Trionfale tappa milanese per il direttore e l’orchestra Usa grandi in Strauss e Prokof’ev, ma anche in Puccini e Verdi Bentornato a casa, l’abbraccio degli scaligeri al maestro
«Non potevamo, io e i miei musicisti della Chicago symphony orchestra, andare via da questo luogo, dal Teatro alla Scala, senza suonare Verdi». Riccardo Muti e la corazzata musicale statunitense fanno «un’eccezione per Milano». E dopo il bis con l’Intermezzo della Manon Lecsaut «per rendere omaggio, in questo anno che ne celebra il centenario della morte, a Giacomo Puccini», come hanno fatto in tutte le tappe della loro tournée europea, ecco un secondo bis, inaspettato. Muti e i professori della Chicago propongono la Sinfonia «di un’opera che qui non ho mai diretto, Giovanna d’Arco». Perché il maestro «qui» è ancora di casa. Nonostante l’addio burrascoso del 2005. Ferita (per lui, per la città, per la cultura…) in parte rimarginata, ma che, come tutte le cicatrici non si cancella completamente.
Sorrisi. Abbracci dietro le quinte, prima del concerto, nell’assalto al camerino una volta spente le note. I “suoi” musicisti, quelli che quando Muti è arrivato nel 1986 erano ragazzini, cresciuti con lui nei diciannove anni della sua direzione musicale, e oggi sono uomini e donne, prime parti della Filarmonica della Scala – che sabato, quasi in contemporanea, era impegnata in Conservatorio con una Prova aperta diretta da Daniel Barenboim (casi della vita, il direttore argentino ha guidato, prima di Muti, la Chicago) a favore (nel Giorno della memoria) dell’associazione Figli della shoah. Muti è di casa. Sorrisi con i dipendenti della Scala, tecnici e maschere. «Bello vederlo a Torino, ma per noi averlo qui è un’emozione unica». Il sovrintendente Dominique Meyer posta sui social una foto e commenta con un «Bentornato Carissimo Riccardo».
Il maestro è in forma. Ride, fa battute. Dietro le quinte. Ma anche dal podio. «Muti!» dice di fronte ai «Bravo!», «Grande maestro!» che piovono non solo dal loggione, ma anche da plachi e poltrone di platea – in sala c’è anche Morgan, insieme a Miuccia Prada, a Marcello Dell’Utri, a Ferruccio De Bortoli e a tanti volti noti (oggi un po’ cambiati, inevitabilmente) che popolavano Scala e dopo Scala dell’era Muti. «Muti!» intima il direttore napoletano facendosi il verso. E annuncia la Sinfonia «di un’opera che qui non ho mai diretto, Giovanna d’Arco». Parte il tremolio dei violini, teso, limpido e allo stesso tempo illuminato da una luce inquieta. Disegna l’atmosfera cupa, da caccia alle streghe che Verdi mette nella sua opera più sghemba (ci sono angeli e diavoli che cantano, le “voci” che sente la Pulzella), ma affascinate nella sua tensione musicale di già e non ancora, il già del Verdi degli anni di galera e il non ancora del Verdi della maturità. Parte il tremolio dei violini e Muti si trasfigura. Nel viso. Nell’atteggiamento del corpo, nella tensione che gli conferisce. Persino nel gesto. Il più verdiano di tutti i gesti. Gli basta poco per trasformare in “verdiano” il suono della Chicago, che prima era stato perfettamente straussiano, ma anche in perfetto stile Prokof’ev e anche pucciniano nella dolente malinconia della Manon.
Gli applausi scrosciano. Muti ringrazia. E saluta, tirandosi dietro le quinte i musicisti della Chicago – il concertmaster è un virtuosistico Robert Chen che non si alza all’ultima uscita del direttore per lasciarlo solo, sul podio, a raccogliere l’applauso. Lungo, affettuoso. Anche se Muti lo accoglie spalle al pubblico, rivolto ai “suoi” musicisti – che lo hanno eletto direttore emerito a vita, dopo la fine del suo mandato di direttore musicale. Perché al maestro non interessa «stabilire il record di minuti di applausi, che oi è facile, basta rallentare il passo, far alzare uno per uno tutti gli orchestrali… le strategie si sprecano. Tre uscite e poi tutti a casa» ripete spesso. Tre uscite anche alla Scala. Dopo un programma impegnativo.
Prima parte con Aus Italien di Richard Strauss, pagina del 1887, scritta dal compositore ventitreenne di rientro da un viaggio in Italia, a tratti ispirata (ha dentro la sapienza coloristica, ma anche l’inquietudine e la tensione emotiva e l’irrequietezza della pagine, sinfoniche e liriche, della maturità) e a tratti quasi caricaturale nel mettere in musica gli stereotipi dell’Italia, bello il racconto della campagna romana o della spiaggia di Sorrento, ma le “variazioni sul tema” di Funiculì funiculà… anche no, come si dice. Muti, che ama da sempre e da sempre dirige questa pagina, la viviseziona, la analizza in ogni minimo dettaglio (il lavoro di concertazione è da artigiano della musica che lavora di cesello) e la restituisce con una perfezione che non si potrebbe immaginare più perfetta. Aus Italien suona così asciutta, essenziale, lavorata per sottrazione. Romantica nel primo episodio, con la campagna romana che è più inquieta che rassicurante, che è più solennemente funerea che gioiosamente vitale – riflessione sulla vita di un direttore ottantenne che rilegge così le impressioni di un compositore (allora) ventenne. Impressionista, invece, nei bagliori dorati della sabbia, nel luccichio quasi abbagliante del sole che riverbera sull’acqua del mare del terzo movimento, quello che racconta la spiaggia di Sorrento. Incredibili i colori della Chicago, mozzafiato la bellezza che Muti imprime al racconto. I violoncelli sembrano una cosa sola, i violini (e tutte le altre sezioni) respirano di un respiro unico. Sussurrano… e i pianissimi sono commoventi. Ma sanno anche sorprendere (mai il loro suono, però, è sguaiato, nemmeno nella caricata e ostentata orchestrazione dei vicoli di Napoli dove risuona la melodia popolare di Funiculì funiculà) con l’incedere solenne del secondo quadro, che racconta le rovine di Roma, magari viste dall’altro, dal Campidoglio…
Che è lo stesso del finale della Sinfonia n.5 in si bemolle maggiore di Sergej Prokof’ev. Che finisce, visione di alcuni, con la vittoria dell’Armata Rossa che entra a Berlino… Prokof’ev la scrive nel 1945. Solenne, austera la lettura di Muti con la Chicago. Musicalmente impeccabile, tecnicamente perfetta. Meditativa la lettura che i musicisti statunitensi offrono, mettendo in luce, ma allo stesso tempo distaccandosi (e colorandolo di una malinconia inaspettata) dai numerosi riferimenti (cosa che capita anche nelle altre Sinfonie del compositore russo) al Romeo e Giulietta. Quello meditativo della melodia che “racconta” frate Lorenzo e del ballo, infuocato, ma con già dentro il presagio di morte che colora tutto il balletto. Così la Quinta di Prokof’ev, inquieta e tortuosa nel suo percorso tutto in salita come altre Quinte della storia della musica, diventa un a riflessione sul tempo. Sul nostro tempo. Che cerca l’uomo, ma che fa la guerra. Per trovare una vittoria che, ci dice la Storia, è, in realtà, solo una sconfitta.
Nella foto @Todd Rosenbreg la Chicago symphony orchestra diretta da Riccardo Muti