A Milano per il centenario della morte del compositore toscano nuovo allestimento diretto da Gamba, regia pop di Livermore Protagonisti Anna Netrebko, Yusif Eyvazov e Rosa Feola
Popolare la partitura di Turandot non lo è affatto. Intrisa di Novecento, tutta proiettata in avanti, affacciata sull’abisso che verrà, interrotta (e anche questo è molto novecentesco… tormento ed estasi) e dunque ipotesi ancora aperta (nonostante il completamento “ufficiale” di Franco Alfano, al quale, però subito Arturo Toscanini mise mano perché insoddisfatto – certo, il direttore era abituato a usare le forbici sulle partiture, anche in presenza dell’autore, pensiamo a Fanciulla del west e agli interventi fatti in corso di prove… ma questa è un’altra storia, storia di despoti della bacchetta… Ipotesi, senza risposte definitive (ed è anche questo il suo fascino) su un mondo che avrebbe potuto esserci, sulle strade che il percorso pucciniano avrebbe potuto continuare percorrere, inaspettate o forse no, visto che i primi capolavori (ce lo dicono le tante proposte di questo anno che celebra i cento anni dalla scomparsa del compositore toscano) hanno già in sé i capolavori che verranno.
Popolare la partitura di Turandot non lo è affatto. Intrisa di Novecento, tutta proiettata in avanti, come aveva ben evidenziato Riccardo Chailly nel 2015 nella sua direzione (una delle più belle di sempre del direttore musicale scaligero) del capolavoro incompiuto, proposta in apertura della stagione dell’Expo con il finale (che più Novecento non si può) di Luciano Berio. Popolare la partitura di Turandot non lo è affatto. Eppure l’opera popolare lo è diventata. Vuoi perché il Nessun dorma con il suo «Vincerò» risuona tra campi di calcio e pubblicità – la canzone, come la chiama qualcuno ignorandone l’essenza di aria… che poi a ben vedere aria non è perché inserita in un flusso ininterrotto di musica che in concerto si tronca con l’acutazzo e in teatro si stoppa per lasciare applaudire il tenore di turno. Popolare lo è diventata, forse anche perché in tanti si ricordano (aneddoti operistici da memorizzare dai tempi della scuola o per averli letti sulla Settimana enigmistica… per chi la fa ancora) il «qui Giacomo Puccini morì» che Arturo Toscanini disse (leggenda vuole così) alla prima al Teatro alla Scala il 25 aprile 1926 posando la bacchetta dopo la morte di Liù.
Popolare suo malgrado Turandot. Scrittura raffinatissima, che guarda alla mitteleuropa dell’epoca, orientaleggiante, certo, come da gusto del tempo, ma con uno sguardo ad est filtrato ed epurato (e dunque reso più sopportabile) rispetto alle spatolate di Giappone della Madama Butterfly. Popolare e dunque ideale per l’estetica di Davide Livermore. Regista pop (basta la sua bellissima Maria Stuarda in prosa per dire quanto è abile in questa operazione di contaminazione) che ci si butta a capofitto nella popolarità di Turandot nel nuovo allestimento dell’opera che il Teatro alla Scala mette in cartellone per commemorare in musica (dopo la non riuscitissima Rondine di aprile) il centenario della morte di Puccini. Pop, come altro definirla la trovata – che a qualcuno ha fatto storcere il naso perché «un po’ troppo da filodrammatica, non da Scala» – di fermare la musica dopo la morte di Liù e invitare il pubblico (lo si capisce, non servono segnali particolari) ad accendere piccoli lumini elettrici (distribuiti dalle maschere nell’intervallo) mentre sul palco appare il più classico dei ritratti di Puccini con la scritta «qui Giacomo Puccini morì». Cantanti e mimi tutti in proscenio, ognuno con il suo lumino in mano, confezionato ad hoc con tanto di marchio Scala – ideale per un post su Instagram d’effetto con la sala disseminata di lucine – che alla fine ti puoi anche portare a casa. Tutti in proscenio. Mezzeluci in sala. Pubblico che estrae i cellulari per immortalare questo minuto di silenzio fuori ordinanza per Puccini.
Pop. Certo. Ma funziona. Funziona perché ti tira dentro l’azione (Livermore lo aveva già fatto con il velo nero che inghiottiva la platea nei Contes d’Hoffmann) azione che, come sempre negli spettacoli del regista torinese (che prima di passare dall’altra parte era cantante, anche in Turandot dove faceva uno dei tre sapienti di corte Ping Pang Pong) è al limite del bulimico… ma forse questo barocco tecnologico ci sta con il barocco orientaleggiante di Turandot. Non c’è pace per la vista… non c’è tregua per gli occhi che corrono continuamente per il palcoscenico dove c’è una Pechino di oggi (o forse dell’altro ieri… perché certe atmosfere ti fanno piombare in pieni anni Novanta), una Pechino reale (hai come l’impressione di sentire i profumi che vengono dalle ventole dei ristoranti), una strada di periferia che si perde nella prospettiva infinita del ledwall, alberghi ad ore dove si consuma l’amore, retrobottega di laboratori dove i lavoratori vengono sfruttati… Un mondo che prende la forma dell’incubo, ambientato in una periferia asiatica di oggi, popolata da creature dai contorni manga. All’improvviso un’apparizione, come in un’allucinazione, il palazzo di Turandot – pop e kitsch nelle scene disegnate dallo stesso Livermore insieme a Eleonora Peronetti e Paolo Gep Cucco, l’artefice con il suo D-Wok dei video). Regno delle favole… in una nuvola, fumi e visioni. Come nel bordello molto promiscuo (perché tutti si accoppiano con tutti) e molto politicamente scorretto (Ping, Pang e Pong scrivono ideogrammi sui corpi delle donne, che diventano oggetto) del secondo atto. Allucinazioni, visioni. Come quel cavallo meccanico (creatura trasparente di plexiglass e metallo animato da uomini in nero) che scorrazza per il palco. Perché tutto il racconto potrebbe essere un’allucinazione di Calaf… che quando decide di tentare la lotteria degli enigmi vedere prendere corpo i suoi dubbi. Che sono – intuizione felicissima di Livermore, che, però, resta confinata lì e non trova uno sviluppo drammaturgico nel resto del racconto – Ping, Pang e Pong che hanno maschere con il volto di Calaf.
Funziona, la cerimonia dei lumini, perché diventa una cesura nel racconto. Un taglio netto tra il racconto messo in musica da Puccini e quello abbozzato (certo, completato e orchestrato, ma abbozzato perché resta un’idea, un’ipotesi) da Franco Alfano. Livermore la fa vedere questa discontinuità. Alla fine l’estetica dello spettacolo diventa astratta, il palcoscenico si spoglia, si svuota. Vortice nero nel quale fluttuano come macchie di colore danzanti Turandot e Calaf. Che si attraggono e si respingono… si trovano in un finale che resta, però incompiuto. Si danno la mano, mentre tutti riconquistano il palco, coro, ministri, Imperatore, personaggi… in cerca d’autore – li veste di tradizione a volte un po’ troppo generica Mariana Fracasso.
Funziona la cerimonia dei lumini. Anche a livello musicale perché quel silenzio aiuta a separare con ancora più evidenza (se non bastasse la qualità della musica…) Puccini da Alfano e dal finale completato sugli appunti lasciati dal compositore. Lo distingue nettamente anche Michele Gamba (arrivato in corsa, alla vigilia dell’inizio delle prove, dopo il forfait del previsto Daniel Harding) che mette a segno la sua direzione scaligera più riuscita. Inqueta e sghemba la sua Turandot, allucinata (e in questo in perfetto appiombo con lo spettacolo di Livermore) e tagliente. In crescendo perché il magma di suoni che sale dall’orchestra nel primo atto – la nitidezza non è favorita da un coro a volte in rincorsa e dalle voci bianche «Là sui monti dell’est la cicogna cantò» bravissime, (inconfondibile il tocco di Bruno Casoni) che arrivano, però, amplificate, come amplificate sarà il controcanto del coro fuori scena del Nessun dorma… perché poi? – il magma di suoni pian piano prende forma, si asciuga, diventa proiezione in avanti, verticale, stilizzato, quasi ascetico. Teatrale, la Turandot di Gamba (più vicina alla tradizione di quanto non lo sia stata la Turandot di rottura novecentesca di Chailly), nel passo impresso dal direttore d’orchestra al canto e al sinfonismo.
Certo quando entra in scena Anna Netrebko è lei a dettare i tempi. E va bene così, perché la sua è una Turandot sontuosa, musicalissima. Sfumata – a fronte di Turandot cantate tutte dal forte in su in bilico sull’urlo – e meditata (grande lavoro di studio dietro ogni personaggio per il soprano russo). Sempre a fuoco, sempre sul testo, sempre sulla musica. Musicalissimo è anche il Calaf di Yusif Eyvazov, fiati lunghissimi, acuti senza fine (quello della fine del primo atto e quello del Nessun dorma fanno davvero impressione), smaglianti e intrisi di malinconia, quella che da sempre caratterizza il timbro del tenore. Dolente, ma non remissiva e mai piegata, la Liù di Rosa Feola, capace di restituire tutta la straziante verità che Puccini offre al personaggio. Puntuale (e immancabilmente cieco, come da tradizione) il Timur di Vitalij Kowaljow. Tutto asiatico (scelta drammaturgica sulla scorta del black face o scelta musicale?) il terzetto dei ministri (corretti, ma non di più) con il Ping di Sung-Hwan Damien Park, il Pang di Chuan Wang e il Pong di Jinxu Xiahou. Come accade da qualche tempo anche la Scala ha chiamato una vecchia gloria del canto per il ruolo dell’imperatore Altoum: al Piermarini è tornato, con un filo di ironia che ha dato nuova luce al personaggio, il rossiniano Raúl Giménez. Ad Adriano Gramigni sono affidati gli annunci del Mandarino, «Popoli di Pechino, la legge è questa…» mentre la voce del Principe di Persia – “doppiato” sulla scena da un attore in pose caravaggesche, prima in mutande poi, per più di un attimo, senza veli – è di Hiyang Guo.
Repliche tutte esaurite. Certo, perché in locandina c’è la Netrebko. Ma forse anche perché popolare – al di là del folklore – la partitura di Turandot lo sta diventando.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Turandot