opera grazie all’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che ha modificato la direttiva per chi questi che sono copri del reato, sequestrati agli scafisti, erano destinati alla distruzione» dice Arnoldo Mosca Mondadori, che con la sua fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha pensato di trasformare in strumenti ad arco il legno dei barconi, facendo realizzare violini e violoncelli ai detenuto del laboratorio di liuteria di Carlo Chiesa del carcere alle porte di Milano. «Non li abbiamo dipinti. Hanno i colori delle assi dei barchini della speranza» spiega Mosca Mondadori mentre scatta una foto con il cellulare ai “suoi” strumenti in mano ai ragazzi della Cherubini. Muti ha in mano due bacchette fatte con gli stessi legni. «Le conservo gelosamente. Commuove sapere che questi strumenti sono fatti con il legno i barche che hanno trasportato uomini, donne e bambini verso la speranza. Alcuni ce l’hanno fatta, altri no. Ma questi legni da veicoli i morte ora sono portatori di bellezza» dice Muti. «E di libertà – interviene Mosca Mondadori – perché portano la musica fuori dal carcere».
Sollima suona tra le fila dei violoncelli. Innalza un canto che sembra venire dalla terra. Dal mare. «Il nostro abbraccio riconoscente è per i lampedusani, per questo popolo che ha sulle spalle un grane peso che affronta con grande generosità» dice Muti dal podio (in prima fila c’è anche Claudio Baglioni… lampedusano d’adozione) prima di salutare l’isola. «Siamo qui per voi, siamo qui con voi». Il maestro getta uno sguardo al mare mentre va verso l’aeroporto, perché si è compiuto tutto nel giro di poche ore, andata e ritorno da Ravenna in giornata – domenica lo stesso concerto al Pala De Andrè che, ripreso alle telecamere della Rai, andrà su Rai1 l’8 agosto – il viaggio numero ventotto del lungo ponte di fratellanza partito nel 1997 da Sarajevo e approdato martedì a Lampedusa, quello sull’isola che è il primo lembo d’Europa. Approdato davanti «a un mare che non è colpevole. Il mare fa il suo mestiere, diceva Eduardo. I colpevoli siamo che restiamo indifferenti di fronte a queste tragedie. L’arte non punta mai il dito, non lo faccio nemmeno io. Perché la musica è un elemento che unisce e non la si può far diventare proclama politico. Dico solo che in tutto il mondo, perché quello dell’immigrazione è un dramma che interroga il mondo, occorrono governanti illuminati. E non basta dire: entrate, ma poi arrangiatevi…».
Oltre le pareti squadrate di arenaria c’è la Porta d’Europa di Mimmo Paladino, «monito potente che mi ricorda la porta di Capua sulla quale c’è scritto Intrent securi qui quaerunt vivere puri. Io aggiungo, porta patet, cor magis, la porta è aperta, ma il cuore di più». Lo ha dimostrato, ancora una volta, Muti guidando questo pellegrinaggio musicale sui luoghi del dolore del mondo – in ventotto anni ci sono stati Beirut, Gerusalemme, Erevan e Istanbul, New York, Damasco, Teheran, Kiev… «Oggi, purtroppo, parliamo più di guerra che di cultura. Da qui, da Lampedusa, con la nostra musica vogliamo lanciare un messaggio di pace e di fratellanza. Attraverso la musica. Per dire che i migranti che attraverso l’Italia approdano in Europa lo fano anche attraverso la cultura» dice il maestro mentre sale sull’aereo. Che decolla sul mare pieno di luci (cielo di stelle al contrario) lasciandosi alle spalle quelle fiammelle ancora accese nella parete di arenaria. Memoria di un dramma che conosci, sai che c’è, ma che avverti in tutta la sua potenza solo qui. E che ti si imprime, indelebilmente, sulla pelle. Come l’aria umida e la salsedine di Lampedusa.
Nelle foto @Silvia Lelli il concerto de Le vie dell’amicizia a Lampedusa
Articolo pubblicato su Avvenire dell’11 luglio