Al Tearo Regio il maestro rilegge il melodramma verdiano restituito però confusamente dalla regia di Andrea De Rosa Cantano Piero Pretti, Luca Micheletti e Lidia Fridman
Tutti hanno una maschera calata sul volto. Non sono per forza in costume… vogliono solo nascondere il loro volto, come in un gioco per adulti. Con una maschera calata sul volto, appunto – come nel festino di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Amore e morte, impastati insieme. La indossano, la maschera, da subito. Da quando si alza il sipario, «Posa in pace…» cantano, un po’ distratti perché impegnati in quel gioco di seduzione e di accoppiamenti liberi (che sa anche di morte) che prende forma stancamente tra poltrone e cuscini. La festa è finita… il cielo si rischiara e si fa l’alba – e poi si decide di andare tutti a prendersi gioco di Ulrica, in un’alba livida e sinistra. Rigorosamente dietro la maschera. Certo, il titolo in locandina è Un ballo in maschera – e per una volta, in Verdi, l’opera non si chiama come il/la protagonista di turno, ma dice un fatto, un ballo, appunto, evocato sin dall’inizio con la lista degli invitati (per la festa della sera, perché l’opera si svolge tutta in un giorno… unità di tempo efficacissima) che Oscar fa leggere a Riccardo. «Avresti alcuna beltà dimenticato?» chiede il governatore di Boston, facendo pensare (almeno così deve forse aver pensato il regista) a un accumulatore seriale di donne. Le vuole tutte alla festa…
Corto circuito verdiano. Perché, a parte la musica, qualcosa non torna. Perché a vederlo questo Ballo in maschera sembra tutt’altro. «È aperto a tutti quanti, viva la libertà» pare risuonare… Sembra quasi Don Giovanni, quello di Wolfgang Amadeus Mozart con la sua discesa all’inferno – che sono le donne che vuole “catalogare”, collezionare compulsivamente. Stessi costumi (stessi di un immaginario che non può prescindere dall’allestimento scaligero di Giorgio Strehler), giacche nere e rosse, lunghissime, elegantissime, di velluto, abiti di taglio settecentesco. Ambientazione che potrebbe essere quella richiesta dal libretto di Lorenzo Da Ponte, un grande palazzo con finestroni e scalone, pietra che ha i colori del bronzo a rendere tutto grave, cupo. E poi Ulrica, nera di morte, donna velata che irrompe alla festa – il palazzo si spacca, scendono i lampadari, si accendono le candele ed ecco l’antro della maga… che è lo stesso luogo di prima. Ulrica che poi, alla fine, quando la sua profezia si compie e Riccardo muore «per man d’un amico», riappare nel bel mezzo del ballo (il palazzo si apre ancora una volta in due, lugubre e torbida porta dell’inferno), come se fosse la statua del Commendatore che viene a prendere Riccardo (o Don Giovanni) per portarlo nell’aldilà – ma la musica, celestiale «Cor sì grande e generoso» canta il coro come fosse una preghiera, stride con questa immagine, pur potente e inquieta.
A vederlo, si diceva, sembra tutt’altro perché il regista Andrea De Rosa restituisce un’immagine fuori fuoco (e non poco) di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi. Sembra quasi Don Giovanni o il Duca di Mantova del Rigoletto il suo Riccardo, sciupafemmine compulsivo, accumulatore seriale di donne (Amelia compresa) cosa che proprio il governatore di Boston non è, simbolo di un amore puro, quello per Amelia, appunto, che non può essere una delle tante, perché «ella è pura, in braccio a morte te lo giuro, Iddio m’ascolta… io che amai la tua consorte, rispettato ho il suo candor»… Tanto più che, dice la storia, il re a cui si ispira il racconto, forse era omosessuale. E questo Riccardo che affronta la morte pur di non tradire sembra tutt’altro.
Fa un certo effetto questo ribaltamento di prospettiva. E fa un certo effetto (un effetto forse e soprattutto anche poco teatrale, poco sulla musica) vedere da subito la festa in maschera che Verdi – il Giuseppe Verdi che si ispira, nel libretto di Antonio Somma, al dramma Gustave III ou Le bal masqué di Scribe che a sua volta racconta il regicidio, avvenuto proprio durante un ballo mascherato, del sovrano svedese – fa un certo effetto vedere da subito la festa in maschera che Verdi fa esplodere (letteralmente, basta ascoltare la musica) nell’ultimo quadro dell’opera, tutta costruita, musicalmente e drammaturgicamente, per arrivare a quel punto. Tensione, accumulo di attesa, proiezione in avanti dell’azione e del pensiero… tutto converge nella scena finale del ballo. Che a Torino, al Teatro Regio, dove il titolo verdiano è in scena in un nuovo allestimento diretto da Riccardo Muti (prima e unica opera in forma scenica che il maestro dirige in questo 2024 in Italia… e non solo in Italia, avendo ormai scelto, anche per il melodramma, la forma di concerto….), ballo che al Teatro Regio di Torino si vede da subito. In un ribaltamento di prospettiva che sembra una danza macabra. Il mondo al contrario. Gli scheletri che danzano con gli uomini. Tutti mascherati, maschere di morte. La morte che incombe, impastata con la vita… e con l’amore. Che è lì sulla soglia ad aspettare. Come Ulrica che, velata, viene a prendere Riccardo.
Perché la cifra del racconto di De Rosa – una regia all’apparenza tradizionale, ma più “stravolgente” rispetto a musica e testo di tante regie cosiddette “moderne” – è quella della danza (macabra). Perché siamo nel ballo finale già quando si alza il sipario. Tutto accade nello stesso luogo, il palazzo di Riccardo, disegnato con tratto espressionista da Nicolas Bovey. Tutto accade nello stesso luogo anche quando siamo nell’orrido campo del secondo atto (palcoscenico spoglio, immerso nel nero, cosparso di cadaveri pietrificati, in mezzo il catafalco sul quale sta seduta Ulrica nel primo atto e sul quale ricompare alla fine), anche quando siamo a casa di Renato (tre pareti grigie incastonate nel palazzo di Riccardo – nonostante questo i cambi di scena (del terzo atto) interrompono il flusso dell’azione e, soprattutto, impongono un secondo intervallo che fa finire la serata dopo tre ore e quaranta minuti. Tempi wagneriani… cifra visiva mozartiana…
Eppure è verdiano nel profondo il Ballo di Torino. Verdiano, perché sul podio c’è Riccardo Muti. Verdiano da sempre il maestro. Oggi, nel pieno della maturità artistica (e di vita), se possibile ancora più verdiano di sempre. Perché il Ballo che Muti restituisce alla guida dei complessi del Regio – «questo è un teatro di grande eccellenza, orchestra e coro sono ottimi, il reparto tecnico è di prim’ordine. Mi sento a casa qui dove vige una gentilezza unica, una delicatezza sabauda… e lo dice un borbonico» sorride Muti sul palco vuoto, spenti i quindici minuti di applausi che hanno salutato la prima – il Ballo di Muti a Torino è una riflessione sulla vita e sulla morte. Sull’amore, inevitabilmente, perché intriso di esso, un amore puro, totale, donato. Inizia quasi sottovoce, dimensione cameristica scelta da Muti per il primo atto. Si fa beffardamente sarcastico nella scena di Ulrica. Si accende di passione (quasi wagneriana) nel secondo atto con un duetto d’amore fatto di folate di musica. Si colora poi di nero, un nero cupo che più che il nero della morte (che c’è è arriva beffarda sulle note di un valzer) è il nero del male, dell’odio che cova nell’anima dell’uomo e lo porta a uccidere fino a chi un attimo prima gli era (ma lo è ancora) amico e fratello – e quante guerre tra “fratelli” oggi… Si colora di nero nel terzo atto per poi trovare pace in un finale trasfigurato, mistico… che è quasi una preghiera – difficile non farsi prendere dal soffio che è il «Cor sì grande e generoso» che segue il perdono donato da Riccardo.
Modernissimo il Ballo di Muti che ripensa da capo il “suo” Verdi, un Verdi che non assomiglia agli altri Verdi del maestro (e anche il Ballo è un unicum nel catalogo del compositore), un Verdi che è nuovo e allo stesso tempo con le radici che affondano nella tradizione. Sensazione strana. Spiazzante, ma poi stimolante quella che ti fa provare Muti, che mette da parte gli impeti dei suoi Balli precedenti, le corse contro il tempo, le vampate infuocate e i giri di valzer vorticosi per trasfigurare, in una lettura meditativa e sognante, la partitura.
Una sfida musicale. L’orchestra del Regio segue Muti in questa ri-lettura, “racconta” magnificamente (fa anche quello che la regia di De Rosa rinuncia a fare, scava nel profondo del teso, nel senso ultimo della partitura). Ogni nota è una parola. Dice qualcosa… Canta. Insieme al palcoscenico – e non è cosa facile per gli interpreti stare al passo della lettura del maestro. Palcoscenico dove ci sono verdiani doc, forse non tutti al meglio alla prima, vuoi per l’emozione o per i mali di stagione. Luca Micheletti che è Renato annuncia a inizio secondo atto, dopo una scivolata nella prima aria, che canterà nonostante un malessere che lo ha colpito negli ultimi giorni. Si sente, ma si sente anche la grande intelligenza del musicista che dice la parola verdiana con un canto tutto interiorizzato, tanto che il suo Renato ha da subito il peso del potere, il tormento dell’essere “custode” di un amico fragile che poi ucciderà Canto e gesto scolpiti quelli di Micheletti, vestito da Ilaria Ariemme come Don Giovanni o come l’Alceste del Misantropo di Molière che Micheletti ha portato in tournée di recente, non risparmiando ogni sera la sua bellissima voce.
Piero Pretti parte in difesa, prudente, ma sempre generoso nel dare corpo con il suo canto ai personaggi che porta in scena. Basta la prima scena, il La rivedrò nell’estasi quasi sussurrato a se stesso, poi il tenore si scalda (e offre la vertigine della salita ad acuti luminosissimi di una voce bellissima) e restituisce un Riccardo centratissimo sulla musica, idealista, puro nella sua tormentata (bellissima la resa del Ma se m’è forza perderti) scelta di rinunciare all’amore. Lidia Fridman offre la sua voce brunita, i suoi pianissimi e i suoi filati, ma anche i suoi acuti taglienti e la sua figura scarna e ascetica (ancora più sinistra quando ha la maschera calata sul volto, incorniciato da un velo bianco, quasi De Rosa la volesse sposa cadavere che si aggira tra le tombe dell’orrido campo) ad Amelia, personaggio (tra i più complessi immaginati da Verdi) che il soprano russo debutta (e che non potrà che crescere con il tempo). Meno a fuoco l’Ulrica di Alla Pozniak, mentre Damiana Mizzi (costretta come i danzatori a movenze pseudo discotecare, totalmente fuori luogo, pensate da Alessio Maria Romano) è un Oscar puntuale e presentissimo, prima in pantaloni e poi, alla festa, in abiti femminili (un femminiello napoletano? dato che De Rosa dice di essersi ispirato per il Ballo, come già fece Leo Muscato per l’Opera di Roma, proprio ad atmosfere napoletane). I congiurati Samuel e Tom, cupi nelle loro trame, sono Daniel Giulianini e Luca Dall’Amico, Silvano è Sergio Vitale. Non delude mai Riccardo Rados, tenore sicurissimo, voce brunita e svettante (che meriterebbe presto ruoli da protagonista) che qui si sdoppia nel doppio ruolo del Servo di Amelia e del Giudice, quello che pronuncia la frase “incriminata”, «s’appella Ulrica, dell’immondo sangue dei negri».
Perché quello di Torino e di Muti è un Ballo politico, perché impasta amore e potere. Perché smaschera un razzismo che non è quello di Verdi, ma che il compositore già al tempo denunciava facendo dire al Giudice che Ulrica è «dell’immondo sangue dei negri». Muti non cambia il libretto per un politicamente corretto che oggi ha anche un po’ stufato, onnipresente, spesso con poca intelligenza. «Non possiamo cambiare il passato, non possiamo cancellare tutto. Dobbiamo insegnare alle prossime generazioni che quello che è stato fattoi di sbagliato va corretto. E loro possono farlo con senso di armonia, di fratellanza, di compassione» dice convinto il direttore. Nel suo Ballo c’è la fame di vita, c’è la gioventù, ma c’è soprattutto lo sguardo di un uomo che è passato attraverso quella vita, e ce la racconta, ce la dice immediata, vera, scavando a fondo in una partitura (che domina magnificamente, conoscendola in ogni dettaglio) alla quale, da subito, toglie la maschera.
Nelle foto @Andrea Macchia Un ballo in maschera al Teatro Regio di Torino