Cose da melomani. Di quelli che guardando il dito non vedono la luna. Prendiamo il caso del Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi, in scena al Teatro alla Scala. Pare che la cosa più importante del nuovo allestimento, che vede sul podio Lorenzo Viotti e in regia Daniele Abbado, sia aspettare al varco ad ogni replica Luca Salsi, baritono che non ha bisogno di presentazioni, finalmente alla Scala nel ruolo del doge, per capire se nella grande scena del consiglio – quella dove c’è il grande (e ancora attuale) appello alla pace del «E vo’ gridando pace. E vo’ gridando amor» – pare che la cosa più importante sia aspettare al varco Luca Salsi per capire se canti «ecco un messaggio del romito di Sorga» o se invece ceda alla versione «ecco un messaggio di Francesco Petrarca». Alla prima e in tutte le repliche andate in scena sino ad ora – tranne alla seconda del 4 febbraio – Salsi ha nominato Francesco Petrarca senza usare la definizione coniata da Boito (librettista della seconda versione del Boccanegra, dove compare la scena più politica della produzione verdiana, appunto) per evocare il poeta di Arezzo.
Cose da melomani. Che guardando il dito – il dilemma romito di sorga o Francesco Petrarca? – e rischiano di non vedere la luna – l’interpretazione di Salsi, che fa un Boccanegra musicalissimo, tutto modellato sulla parola verdiana nel canto e nel declamato, un personaggio fatto più di ombre che di luci, le ombre che avvolgono l’uomo di potere, ma anche quelle che attanagliano l’uomo che troppo presto ha perso la donna che amava e non è mai riuscito a colmare questo vuoto. Salsi canta «Francesco Petrarca», ma su Instagram e su Facebook posta la foto del manoscritto autografo del Simon Boccanegra conservato negli archivi Ricordi. E scrive: «Qui c’è scritta la verità e quello che “andrebbe” cantato». E infatti sul manoscritto c’è inequivocabilmente scritto «romito di Sorga». E giù like.
Allora perché cantare «Francesco Petrarca»? Perché lo ha chiesto il regista, Daniele Abbado, figlio di Claudio Abbado, che pur nella sua lettura filologuca e senza tagli dell’opera seguì la tradizione di citare il nome del poeta piuttosto che la perifrasi di Boito. Il direttore d’orchestra milanese, scomparso dieci anni fa, introdusse la variante nel suo memorabile Simon Boccanegra andato in scena alla Scala, nello storico spettacolo di Giorgio Strehler, nel 1971 (e poi replicato a lungo e portato in tournée). Anche se nelle incisioni in studio Abbado scelse sempre la “versione originale”, scelse sempre di far cantare ai suoi Boccanegra il «romito di Sorga» (come fecero anche Solti e Gavazzeni, che, invece, dal vivo preferì citare Petrarca come Abbado). Un omaggio a Claudio Abbado, voluto dal figlio Daniele, che la Scala ha accolto, mettendo per una volta da parte la “filologia” – ma non dimentichiamoci il precedente del Ballo in maschera verdiano del 2022 quando per un rispetto del politicamente corretto venne cambiato il riferimento a Ulrica, definita nel testo di Antonio Somma «dell’immondo sangue dei negri», ma diventata nella versione scaligera «del demonio maga servile» (cambio aspramente criticato da Riccardo Muti che spiegò che non era razzismo, ma feroce critica nei confronti del potere dato che quella frase la pronuncia un Giudice).
Omaggio a Claudio Abbado, dunque. Che sicuramente avrebbe invitato a lasciar perdere il dito per non dimenticarsi della luna. Del grande messaggio, attualissimo, del Boccanegra. Che parte proprio da Petrarca, il «romito di Sorga» che si era stabilito a Valchiusa, in Provenza, dove scorre il fiume Sourge, quello di Chiare, fresche et dolci acque… dove Laura, la bionda di Avignone, faceva il bagno ammirata dal poeta. Poeta che, lo dice la storia, ha scritto una lettera a Boccanegra per dire che «Siamo tutti figli della stessa Madre Italia». Metà del XIV secolo, un appello accorato per mettere da parte lotte fratricide che infiammavano l’Italia (lontanissima ancora dall’essere unita) di allora. Una lettera che nel 1881 spinse Verdi a ripensare completamente per la Scala il suo Boccanegra, andato in scena nel 1857 a Venezia. Ecco dunque che la lettera di Petrarca entra nella drammaturgia, nel libretto, con il Doge che la presenta ai suoi consiglieri, dodici nobili e dodici popolani, che si fanno guerra. «La stessa voce che tuonò su Rienzi, vaticinio di gloria e poi di morte, or su Genova tuona» spiega Boccanegra che poi, mostrando una lettera avverte: «Ecco un messaggio del romito di Sorga, ei per Venezia supplica pace…». Ma inutilmente perché l’appello viene rispedito al mittente da Paolo che, non senza feroce sarcasmo, attacca: «Attenda alle sue rime il cantor della bionda avignonese». E qui come non vedere l’attualità di un potere (vogliamo parlare della guerra in Ucraina? del Medioriente? degli appelli inascoltati?) che cerca di mettere a tacere l’arte e chi chiede pace.
Nella foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Simon Boccanegra