L’opera di Giuseppe Verdi ispirata al primo doge di Genova grido di dolore contro tutte le guerre torna a Milano diretta da Lorenzo Viotti con la regia di Daniele Abbado
Chi è? Meglio… chi sarebbe? Meglio ancora… chi potrebbe essere Simone oggi? Simone Boccanegra, personaggio storico, primo doge della Repubblica di Genova, nato nel 1301, morto forse avvelenato (in Verdi, in Giuseppe Verdi e nella sua opera Simon Boccanegra, succede proprio così) nel 1363. Primo e quarto doge della Repubblica di Genova, perché Boccanegra, acclamato dal popolo nel 1339 (in Verdi, in Giuseppe Verdi e nella sua opera Simon Boccanegra, succede proprio così), nel 1344 rinunciò al potere ritirandosi a Pisa, ma tornò sul trono nel 1356, quarto doge, appunto, della Repubblica. E così in Verdi, in Giuseppe Verdi e nella sua opera Simon Boccanegra – tratta da un dramma di Antonio Garíca Gutiérrez, lo stesso a cui il compositore si ispirò per Il trovatore – vediamo Simone prima acclamato dal popolo, all’inizio del suo primo mandato, nel prologo, e poi, nei tre atti del dramma, nel pieno del suo secondo mandato, fino alla morte, per avvelenamento. Perché, come si legge nella prima pagina del libretto (di Francesco Maria Piave e Arrigo Boito, il primo autore del testo della prima versione, del 1857, il secondo responsabile della revisione – che è poi la versione che si ascolta oggi – del 1881), perché, come si legge nel libretto, «Tra il Prologo e il Dramma passano venticinque anni».
Ma si diceva. Chi è? Meglio… chi sarebbe? Meglio ancora… chi potrebbe essere Simone oggi? Simone Boccanegra, personaggio storico reso universale (dal particolare della metà del secolo XIV) da Giuseppe Verdi. Che non vuole fare un documentario in musica sul doge. Nessun compositore (o nessun pittore, o nessun drammaturgo, o nessuno scultor, o nessun coreografo…), lo sappiamo, mettendo in scena una vicenda storica, vuole fare un trattato di storia… impresa impossibile, ma anche oltre il compito dell’arte stessa. Che deve fare del particolare qualcosa di universale. Se davvero vuole essere Arte. Non un documentario, allora, il verdiano Boccanegra. Ma una riflessione sul potere. E forse non è un caso che Verdi scelga il primo doge della Repubblica di Genova, figura che apre un nuovo capitolo (e come sempre ogni nuovo inizio è pieno di speranze, ma anche di rancori…) nella storia secolare della Repubblica… oggi parliamo di Prima, Seconda, Terza Repubblica guardando alla nostra Italia, dalla breve storia democratica.
Riflessione sul potere. Opera politica il Simon Boccanegra – certo, anche opera sulla paternità (il senso drammatico della perdita, la gioia del ritrovarsi…) e sull’amore (c’è dentro un po’ di Romeo e Giulietta, ma con un lieto fine, nella storia di Amelia/Maria Boccanegra che ama il “nemico” Gabriele Adorno…). Opera politica drammaticamente attuale in quell’appello disperato «E vo gridando: pace! E vo gridando: amor!» che oggi potrebbe, anzi dovrebbe (imperativo categorico) risuonare in Ucraina, in Medioriente, negli oltre duecento focolai di guerra accesi in tutto il mondo, dove fratelli, eredi dell’odio dei loro padri, si lacerano il cuore… parafrasando Simone. «E vo gridando: pace! E vo gridando: amor!» appello (inascoltato) che Papa Francesco non si stanca di lanciare. Insieme a tanti uomini che credono (ancora) nella pace. Nel dialogo.
Potrebbe essere uno di loro, oggi, Simone. Potrebbe essere… uno di loro, uno dei tanti che chiedono pace. O anche qualcun altro. Lo dice, ce lo dice, come sempre, con la sua potenza, Verdi. Uomo di pace. Uomo di dialogo Simone. Come tanti oggi. Che non ci sono, però, non li vedi, non li scorgi in controluce, in filigrana nel Simon Boccanegra (tutto nuovo, nuovo l’allestimento, nuovo il direttore, nuovo il cast) del Teatro alla Scala. Perché non ci dice chi potrebbe essere oggi Simone uno spettacolo – spettacolo nel suo complesso, di musica e azione – generico, superficiale, che non scava nel profondo del testo e della musica… uno spettacolo che resta in superficie di un testo profondo come quello verdiano limitandosi a “raccontare” la storia. E facendolo anche abbastanza genericamente, con un’estetica (nel suono e nell’immagine) problematica, a tratti respingente, sicuramente datata… che non è l’estetica delle scene dipinte e del costume storico e dell’opera come una volta, ma quella di una post avanguardia anni Duemila (forse anche figlia di un certo intellettualismo anni Settanta) che spoglia la scena (tra pareti di cemento e scale squadrate e led e neon), la popola di costumi senza tempo (o meglio, di diversi tempi, dal Trecento del libretto, all’Ottocento della composizione, al Novecento delle grandi dittature a un oggi solo accennato), ma non la riempie di teatro, non la riempie della forza dirompente del testo. Testo di parola e di note.
Non lo fa la regia di Daniele Abbado, figlio d’arte, di Claudio Abbado, direttore che ha fatto di Simone uno dei suoi compagni di viaggio più amati e sofferti, diretto più volte per cercarne l’essenza più profonda, portato in scena con lo spettacolo di Giorgio Strehler, biglietto da visita di una Scala anni Settanta che Abbado (padre) ha fatto grande. Il Simone scaligero di oggi – che arriva dopo quello vagamente risorgimentale di Federico Tiezzi, pensato per Daniel Barenboim e Placido Domingo – sembra uno spettacolo non riuscito, dove le idee forse ci sono anche, ma non diventano carne. Scene essenziali, plumbee (disegnate dallo stesso Daniele Abbado insieme ad Angelo Linzalata) che sono pareti di cemento, muri, piani inclinati di legno come in tanti spettacoli del regista milanese – bella, però, l’apparizione (anche se per poco) del veliero, incomprensibile, invece, lo sfondo del giardino dei Grimaldi, primo quadro dell’atto primo, con lucine colorate che sembrano quelle della pista di un aeroporto. Scene che non “dicono” dove potrebbe vivere oggi Simone. Non lo dicono nemmeno i costumi di Nanà Cecchi, esteticamente non belli, almeno visti dalla platea (perché Amelia nella scena del consiglio, cuore dell’opera, è vestita come potrebbe esserlo Azucena nel Trovatore? E perché Fiesco assomiglia al Don Camillo di Ferandel?) che mescolano epoche e stili, ma senza una valenza drammaturgica. Belle (come sempre) le luci di Alessandro Carletti, filo rosso tra i due allestimenti scaligeri di inizio anno, autore delle luci anche della Medée di Damiano Michieletto – a proposito, il regista veneziano è stato accolto da sonore contestazioni alla prima dell’opera di Cherubini, mentre per Abbado nemmeno un buu, solo applausi (stranezze scaligere…) meno intensi, è vero, ma pur sempre appalusi… eppure che regia quella di Michieletto, capace di dire qualcosa (anche di scomodo forse, forse anche non pienamente condivisibile…) su un testo di sconcertante modernità.
Sconcertante modernità, come quella del Boccanegra. Che nemmeno Lorenzo Viotti restituisce nella sua forza rivoluzionaria. Contenutistica, certo. Ma anche musicale. Il direttore d’orchestra svizzero, alla prova del fuoco di Verdi alla Scala, passa la prova del loggione (stranezze scaligere…) con una direzione tutta in difesa, che non offre una lettura “moderna” del testo musicale, che non osa. E dove prova a farlo non c’entra l’essenza verdiana, disseminando qua e là rallentandi, rubati, portamenti che danno un sapore francese ad un’opera che francese non è – e Verdi nemmeno quando scrive per Parigi si piega allo stile francese… restando italiano nel profondo. Nulla contro la musica francese, intendiamoci, può anche piacere, ma Verdi è tutt’altra cosa. È sangue, certo, è lotta, è continua vibrazione interiore… fremito, febbre, tensione ad un ideale… ed è scrittura raffinata, raffinatissima (il mare che si sente, il veleno che lavora, sin dalla prima scena…) da restituire nella sua immediata bellezza fatta di semplicità (forse la cosa più difficile da ottenere, in generale, nella vita).
Così il prologo del Simone di Viotti non è abbastanza nero, di quel nero che gli stende sopra Paolo Albiani, personaggio inquieto e inquietante forse più di Jago. Così il primo duetto tra Amelia e Adorno è eccessivamente zuccheroso – eppure dentro c’è il tormento di una ragazza che ha paura di raccontare al suo uomo di non essere quella che tutti credono essere, non ci sono emoticon e like. Così il duetto tra Simone e Amelia non ha la tensione (psicologica, che c’è nella scrittura verdiana) di una scoperta che arriva improvvisa, come un colpo di vento, e cambia per sempre la vita. Così la scena del consiglio non ti scuote… Così il finale… Al netto di qualche scollamento tra buca e palcoscenico Viotti regge comunque le fila del discorso. Discordo che, è però, tutto in orchestra. Perché l’attenzione ai colori, ai particolari è tutta nel tessuto sinfonico. Non nel canto. Lasciato alla sensibilità degli interpreti – sicuramente passata la tensione della prima tutto filerà più liscio e la lettura forse decollerà.
Interpreti che sulla carta sono tutti (o quasi, perché era abbastanza prevedibile un Fiesco pallido di Ain Anger, eccellente Pimen nel Boris del 2022, ma non a fuoco con Verdi, tanto che ha dovuto passare la mano nel ruolo del Grande Inquisitore dopo la generale dell’inaugurale Don Carlo), interpreti che sulla carta sono tutti verdiani doc. A iniziare da Luca Salsi, finalmente nel ruolo del titolo alla Scala, continuatore della linea nobile dei Galeffi, dei Protti, dei Guelfi (Giangiacomo), dei Cappuccilli, dei Bruson (Domingo no… storia a sé). Salsi modella la parola verdiana nel canto e nel declamato, restituisce un personaggio fatto più di ombre che di luci, le ombre che avvolgono l’uomo di potere, ma anche quelle che attanagliano l’uomo che troppo presto ha perso la donna che amava e non è mai riuscito a colmare questo vuoto, «Maria»… il nome della donna che ha amato… l’ultima parola che si perde nell’aria insieme al suo ultimo respiro. Salsi commuove nella grande scena finale, tutta scolpita nella musica, lavorata per sottrazione… verdiana perché lì è lui che detta i tempi, è il suo canto che scandisce il respiro del racconto. Viotti lo segue e così il finale arriva davvero al cuore del Simone, all’essenza del Boccanegra.
Ma l’appiombo (l’intesa) tra buca e palco non è sempre scontato. E fa un certo effetto sentire che stavolta Eleonora Buratto, Amelia attesissima, non mette a segno, come da tempo ci ha abituati, una delle sue interpretazioni da antologia (eppure, Amelia, l’aveva cantata con Riccardo Muti a Roma nel 2012). Qualcosa non torna da subito, dal Come in quest’ora bruna, aria impervia, canto senza rete, senza appigli – glieli dovrebbe dare il podio dato che il tappeto orchestrale è un tremolio di archi e di legni – che la Buratto porta a casa, ma non senza fatica. La musicalità, la bellezza della voce di sempre ci sono, ma non risaltano come dovrebbero – anche la scenografia tutta aperta, con il canto che tende a perdersi nel retropalco, non aiuta a “gettare” il suono in platea. Esce, invece, il personaggio, grazie agli accenti sempre drammaticamente sul testo, commoventi, veri. Come lo sono quelli di Charles Castronovo, tenore “alla Kaufmann” per il bronzo della voce e per la generosità del canto, sempre spiegato ed eroico. Sfumato, insinuante, inquieto e inquietante (di un’inquietudine che non ha i contorni della paura, ma quelli di una quotidiana, tranquilla normalità e che dunque fa ancora più paura) il canto di Roberto De Candia, scuola antica e sapiente, al quale bastano poche pennellate per tratteggiare un personaggio come Paolo, motore, con la sua invidia per il potere, di tutta la vicenda.
Vicenda che resta lì. Sospesa in un tempo non tempo, in un luogo non luogo immaginato da Abbado. Senza dirci davvero (ed è un peccato) chi è, meglio… chi sarebbe, meglio ancora… chi potrebbe essere oggi Simone Boccanegra.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Simon Boccanegra