Alla Fondazione Prada il capolavoro di Vincenzo Bellini libro di testo per la Riccardo Muti italian opera academy Lezioni e prove con giovani direttori poi l’opera integrale
La notizia, e non è cosa da poco, è che a Milano Norma si può fare. La Norma di Vincenzo Bellini. Melodramma bellissimo, capolavoro tra i più perfetti di Vincenzo Bellini – certo, ne ha scritti solo dieci nella sua breve vita… e chissà cosa avrebbe potuto lasciare se non fosse morto a 34 anni. Capolavoro sul quale si allunga da sempre, o meglio da quando la Divina lo rese ancora più immortale, l’ombra di Maria Callas. Al Teatro alla Scala, ad esempio, Norma manca dal 1977, quando la cantò Monserrat Caballé diretta da Gianandrea Gavazzeni – ma furono in molti ad avere qualcosa da ridire perché «come la cantava la Maria…». Da allora Norma è un fantasma che aleggia sul Piermarini – forse ci sarà in uno dei prossimi cartelloni firmati dal sovrintendente Dominique Meyer, si parla da qualche tempo di una possibile Norma con Marina Rebeka, Vasilisa Berzhanskaya e Michael Spyres, ma per ora ancora nessun annuncio. Perché quel fantasma, figlio di un “loggionismo” deviato, che pensa di avere la verità in tasca (su chi può cantare cosa) e si sente in diritto di sentenziare (con fischi e buu) decidendo le sorti di una serata, quel fantasma aleggia ancora.
Eppure, lo sappiamo, lo sanno bene le persone che davvero ne sanno di musica e di belcanto, la Callas, che in questi giorni compie cento anni (compie, al presente… perché la sua lezione, il suo canto sono ancora nostri contemporanei), non può e non deve essere la pietra di paragone – e tantomeno imitata. Mai. «Mettiamo da parte qualsiasi confronto con altre interpreti, non ha senso». Lo dice bene Riccardo Muti, in un inciso buttato lì mentre spiega che «facciamo Norma come momento finale del percorso dell’Italian opera academy, come momento in cui restituiamo al pubblico il lavoro di dieci giorni di prove». Lo dice. E ha ragione il maestro. Da sempre – e giustamente – avverso a qualsiasi tipo di “loggionismo” ancorato ad un passato (che in alcuni casi non si può conoscere, perché chi ha mai sentito come cantavano la Malibran o la Pasta?) da mitizzare. Lo dice. E dimostra che a Milano Norma si può fare. Azzardo, scommessa (vinta) dell’edizione 2023 della Riccardo Muti italian opera academy, nata a Ravenna, approdata nel 2021 a Milano con Nabucco e tornata ora nello spazio postindustriale (stile inconfondibile, lineare e in qualche modo ascetico nelle sue linee tutte verticali di acciaio e cemento, grigio, verde, ocra) della Fondazione Prada. Ospite, Muti con la sua carovana di giovani talenti – i musicisti dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini, i quattro direttori (Izabela Kociolek, Massimiliano Iezzi, Rémi Geniet e Clancy Ellis) e i quattro maestri collaboratori (Nadia Kisseleva, Manuel Navarro Bracho, Michelangelo D’Adamo e Giovanni Alberto Manerba) selezionati tra centinaia di ragazzi che da tutto il mondo hanno inviato la loro candidatura, i solisti che hanno dato voce alla storia straziante di Bellini e del suo librettista Felice Romani – ospite Muti con la sua carovana di giovani talenti di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli (che torneranno ad ospitare Muti e la sua Academy nel 2025 con il Don Giovanni di Mozart), in prima fila alla serata finale accanto a Maurizio Pollini, Mario Monti, il sindaco di Milano Beppe Sala.
Norma a Milano si può fare. Con un gruppo di giovani – e il livello è altissimo, garantisce Muti, ma lo restituisce anche una generazione di musicisti forgiata dal maestro nel percorso didattico/formativo della Cherubini – che per dieci giorni ha “studiato” su un “libro di testo” come il capolavoro di Bellini. Si può fare Norma senza timore. Bellissima, fedelissima al dettato belliniano. «Non intendo rivelare la Norma, perché nessuno ha la verità in tasca. Io non possiedo la verità, nessuno in musica la possiede. Non voglio rivelare nulla di inedito, ma aiutare i giovani dell’Academy e il pubblico a scoprire la vera musica sta dentro le note e tra le note stesse. Dopo Verdi, Mascagni, Mozart penso di poter dare qualche spunto di riflessione sul belcanto che ha un suo specifico fraseggio, tocca un climax e poi muore… e questo climax va preparato, inseguito e raggiunto… Bellini è un contemporaneo di Schubert e questo si sente. Come Schubert Bellini ha lo stesso modo di condurre la frase musicale senza compiacimenti e senza indugi superficiali» spiega Muti prima di salire sul podio. Poi vede Maurizio Pollini in prima fila, «Maurizio, perché non mi hai detto che c’eri». Lo abbraccia. Lo indica al pubblico. «Signori, Maurizio Pollini». E lui, schivo come pochi, non si sottrae all’affetto di Milano. «Il fatto che io diriga l’intera Norma non vuole essere una rivelazione, ma sarà una scoperta anche per me perché anche se ho diretto Norma molte volte c’è sempre qualcosa di nuovo da capire di questo capolavoro».
Un attimo. Piglio sicuro, deciso (che è quello di sempre) Muti sale sul podio e attacca la Sinfonia della Norma. E sei subito dentro un mondo. Un mondo sonoro. Un mondo che si fa concreto, che si fa immagine, anche se l’opera è proposta in forma di concerto – ma quanto teatro dentro la direzione di Muti (quando Norma canta il suo drammatico «Dormono entrambi» meditando di ammazzare i suoi figli ti sembra di vederli i due bambini, lì accovacciati mentre lei alza il pugnale…), quanto teatro dentro il canto scolpito e per immagini degli interpreti, dentro la capacità dell’orchestra di descrivere un paesaggio che è fisico (la senti la foresta, immagini di entrare in casa di Norma, in punta di piedi…), ma è anche un paesaggio di sentimenti, quanto teatro dentro il canto del coro (quello del Municipale di Piacenza) in un «Guerra! Guerra!» barbaro e fremente, che ti porta sul campo di battaglia e ti avvolge di fuoco. Muti attacca la Sinfonia e sei subito dentro il mondo di Norma. Un mondo barbaro, quello raccontato nella tragedia belliniana ispirata a un testo di Louis-Alexandre Soumet, Norma ou l’infanticide, dove l’amore è bandito, è qualcosa da guardare con sospetto. Un mondo di oppressi e oppressori, i romani e i galli – siamo nelle Gallie, nella foresta sacra dove sorge il tempio di Irminsul, un dio che chiede sacrifici umani – tra i quali scoppia l’amore, quello di Pollione prima per Norma e poi per Adalgisa, un amore che porterà alla morte. Muoiono per aver amato, Norma e Pollione.
Muti li racconta così. Nel loro impeto giovanile, nelle loro passioni, nelle loro speranze. Ma anche nelle loro miserie, nelle loro ombre di uomini che vogliono vendetta, ma poi perdonano. Norma lo fa. Lotta (per tutta l’opera) contro Pollione che l’ha tradita, vorrebbe accusare (della sua stessa colpa) Adalgisa, ma poi con quel «son io» si accusa davanti al popolo. E va verso il rogo. Che divampa, implacabile, nel fuoco che Bellini mette nella sua musica. «L’importanza della melodia, da far sentire sempre, in una sola arcata, con un solo respiro» ha spiegato Muti ai ragazzi della sua Accademia. Lo ha mostrato al pianoforte con i maestri collaboratori, leggendo la partitura, fermando il gesto dei direttori d’orchestra e riplasmandolo. Modellandolo sulla sapienza della scuola italiana. Che, pur non avendo la verità, affonda le radici in quella tradizione, in quel terreno. Così i ragazzi, che per dieci giorni hanno provato con Muti, si confrontano con alcune pagine della Norma. Che poi Muti propone integralmente. Restituendola – lui che l’ha diretta molte volte, consegnandola anche al disco – immediata, limpida, chiara, belliniana e perfetta, con introduzioni che tolgono il fiato, accompagnamenti del canto che non sono mai solo sostegno, ma dialogo, presenza, trama su cui si intrecciano suoni e colori. I colori belliniani. Lunari? diresti pensando a Norma che si presenta in scena cantando alla luna il suo Casta diva. Sì… ma non solo. Perché la Norma di Muti ha anche colori decisi, a tratti caldi, a volte cupi e scuri. Come la vita.
Lo ha mostrato, il mettere al centro l’importanza della melodia, nella sua Norma, che ha riassunto il lavoro di dieci giorni. O forse di una vita. Tesa in un arco narrativo che, quasi in un respiro unico, ci accompagna dalla Sinfonia al drammatico e allucinato finale. Intensa, teatralissima la Norma di Muti. Che, in quel “laboratorio” di musica e idee che è la Italian opera academy, ha lavorato (e sperimentato, insieme ai giovani direttori) plasmando il canto di un cast fatto (anche questo) tutto di giovani. Avrà la voce per Norma? la domanda quando è stato annunciato che a interpretare la sacerdotessa sarebbe stata una giovanissima, 28 anni, Monica Conesa (già ascoltata, proprio nel Casta Diva questa estate, tra Ravenna, Giordania e Pompei ne Le vie dell’amicizia di Ravenna festival). «Ma come diceva Antonino Votto a chi gli proponeva una cantante per Norma, ha la voce per cantare In mia man alfin tu sei? Perché è lì il cuore dell’opera, Casta diva lo possono cantare in tante» ha ricordato, più volte Muti. La Conesa la voce, intesa come corpo e volume dello strumento, ce l’ha. Bella? Non sempre, spesso metallica. Canta, strabordante e carismatica – fare una Norma tutta in attacco è più facile che non sfaccettarla, ombreggiarla, sbalzarla nella complessità della sua personalità… ma per un inizio va bene anche così. Quello va meno bene (che stona? diciamo cosi?) è il palese calco di Maria Callas che il soprano americano-cubano mette nel suo canto. Nella prima parte te ne accorgi a tratti, ma nella seconda il debito (di accenti, di colori, di emissione…) è evidente.
Originalissimo, invece, il Pollione di Klodjan Kaçani, tenore dallo squillo brillante, musicale e svettante per il ruolo del proconsole romano. Ruolo che potrebbe sostenere tranquillamente anche “l’altro” tenore, quello che canta il ruolo di Flavio, e che è Riccardo Rados, voce più scura, brunita, musicalissimo e incisivo nei (brevi) interventi che la partitura gli affida. Puntuale e precisa anche la Clotilde di Vittoria Magnarello. A segno, grazie ad una voce piena, sicura in acuto e tornita nel centro, anche Eugénie Joneau che è un’Adalgisa risoluta e dolente, capace di tenere le fila del discorso nei duetti con Norma e Pollione. Altra voce che corre, che svetta e lascia il segno è quella di Andrea Vittorio De Campo, imponente e autorevole Oroveso. Stesso cast che porterà Norma a Ravenna per la Trilogia d’autunno di Ravenna festival, tutta affidata a Muti che, dal 16 al 22 dicembre al Teatro Alighieri, dirigerà anche Nabucco e un Gala verdiano che sarà replicato anche al Teatro Verdi di Busseto il 23 dicembre.
Intanto a Milano applausi per tutti. Affetto (tanto, dimostrato in ogni giornata dell’Accademia, che ha visto passare dalla Fondazione Prada molti volti della cultura e della musica milanese) per Muti. A dire, ed è una bella notizia, che a Milano, senza nostalgie e “loggionismi”, Norma si può fare.
Nelle foto @Alessandro Saletta e @Patrick Toomey Neri Norma alla Fondazione Prada