Il tenore protagonista dell’opera che inaugura la stagione racconta il personaggio, tra sbalzi emotivi e grandi ideali
«Un momento è timido. Poi strabordante. Un attimo dopo è innamorato cotto, cammina sulle nuvole. Ma basta un secondo ed è arrabbiatissimo». Un adolescente, con i suoi sbalzi di umore, i suoi salti mortali emotivi. Un adolescente, di ieri o di oggi, poco importa. Adolescente Don Carlo. «Quello che ci consegna Giuseppe Verdi nella sua opera ispirata alla tragedia di Friedrich Schiller. E io lo voglio raccontare così». Francesco Meli è il protagonista – prima volta nel ruolo del titolo dopo aver cantato tanti 7 dicembre come Cavaradossi in Tosca o Carlo nella Giovanna d’Arco o Macduff in Macbeth – del Don Carlo di Verdi che inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala. «Alla fine, però, non è che cambi più di tanto perché cantare Cavaradossi non è certo meno impegnativo. In Don Carlo poi siamo tutti protagonisti allo stesso modo». Anna Netrebko è Elisabetta, Michele Pertusi Filippo II, Luca Salsi Rodrigo, Elīna Garanča Eboli, Jongmin Park Il Grande Inquisitore (chiamato solo l’altro ieri a sostituire il previsto Ain Anger). Sul podio Riccardo Chailly, regia di Lluis Pasqual – scene essenziali di Daniel Bianco, costumi “filologici” del premio Oscar Franca Squarciapino ci portano in una Spagna cupa. «Certo – racconta il tenore genovese, alla vigila del Sant’Ambrogio 2023 – vestire i panni del protagonista è una gioia, una soddisfazione e insieme una grande responsabilità perché essendo l’ultimo che esce a prendere gli applausi mi sento il capocordata della compagnia».
Tanto più, Francesco Meli, che quello di Don Carlo è uno strano ruolo, non ha un’aria vera e propria, se non in parte la sortita iniziale, ed è (quasi) sempre in scena.
«Questo vuol dire che non puoi mollare mai. Quando hai un’aria tua, un momento in cui puoi dare il massimo – non che nel resto dell’opera si fa meno, ma si sa, l’aria è sempre un momento particolare in cui spesso ti giochi la serata – puoi dosare le forze e concentrarti su quello. In un’opera come Don Carlo, invece, essendoci sempre devi essere sempre vigile. In ogni scena, tanto musicalmente quanto emotivamente, il mio personaggio è sempre molto presente, lo senti chiaro che si staglia sul canto di tutti. Così tutta l’opera è come se fosse una lunga aria di quasi tre ore. Cosa che richiede una grande concentrazione».
Chi è Don Carlo, quello di Verdi che vedremo in scena stasera?
«È la terza volta che interpreto questo ruolo. Un ruolo nel quale ho scavato, grazie anche alle indicazioni del regista, e che ho approfondito personalmente. Don Carlo non ha un carattere che si può inquadrare in modo chiaro e netto, mi piacerebbe far emergere i grandi sbalzi emotivi che vive, subendo quello che gli accade intorno. A parte nel duetto con Rodrigo che è lineare, in tutti i momenti successivi assistiamo a grandi fluttuazioni sentimentali: nel primo duetto con Elisabetta, nel giro di sei minuti, cambia umore cinque o sei volte, tanto che non è una , ma sono cinque o sei scene insieme: si va da un’iniziale timidezza, ad un impeto, ad un fuoco acceso, ad una svenimento, ad un momento di estasi e alla rabbia finale. Per questo difficile dare un carattere preciso Don Carlo, perché non lo ha, Don Carlo è una continua tempesta emotiva che sorprende e travolge. È come, lo dico da genovese, se ti mettessi a navigare in un mare forza 3 e improvvisamente questo diventa forza 10».
Un lavoro di “ripensamento” anche musicale?
«Come sempre con il maestro Chailly siamo andati nella direzione di una fedeltà assoluta alle indicazioni che Verdi ha messo in partitura, nelle dinamiche, nei tempi, negli accenti, nella correttezza ritmica che potrebbe sembrare solo una questione matematica, il rispettare un ritmo preciso, ma in realtà è una ricerca di espressione musicale di intenzioni e sentimenti. È stato un lungo lavoro collettivo e personale di fedeltà al testo: si prova a fare tutto, non è detto che sempre ci si riesca».
Ha un Don Carlo di riferimento?
«Direi di no. Tra l’altro Don Carlo è l’opera che ho ascoltato meno cantata da altri. Come spesso mi capita quando lo sento, Carlo Bergonzi è sempre il tenore che suggella tutto per la sua grande ricerca musicale. Certo il Don Carlo di José Carreras è intenso e denso di emozione, capace di far evaporare ogni frase in una sorta di nebbia, tra malinconia e sogno, perché Don Carlo è sempre sognante, quasi sulle nuvole, ha sempre un po’ di nebbia che lo avvolge e offusca il tutto. Penso poi che la verità e l’umanità che Luciano Pavarotti ha messo nel suo Don Carlo e in particolare nel duetto finale sia inarrivabile: Luciano disegna un uomo che vorrebbe essere un eroe, ma si trova sconfitto dalla vita, non perdente, attenzione, ma piegato dalle situazioni. Ecco, i miei Don Carlo».
Il nero è il colore dominante dell’allestimento di Lluis Pasqual, un Don Carlo cupo, dato i tempi che viviamo?
«Quando mettiamo in scena un’opera dobbiamo chiederci se vogliamo un teatro che parla di noi o un’opera d’arte nella sua universalità. Alla Scala non abbiamo messo nessun riferimento all’attualità, sarebbe stato inopportuno in un momento come questo dove si combatte in Medioriente e dove si continua a morire in Ucraina. Sarebbe stato anche inutile, troppo semplicistico e direi controproducente. Non possiamo pensare di prendere le parti di uno o dell’altro – certo, occorre schierarsi stando dalla parte della verità – ma attraverso l’opera possiamo parlare di ciò che è successo prima (nella Spagna di Filippo II in questo caso) e invitare chi ascolta a fare il salto per riflettere sul nostro presente. L’opera può avere una funzione sociale e attuale, ma perché questo accada non serve sottolinearlo tre volte perché la musica ha in sé una sua forza che va oltre qualsiasi attualizzazione».
Don Carlo sembrerebbe solo l’innamorato di Elisabetta, in realtà è una figura politica attualissima, difensore degli oppressi.
«Il duetto finale che parte come un duetto d’amore è in realtà il duetto più politico di tutti: Elisabetta dà una carica emotiva a Don Carlo che si convince a fare la rivoluzione, “Sì con la voce tua quella gente m’appella. E se morrò per lei la mia morte fia bella” canta. Questo passaggio, forse troppo politico, in parte veniva tagliato e si passava direttamente al “Ma lassù ci vedremo in un mondo migliore” che per Verdi era sicuramente un’Italia unita. Nell’opera questo non accade, irrompe Filippo e Verdi, che era anticlericale, ma non ateo e non credente, mette l’intervento di Dio. “Dio mi vendicherà” canta Carlo. E si sente la voce di Carlo V che arriva a rapire Don Carlo per portarlo nel “mondo migliore”. È come se Don Carlo dicesse a Filippo e all’Inquisitore: “Voi continuate essere così schifosa io vado dall’altra parte del mondo a fare la rivoluzione”. E qui ci sono gli ottoni che fanno sprofondare tutto in un nero che mi ricorda quello del finale del Don Giovanni di Mozart, il finale che precede la morale che ci fanno i personaggi, quando il protagonista sprofonda con tutto il suo mondo all’inferno».
Don Carlo andrà in diretta su Rai1. Consigli per chi seguirà l’opera da casa?
«Non amo vedere l’opera in tv, forse perché è il mio lavoro e forse perché mi dà emozioni che si possono vivere solo in scena. A casa ci sono molte distrazioni che in teatro non ci sono. Suggerirei di provare a ricreare un clima da teatro, non mettendosi lo smoking, certo, ma abbassando le luci, spegnendo il telefonino per concentrarsi sullo spettacolo. Magari organizzando una visione insieme agli amici e poi andando tutti a cena. E provare a vedere l’effetto che fa».
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Francesco Meli e Luca Salsi in Don Carlo
Intervista pubblicata in gran parte su Avvenire del 7 dicembre 2023