L’opera di Gounod nella versione originale con dialoghi parlati torna all’Opera di Colonia diretta da François-Xavier Roth Protagonisti Young Woo Kim e Nicolas Testé. Regia pop di Erath
Un cabaret. Cupo, sinistro. Un cabaret dell’assurdo. Con uomini in frac e cilindro e mutandoni bianchi che si rincorrono cavalcando maiali. Dove fatti tragici – come la morte, l’omicidio di un figlio e di una madre, la fine di un amore… – vengono trattati con una leggerezza inquietante. Deformati, fatti diventare caricatura (con i suoi eccessi, ma anche con le sue tragiche verità) dalla lente di ingrandimento del sarcasmo, dell’umorismo nero. Illuminati dalla luce livida di un ghigno inquieto e inquietante. Un ghigno cupo, sinistro. Satanico… verrebbe da dire. Già, perché in locandina c’è Faust, quello di Charles Gounod. Una delle tante variazioni sul tema – letteratura, musica, cinema, arte… Variazione in musica sul tema del mito creato da Johann Wolfgang Goethe. Quello dell’uomo di scienza, che crede solo al dimostrabile, a ciò che è empiricamente evidente, ma che si tormenta perché per tutta la vita non è riuscito a trovare la “ricetta” dell’immortalità. Che, poi, non è una formula matematica, una pozione… ma forse è il senso della vita stessa. Lo trova, prova a farlo, nella cosa più antiscientifica che ci sia, il diavolo. Non antiscientifico in sé, ma in quanto rappresenta un aldilà, una dimensione, chiamiamola della fede, che impone il salto della fiducia… del credere anche di fronte a ciò che non si può dimostrare.
Paradosso. Comicità drammatica dei fatti. Ecco allora il cabaret scelto da Johannes Erath per il suo Faust, andato in scena all’Oper Köln, sul palco in cinemascope della Sala 1 dello Staatenhaus. Ripresa, wiederaufnahme, di uno spettacolo andato in scena nel 2021, in piena pandemia – allora sul palco cantanti e mimi, il coro distanziato in platea, oggi stessa situazione sul palco, coro, invece ai lati dell’orchestra, formazione da concerto, abito da sera nero, spartito in mano. Ieri come oggi spettatore di una tragedia universale che si compie tutta in una camera. Una camera oscura, nelle intenzioni di Erath. Colpo d’occhio bellissimo quello della scenografia, tutta in bianco e nero, disegnata da Herbert Murauer, infinito susseguirsi di piani, di ellissi concentriche che si perdono all’orizzonte. Vertigine nella quale perdersi. Fuga prospettica dento la quale prendono forma, come in una lanterna magica, personaggi e situazioni. Proiezioni bidimensionali, in bianco e nero – ma accese dai colori pop dei costumi disegnati dallo stesso Murauer, con un occhio trasversale al Novecento, reinventato e ricollocato su una passerella di moda. Immagini che nascono da fasci di luce, dall’occhio della lanterna magica dentro la quale ci troviamo anche noi, nel racconto in presa diretta di Erath.
Racconto che parte su un monitor che rimanda il cardiogramma di Faust. Che è lì, vecchio, su un sedia a rotelle. È lì, o forse è appena dietro l’angolo. Nella sua stanza d’ospedale. Il corpo è là, l’anima fugge sulla carrozzina. Il cuore batte, lo sentiamo. Poi la linea si fa inesorabilmente piatta. Parte la musica, la musica di Gounod. Si apre il diaframma ed eccoci dentro il racconto. Un obitorio – lo dicono quei due grandi piedi in primo piano, con un cartellino legato all’alluce. Una distesa di cadaveri, sotto il lenzuolo bianco. Piedi nudi e un cartellino legato all’alluce. Ri-prendono vita. Cantano. Interagiscono con Faust, Wagner e Siebel. Faust vecchio, perché Erath sdoppia il protagonista. Il Faust vecchio, dell’inizio della vicenda, che poi osserva il riavvolgersi del nastro. E il Faust ringiovanito, che nasce dal diaframma.
Si apre il diaframma. E parte il lungo racconto, tutto in flash back, che il compositore modella sulla prima parte del Faust di Goethe: Gounod sceglie di fermarsi alla morte di Margherita, niente sabba classico, niente Elena di Troia, niente Filemone e Bauci, niente eterno femminino nel cui grembo tornare nella sua opera. Tutto in flash back o racchiuso in quell’attimo infinito, sospeso tra la vita e la morte il racconto immaginato da Erath. Che procede per immagini, per quadri. Tragico, inquietante, da fine impero. Procede per numeri, come in una rivista di avanspettacolo. Tanto più che sul leggio di François-Xavier Roth c’è la versione originale del Faust, del 1859, concepita da Gounod per Parigi nella forma di opéra-comique con dialoghi parlati che si alternano a numeri musicali – arie, cori, duetti, terzetti e quartetti che nel 1869 confluiscono nella versione grand-opera con tanto di balletto, ripensata da Gounod (senza più dialoghi) per l’Opera di Parigi. A Colonia risuonano le parole del libretto di Jules Barber e Michel Carré, parole francesi. Che nel declamato fanno assaporare la poesia dell’originale di Goethe. Testo potente. E che nel canto si rivestono di musica bella, ma, che come tanta (quasi tutta, possiamo dirlo?) musica francese si parla addosso, si compiace di se stessa.
François-Xavier Roth, alla sua penultima stagione come generalmusikdirektor dell’Oper Köln prima di passare il testimone a Andrés Orozco-Estrada, la dirige con gusto. Gusto francese. Solenne e sontuoso. Squillante, brillante nella bella resa della Gurzenich orchester. Svolazzante, danzante. Perché nonostante la tragicità dell’argomento la musica è un lungo giro di valzer. Vorticoso. Danzano i solisti. Danza il coro. Ispirato (tanto nei passaggi popolari che negli squarci mistici) quello dell’ all’Oper Köln istruito da Rustam Samedov. Lo “doppia” in scena la statisterie dell’Opera, mimi, attori che danzano, contrappuntano l’azione con pose plastiche, coloratissimi nei loro costumi. In dialogo con le gigantografie in bianco e nero di uomini forzuti e ballerine in guepiere. Immagini di una grande lanterna magica (illuminata da Nicol Hungsberg, dentro la quale scorrono i video di Bibi Abel) il cui diaframma si apre e chiude continuamente. Rivela visioni, nasconde ciò che non deve essere visto. Ci porta nell’inconscio di Faust, in quell’attimo infinito, sospeso tra la vita e la morte.
Faust vecchio, cui offre corpo e voce segnata dal tempo John Heuzenroeder. Voce alla quale si sovrappone (nel bagno di gioventù immaginato da Erath) lo squillo di Young Woo Kim, Faust giovane, dalla voce bella, timbratissima, avvolgente e capace di salire a vette di luce da abissi di oscurità. Canta. E dialoga con il Mephistoopheles di Nicolas Testé – che, però, canta (con classe e stile) e basta, perché i passaggi parlati (il baritono francese, arrivato in corsa, non ha avuto tempo per memorizzarli) sono affidati alla voce fuori campo di un artista del coro, Nicolas Boulanger. Effetto straniante, non voluto, ma a suo modo riuscito. Voce che arriva da un altrove. O forse dalla stessa anima di Faust. Perché nell’uomo, si sa, bene e male spesso convivono. Lottano. Come in Marguerite, divisa tra amore e sentimento materno e filiale… madre assassina, figlia che uccide la madre. Ma poi muore redenta. Le offre voce delicata e corpo drammaturgico Emily Hindrichs. Lascia il segno il Wagner di Lucas Singer, presente e musicale. Cme presente e prorompente è il Siebel di Maya Gour. Meno in evidenza il Valentin di Miljenko Turk (aria taglia per il fratello di Marguerite che nella prima versione ha comunque meno spessore rispetto al rimaneggiamento), puntuale la Marthe di Regina Richter.
Marguerite muore. Redenta. Cala il sipario. Lo spettacolo è finito. Si spegne la musica. Si spegne la luce della lanterna magica. Sogno (o forse no) di un mondo in bilico. Che ride, tragicamente, di un presente che sfila (questa l’impressione delle cronache quotidiane) sul palco di un mesto e tragicomico cabaret.
Nelle foto @Bernd Uhlig Faust all’Oper Köln