Le polemiche politiche dopo l’identificazione della Digos del loggionista che ha gridato «Viva l’Italia antifascista»
Quello che il 7 dicembre ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala è stato senza dubbio un Don Carlo politico. Politico perché in controluce alla figura di Filippo II, ancora una volta, si sono visti tutti i tiranni che hanno attraversato la Storia. Politico perché il grido di libertà dei fiamminghi – e di Don Carlo e del suo amico Rodrigo – è un grido ancora oggi inascoltato, in Medioriente, in Ucraina, in tanti angoli del mondo dove si combatte e si muore. Politica la lettura, cupa e solenne, di Riccardo Chailly dal podio. Politica e “anticlericale” la messinscena di Lluís Pasqual, contestato sonoramente alla fine – ma anche il direttore d’orchestra agli applausi finali ha dovuto incassare qualche dissenso. «Non sono pentito di nulla. Faccio il mio lavoro. Che può piacere o non piacere. Come un cibo, una torta» ha detto Pasqual.
Unanime invece, nel corso dei 13 minuti di applausi, l’apprezzamento per il cast. Anna Netrebko, Elīna Garanča, Jongmin Park. «Una parte impervia e tutti quelli che lo hanno cantato, bene o male, non ci hanno dormito la notte prima» ha detto soddisfatto il tenore Francesco Meli, protagonista nei panni di Don Carlo. «Anche se per me è la quinta inaugurazione di stagione è come se fosse la prima perché le emozioni che si provano qui non si provano in nessun altro teatro. E anche l’affetto del pubblico è unico» le parole di Luca Salsi, intenso Rodrigo, applauditissimo (e giustamente) anche a scena aperta. Affetto che il pubblico ha espresso anche a Michele Pertusi. «Un malanno di stagione fa parte dei rischi del mestiere, ma ce l’abbiamo fatta» ha commentato a sipario appena calato il basso di Parma, raffreddato, ma, come annunciato al sovrintendente Dominique Meyer a metà serata, deciso a continuare la recita. E la sua Ella giammai m’amo è stata intensissima e commovente.
Un Don Carlo politico, quello del Sant’Ambrogio 2023, anche (e forse soprattutto) per le polemiche, politiche (e cavalcate dalla politica, quella urlata e fatta di estenuanti e perenni contrapposizioni da talk show) che hanno preceduto e seguito la Prima e che, immancabili, si sonco scatenate, in tempo reale via social a suon di hastag. #identificatecitutti quello lanciato da molti esponenti dell’opposizione e schizzato in alto nei trend dopo la notizia dell’identificazione da parte degli agenti della Digos di Marco Vizzardelli, il loggionista che dopo l’Inno di Mameli ha buttato lì – non un urlo, ma la frase detta dal 65 enne melomane con la sua voce inconfondibile e squillante che spesso risuona, per elogiare o per stroncare cantanti e direttori e registi, al Piermarini e in tanti teatri – il suo «Viva l’Italia antifascista». Applausi, ma anche mugugni in sala, racconta lo stesso Vizzardelli riferendo i fatti. «Ho detto una frase lapalissiana e costituzionale. Nata dalla riflessione sul fatto di avere in palco reale Liliana Segre insieme a La Russa e Salvini. Non mi è piaciuto che sia stata tirata in mezzo» racconta Vizzardelli. Ad innescare l’altra polemica politica, in realtà, alla vigilia del 7 dicembre era stato il sindaco di Milano Beppe Sala che ha chiesto di sedersi in platea accanto a Liliana Segre e non in palco reale con La Russa e gli altri rappresentanti delle istituzioni. Polemica poi superata con l’invito alla senatrice a vita (tra l’altro presente anche alle altre prime, ma mai nessuno aveva chiesto di essere seduto accanto a lei…) in palco reale.
Tornando a Vizzardelli. Il loggionista scaligero, giornalista che si occupa di ippica, appassionato e sempre pungente nei suoi giudizi musicali, è stato prima avvicinato da un agente in borghese e poi identificato da quattro uomini nel primo intervallo di Don Carlo. «A loro ho detto che mi avrebbero dovuto arrestare se avessi detto Viva l’Italia fascista, perché l’apologia è reato. Hanno sorriso e mi hanno dato ragione, rassicurandomi che non mi sarebbe successo nulla». Così è stato. Niente è stato contestato a Vizzardelli mentre la Polizia di Stato ha precisato che «l’identificazione dei due spettatori presenti in Galleria è stata effettuata quale modalità ordinaria di controllo preventivo per garantire la sicurezza della manifestazione e non è stata assolutamente determinata dal contenuto della frase pronunciata». Oltre a Vizzardelli identificato anche lo spettatore che prima dell’Inno di Mameli ha gridato «No al fascismo».
Politico, il Don Carlo della Scala, anche negli ascolti della diretta di Rai1 seguita da un milione e 411 mila spettatori, con uno share dell’8,4%, in calo rispetto al milione e mezzo di ascoltatori e al 9,1% di share registrato lo scoro anno da Boris Godunov – ma l’opera di Musorgskij durava quasi la metà del melodramma verdiano con la diretta iniziata alle 17.45 e terminata alle 22.15. Inevitabile che un’opera imponente come Don Carlo possa ver scoraggiato qualcuno, ma il calo (sono lontani i record di Tosca che nel 2019 ha raccolto due milioni e 850 mila spettatori) forse è anche segnale (sui social si sono moltiplicati i post in questo senso) della superficialità e della banalità degli interventi di chi è stato chiamato a guidare gli spettatori in tv tra un atto e l’altro.
Record, invece, per le casse della Scala. Don Carlo con i suoi 1888 spettatori ha incassato due milioni 582 mila euro, oltre 80 mila in più rispetto allo scorso anno. Ma occorre tenere presente che quest’anno i biglietti sono aumentati: se lo scorso anno un posto di platea costava 2 mila e 500 euro a cui andava aggiunto il 20% di prevendita, arrivando così a 3 mila euro, quest’anno, in cui il teatro ha deciso di incorporare il diritto di prevendita nel prezzo finale, per una poltrona occorreva versare 3 mila e 200 euro.
Nella foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala il teatro la sera del 7 dicembre
Articolo pubblicato su Avvenire del 9 dicembre 2023