All’Oper Köln nuovo allestimento del melodramma di Mozart Dirige Rubén Dubrovsky, regia dal segno forte di Floris Visser Protagonista Sebastian Kohlhepp, Kathrin Zukowski ottima Ilia
Di solito, nella vita di tutti i giorni, è qualcosa che non si vede. Perché è qualcosa che ti scava dentro, invisibile. Ma c’è. Potente. Presente. Incombente. Un buco nero dell’anima. C’è e affiora quando meno te lo aspetti. E ti devasta, potrebbe farlo se non sai tenergli testa. Qualcosa che non si riesce a dire. Qualcosa a cui non si riesce a dare un nome. Ma c’è. E ti piega, potrebbe farlo se non sai tenergli testa. Floris Visser, invece, sul palco dell’Oper Köln lo fa vedere. Lo fa sentire. Gli offre un corpo. Concreto, materico. Gli offre una voce, la voce muta e rumorosissima di un corpo che urla (in silenzio). Bello e prestante. A suo modo affascinante. Il corpo forte, di un combattente. Un corpo che all’inizio c’è, anche se quasi non lo vedi, non lo noti… non trovi segnali evidenti della sua presenza (eppure c’è) perché si confonde tra la folla di corpi uguali. Poi diventa sempre più presente. Si staglia su uno sfondo nero. Anche se è lui stesso nero. Non sai dargli un nome… sarà Nettuno? ti domandi pensando alla storia che si srotola in musica (la musica di Wolfgang Amadeus Mozart) davanti ai tuoi occhi, la storia terribile e inquietante per quel «voto tremendo» che ha pronunciato di Idomeneo. Sì, deve essere proprio Nettuno, quello che punisce Idomeneo (e il suo popolo… che maledice il suo capo) perché non tiene fede, non compie quel voto… Sì, deve essere proprio Nettuno pensi, quasi compiaciuto per aver dato un nome a quel corpo nero. Ma non è così, le certezze in un attimo cadono… e ti appare chiaro, inequivocabile, chi è quella figura nera. Nerissima. Tuta militare nera. Gli occhi segnati sulle occhiaie di nero. Una benda, bianca, in testa… immacolata, segno di una ferita che non sanguina, ma sanguina, scava dentro. Corpo e voce di qualcosa che c’è nella testa e nell’anima di Idomeneo. Corpo e voce di quel buco nero che lo risucchia. E lo porta, pazzo, incatenato in una camicia di forza, rinchiuso in una minuscola stanza dalle claustrofobiche pareti, imbottite e bianchissime… e poi nella tomba, una stele di marmo bianco, pregiato che si staglia tra le tante (troppe) tombe, con inciso a chiare lettere nome e grado, Idomeneo re di Creta.
Ha un volto. Ha un corpo. Ha un nome quella figura nera che tormenta Idomeneo. Das Trauma. Il trauma. Floris Visser lo fa vedere. Lo fa sentire, anche se muto. Lo rende concreto. Lo rende protagonista (è scritto, chiaro, in locandina, accanto al nome dell’attore che gli offre il corpo, Daniel Calladine) del suo Idomeneo, nuovo allestimento, attesissimo, del regista olandese (attesissimo) che i teatri europei si contendono, passaparola che si moltiplica, forse moda del momento che disegna anche i cartelloni della lirica – certo, all’estero, con un respiro e uno spessore diverso rispetto all’Italia dove le firme registiche di oggi arrivano con anni di ritardo, quando si è “già vista” un po’ dappertutto la loro carica rivoluzionaria, quando la loro forza rischia di essersi già attenuata… Italia dove spesso si preferiscono non regie a regie, seppur discutibili e discusse, ma con qualcosa di forte da dire… si preferiscono i vari decoratori che si improvvisano registi e fanno concerti in costume anziché opere… dove si preferiscono storie innocue rispetto a riletture di drammaturghi (veri, non improvvisati, intendiamoci, che ne sanno di musica, di letteratura…) che, con un pugno nello stomaco, ti buttano in faccia una contemporaneità inaspettata… ma presente.
Attesissimo Floris Visser, al debutto a Colonia. Nome di punta della regia mitteleuropea di oggi (insieme alle varie Ilaria Lanzino, Lydia Steier… come qualche tempo fa potevano esserlo i debuttanti Simon Stone, Tobias Kratzer… o indietro sino ai vari Krzysztof Warlikowski, Barrie Kosky, Claus Guth… arrivati, infatti, in ritardo in Italia), Visser che l’Oper Köln si è assicurata (dopo quello di Katharina Thoma per la Frau inaugurale di settembre) e ha messo in cartellone (cuore della stagione allo Staatenhaus) affidandogli un nuovo Idomeneo. Titolo cult in Germania e Austria, testo italiano dell’abate Giambattista Varesco. L’opera più opera di Mozart. Bella da far girare la testa. Perfetta nella sua architettura tanto che o si ascolta in versione integrale, come avviene a Colonia grazie a Rubén Dubrovsky sul podio di una sempre impeccabile (in Händel e in Strauss, in Mozart e in Britten, in Donizetti e in Wagner) Gürzenich Orchester, o inevitabilmente si perde qualcosa di questa perfezione, di questa bellezza. Perfezione, bellezza che a Köln ci sono. Grazie a Dubrovsky, alla Gürzenich, al coro di Rustam Samedov, ai protagonisti – un mix riuscitissimo di ospiti (l’Idomeneo dolente e musicalissimo, modernissimo di Sebastian Kohlhepp) e nomi di punta dell’ensemble dell’Opera (su tutti Kathrin Zukowski, magnifica Ilia, che mette a segno una prova di grande maturità musicale, imponendosi tra le interpreti di riferimento del personaggio…). C’è dall’inizio, dall’ouverture che arriva antica nel suono, suono filologico, tutto sulla partitura, ma mai fine a se stesso. Secco e potente.
Come potente è l’immagine che si concretizza dal nero del sipario. Si apre uno squarcio nella tela nera… nera come quel Trauma che impareremo poi a conoscere. Nera come il buco nero della mente di Idomeneo. Che è lì, bianchissimo nella sua camicia da notte, nella sua benda bianca (questa screziata di sangue). Bianchissima la stanza, minuscola, dalle claustrofobiche pareti, imbottite. Idomeneo, piedi nudi e sguardo fisso, disegna compulsivamente uomini stilizzati, omini come quelli dei bambini, che hanno in mano un tridente. Nettuno? Potrebbe essere… ma poi capisci che è Das Trauma. Quello nero. Due facce della stessa medaglia. Il Trauma che ha portato lì, in manicomio, Idomeneo. Entra una coppia, con un figlio. Neri, elegantissimi gli abiti. Ilia e Idamante. E il loro figlio, che regala al nonno un cavallino, identico al Cavallo di Troia di Ulisse… oggetto che fa riaffiorare la pazzia. Fuggono tutti, spaventati quando il vecchio sbatte la testa contro le pareti della stanza, Idomeneo non li riconosce. Perché la sua mente è altrove. Ancora a Troia. Troia, la sua Troia, oggi sarebbe, anzi, meglio usare il presente, perché nello svolgersi della storia, nel lungo flash back che è la lettura di Visser, Idomeneo appare in scena in mimetica e una benda bianca sulla testa (ferita che mai guarirà), soldato di una delle tante, troppe guerre di oggi… la sua Troia è l’Iraq, oppure l’Afghanistan. Ma anche la Siria… La Troia di Idomeneo, quella raccontata da Omero nell’Iliade, è uno dei tanti, troppi, teatri di guerra di oggi. Così, sulla sua nave che viene rovesciata dalla tempesta, Idomeneo oggi potrebbe essere di ritorno a Creta, nella sua Sidone, dall’Ucraina, dal Medioriente, dal Sud Sudan, dallo Yemen, dal Myanmar, dall’Etiopia, dal Tigrai… da uno dei tanti (troppi) luoghi dove oggi i soldati combattono… uccidono, vedono gente (spesso, troppo spesso bambini) morire. Uccisi dall’odio. Dall’incapacità degli uomini di fare pace, di mettere la pace al primo posto.
Idomeneo si porta a casa il Trauma. Che lo divora, lentamente. Da subito. Da quando appare in scena, sbattuto sulla spiaggia dalle onde del mare. Ha negli occhi tutto l’orrore di quello che ha visto, morti, violenze, soprusi… un uomo insanguinato si trascina sulla spiaggia – tutto lo spettacolo è lì, nella bella scena di Frank Philipp Schlößmann, spiaggia e rocce su un girevole (in realtà poco sfruttato, gira una volta sola, nel terzo atto…), un campo lungo cinematografico che va in dissolvenza, in primo piano, con gli interni, tutti in proscenio… la cella del manicomio e il palazzo di Idomeneo, che ha le stesse pareti, bianche, imbottite. Su quella spiaggia un soldato uccide un bambino, una mamma lo piange, moderna immagine della Pietà. Su quella spiaggia il mare restituisce il corpo di un bimbo, lo prende tra le braccia il Trauma, immagine potente che richiama alla mente quella del piccolo Aylan, morto annegato a Bodrum, sulla costa turca. Immagini di violenze quotidiane. Traumi. E per dimenticarli, per “salvarsi” da quella tempesta dell’anima (quella è per Visser la furia degli elementi che Mozart mette nella sua musica), per placare Das Trauma che lo tormenta Idomeneo, sulla nave che lo riporta a casa, ha promesso che ucciderà – getterà il Trauma addosso… ad altri – la prima persona che incontrerà…
E, lo sappiamo, quella persona è Idamante, suo figlio. Corto circuito etico, morale… che innesca la vicenda. Che Visser rilegge, appunto, come il racconto di una pazzia. Idomeneo vecchio, ormai sconnesso da se stesso, a un passo dalla tomba… esce dalla sua stanza imbottita e rivede, spettatore esterno, come noi, la sua discesa agli inferi. È sempre in scena, è dentro l’azione, ma nessuno lo vede – intensa la prova di Peter Bremes. Guarda «un altro re, un altro me stesso» (le stesse parole con cui incorona, alla fine, Idamante, ritirandosi… qui internato in manicomio) come in quelle visioni allucinate che passano davanti agli occhi di chi, vecchio, ricorda solo il passato. Ed è affollato di visioni l’Idomeneo di Visser. Anche troppo, continuo contrappunto all’azione, con il rischio di distrarre dalla musica, con il rischio di coprire con il “rumore” delle immagini il canto. Come nella prima aria di Elettra, quando la figlia di Clitemnestra, si chiede «Estinto è Idomeneo?» e poi invoca Tutte nel cor vi sento, furie del crudo averno mentre da una bara posata sulla spiaggia (prima una cerimonia, con Elettra e Idamante tanto simili a Kate e William, costumi, perfetti, di Gideon Davey) escono Agamennone con l’ascia che Clitemnestra gli ha piantato nella schiena, la regina, l’amante di lei Egisto, Crisotemi e Oreste… ma se non conosci perfettamente il mito questi riferimenti, seppur alti, potrebbero sfuggirti… Vediamo anche il trauma di Idamante, bimbo che il padre portava in spiaggia, ma che ha dovuto salutare per andare in guerra – Visser ci mostra tutto, spiaggia, secchielli, vestizione da soldato di Idomeneo… partenza.
Rumore, contrappunto all’azione (illuminata dalle luci di James Farncombe) che pure ha spunti interessanti, capaci di illuminare di modernità inaspettata la storia… Ilia, mentre confessa a Idomeneo che «Se il padre perdei… tu padre mi sei…» tenta di ucciderlo con un coltello (e il pensiero va a Tosca… a proposito, Elettra, dopo il suo D’Oreste, d’Aiace… si getta, come Floria, da una scogliera, spalle al mare…. Coraggiosissima Anna Maria Labin…)… il Gran Sacerdote è un prete che sposa Elettra e Idamante prima della loro partenza, cerimonia organizzata in fretta e furia nella veranda di Idomeneo… il bellissimo quartetto Andrò ramingo e solo è tutto “detto” sugli scogli, in bilico sul baratro, come lo sono, in quel momento della loro vita Idamante, Idomeneo, Ilia ed Elettra. Instabili. Come i loro passi (e quelli dei cantanti) sulle rocce – la drammaturgia di Visser e di Stephan Steinmetz.
Rilettura forte, sofferta. A tratti spericolata quella di Visser. Che sicuramente lascia il segno, anche se c’è un prezzo da pagare… quello del “rumore” delle immagini (impegnatissimi gli attori della Statisterie), che impone una doppia concentrazione, per non perdere nemmeno una nota. Per non perdere nessun particolare dell’architettura perfetta della partitura. Che Dubrovsky restituisce limpida, mozartiana (forse, a tratti, troppo uniforme nei tempi dove si vorrebbero dinamiche più articolate). Una meditazione sui fatti (questo in linea con il flash back proposto da Visser) che diventano così universali, validi, validissimi ancora oggi. Un suono sempre teatrale, narrativo (anche nei recitativi ben scolpiti) quello che Dubrovsky chiede e ottiene dai musicisti della Gürzenich (ottimi i soli, tutti), dal coro dell’Oper Köln e dagli interpreti. Sebastian Kohlhepp è un Idomeneo dolente e musicalissimo, modernissimo nel suo porgere, asciutti, la parola e il canto, interprete che lascia il segno con il suo essere altro rispetto al mondo in cui vive. Anna Lucia Richter è un’Idamante in perenne rincorsa scenica e vocale… la prima aria arriva opaca, quasi l’orchestra avesse accordato con un diapason abbassato… il resto non è sempre a fuoco. Interprete appassionata, sicuramente, corretta, ma non incisiva, puntuale, ma non trascinante la Richter. Graffia l’Elettra di Anna Maria Labin, interprete drammatica suo malgrado (chissà che effetto farebbe un’Elettra lirica….), ma presentissima e a fuoco. Puntuale, nelle sue due arie, Anicio Zorzi Giustiniani, efficace Arbace. Incisivo nei suoi interventi John Heuzenroeder che è il Gran Sacerdote.
Chi lascia il segno, entusiasma e conquista è Kathrin Zukowski, magnifica Ilia. Un’aria più bella dell’altra – difficile scegliere tra la grande scena che apre l’opera, Padre, germani addio, l’intenso Se il padre perdei e gli Zeffiretti del terzo atto, miracolo di purezza che la Zukowski regala, oasi di pace prima della resa dei conti. Che è, sulle note delle danze, una pantomima. Idomeneo, come gli ha chiesto la Voce (efficace Lucas Singer) rinuncia al trono a favore di Idamante… e subito è rinchiuso in una camicia di forza, gettato in manicomio (che riappare in proscenio). Lo vediamo in varie fasi della sua decadenza (dissolvenze continue della parte nera che si apre e chiude), sempre tra le pareti bianche imbottite… periodicamente gli fanno visita Idamante e Ilia, prima sposi, poi coppia in dolce attesa, poi genitori con il loro figlio che regala al nonno un cavallino, identico al Cavallo di Troia di Ulisse. E scatena la pazzia – la stessa che abbiamo visto sulle note dell’ouverture. E il cerchio si chiude. Idomeneo è morto. Sepolto sotto la stele di marmo che dice Idomeneo re di Creta. Idamante, Ilia e il piccolo portano una corono di fiori tra le tante, troppo, tombe. Poi papà e figlio giocano, come faceva Idomeneo con Idamante, prima di partire per la guerra. Il Trauma, per ora, non c’è più. Sepolto con Idomeneo. Ma pronto, nella testa di ogni vittima di guerra, a riapparire.
Nelle foto @Sandra Then Idomeneo all’Oper Köln