Il melodramma di Boito inaugura la stagione dell’Opera Direzione trascinante di Mariotti, regia visionaria di Stone per la partitura monumentale ispirata al Faust di Goethe
Forse non ci siamo mai mossi da lì. Non ci siamo mai mossi da una di quelle poltrone, la testa lasciata cadere da un lato in un pomeriggio assonnato come tanti, tutti uguali. Non ci siamo mai mossi da quella tv, enorme, ma spenta, lo schermo inesorabilmente nero. Non ci siamo mai mossi da quello stanzone bianco. Bianche le pareti. Bianchi gli arredi. Bianchi coloro che lo abitano. Un bianco abbagliante. Immagine potente, la luce che ti fa chiudere gli occhi perché non ne reggi la forza penetrante, immagine potente di quella soglia, di quel confine di quel «passo estremo» che ci interroga da sempre (e ci attende da un secondo dopo che siamo nati) e che non si può raccontare. Si può solo intuire. Perché nessuno ce lo ha mai raccontato. C’è? Non c’è? Un mondo simile al nostro? Un’altra dimensione? Si può solo provare a immaginarlo il post-umano. Si può solo rivestirlo del nostro oggi perché questo è il nostro orizzonte – lo ha fatto l’arte, in ogni tempo, dandogli connotazioni contemporanee, contorni umani, troppo umani tanto che oggi potremmo immaginare un post-umano di tablet e smartphone. Si può solo rivestirlo del nostro oggi per provare a immaginare come sarà il post-umano. Come è. Perché è in corso. Già ora. Si può forse sognarlo. Intuirlo, metterlo a fuoco in uno di quei dormiveglia febbricitanti e lucidi, fatti di visioni e consapevolezze, di fantasie che hanno la concretezza quasi materica del reale. Dove il confine ha i contorni sfocati dalla nebbia.
Si può sognarlo, come Faust. Immerso nel suo dormiveglia in cui «si bea l’anima già». Faust. Che come noi, forse, non si è mai mosso da quello stanzone bianco. Sulla sua sedia a rotelle. La testa pesante che cade da un lato. Che ogni tanto si scuote, per provare a riordinare, in un pomeriggio come tanti, tutti uguali, la sua vita. Proiettarla sullo schermo nero di quella tv spenta, al centro dello stanzone bianco. Schermo che si accende di lampi di colore. Lampi di vita. Sequenze di amore (desiderato) e di terrore (vissuto). Di dolore (inciso nella carne) e di gioia (passata troppo in fretta). Sequenze di vita. Non ci siamo mai mossi, noi e Faust, da lì, da quello stanzone bianco, sala comune di una qualsiasi Rsa asettica e sterile per tenere fuori il (virus del) mondo in un limbo da pre-coma. Anticamera di un aldilà tutto da immaginare. Non ci siamo mai mossi da lì, ma lo scopriamo solo alla fine. Alla fine di un viaggio allucinante. Alla fine del Mefistofele di Arrigo Boito che ha inaugurato la nova stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Michele Mariotti sul podio, debutto italiano (attesissimo) per il regista australiano Simon Stone – quello della Traviata influencer che munge una mucca.
Mefistofele, opera bellissima e affascinante (ci devi entrare dentro, convinto, per perderti e ritrovarti) nella sua strampalata, sghemba e visionaria costruzione. Profondissima dietro l’apparenza di bigino del Fasut di Johann Wolfgang Goethe – il libretto, che riesce a condensare tutta l’essenza del capolavoro dello scrittore tedesco, è da capogiro per termini che sono pura poesia, scapigliati, certo perché è quello il clima culturale in cui Mefistofele germoglia. Profondissima nella sinteticità del racconto e dei versi (Boito scrive parole e musica di Mefistofele per Milano nel 1868, ma è un insuccesso e lo rimaneggia, asciugando, nel 1875 per Bologna e l’anno successivo per Venezia) che ripercorrono l’avventura di una vita. Profondissima nella speculazione filosofica e teologica, quasi una disputa tra Faust (prototipo dello scapigliato, artista legato al passato, ma anche con la consapevolezza che la scienza farà inesorabilmente il suo coro) e Mefistofele – a proposito, questo si descrive come «una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene». Teologia che nega, lo «spirito che nega» si definisce ancora Mefistofele. Filosofia che guarda solo all’immanente. «Dimmi se credi Enrico nella religione» chiede Margherita a Faust. «Non vo turbar le fedi delle coscienze buone, d’altro parliam» svicola lui dicendo poi il suo credo, «Darei, per chi amo, fanciulla, sangue e vita» perché «le parole dei santi son beffe al ver ch’io chiedo». Una verità da cercare, da toccare con mano. Immanente, appunto. Da rintracciare, forse, in un esperimento di laboratorio. Asettico, per tenere fuori il (virus del) mondo.
Un laboratorio bianco. Dove Simon Stone ambienta il suo Mefistofele. Che è un esperimento – e forse quegli anziani tutti bianchi sono (come noi) cavie da laboratorio. Una dimostrazione. D’altra parte l’opera di Boito si apre con una scommessa, quella che nel Prologo in cielo (e il rischio inondato da così tanata musica, che Michele Mariotti dirige lasciandoti senza fiato, è di cadere in estasi), scommessa che Mefistofele fa con Dio, il «vecchio padre» (anche se non parla mai, lo fa, per lui, il Chorus Mysticus) con il quale scommette di distogliere Faust dall’«Evangelo». Ci riesce. O quasi. Perché alla fine, dopo che non si è mai mosso da quello stanzone bianco, Faust – strano personaggio davvero, prima credente, poi agnostico e alla fine santo – arresta l’attimo (il segnale che la sua anima sarebbe stata in potere del diavolo) su un gesto di altruismo, «a un popolo fecondo voglio donar la vita… sotto una savia legge vo’ che surgano a mille, a mille e genti e greggi e case campi e ville». Vagheggia, questo vecchio in sedia a rotelle. Dopo aver visto accamparsi su quello schermo nero (e noi insieme a lui) la sua vita.
Stone ce lo racconta così Mefistofele. Opera forse impossibile da mettere in scena. Che ha bisogno di un segno drammaturgico forte. Stone ci prova. Forse non ci crede fino in fondo anche se nella sua trasposizione contemporanea e fori dal tempo non c’è una cosa che non sia “filologica” sulle indicazioni del libretto. Certo quello schiaffo, quella spettinata che ti aspetteresti dal regista australiano (che ha in mano un testo “scapigliato”) questa volta non arriva. O meglio, arriva solo a metà. Perché il Prologo lascia il segno – coro affacciato a grandi finestroni lunghi e orizzontai, come a guardare dentro una sala operatoria al centro della quale c’è una scala a chiocciola che sale direttamente dall’inferno e che Mefistofele sale con il fiatone per scommettere con dio. La Domenica di Pasqua è reinventata come una festa di paese con la giostra di cavalli, il tiro a segno, i venditori di zucchero filato e popcorn con Mefistofele mascherato da clown (alla It di Stephen King). Il laboratorio di Faust è pieno di radiografie di uomini e animali – Faust vorrebbe catturare l’essenza della vita. Il Giardino di Margherita, dove Faust ruba l’innocenza alla ragazza, è una grande vasca piena di palline colorate, di quelle dei giochi dei bambini. E la Notte del sabba è una adunata di balilla e giovani italiane, dove il Duce/Mefistofele compie un rito iniziatico con il sangue di un maiale appeso a testa in giù – statico, è vero, ma da brivido. Poi l’invenzione frena. Le suggestioni perdono di forza. E il carcere di Margherita è una stanza vuota con un grande schermo nero su cui la ragazza rivede la sua “colpa” (il figlio nato e ucciso, la madre avvelenata), il sabba classico non si capisce se sia una rappresentazione verosimile (della guerra di Troia) o se sia una “festa a tema” magari alle terme. Scene e costumi sono di Mel Page, le luci bianchissime, ma anche colorate e calde e acide sono di James Farncombe.
E c’è il colpo finale. La casa di riposo dalla quale Faust e noi non ci siamo mai mossi. Pur facendo un viaggio dentro noi stessi, nelle nostre fragilità di uomini, nelle nostre miserie e nelle nostre grandezze. In quelle personali e in quelle della Storia. Lì Faust (e noi) ritrova la verità, l’essenza della vita che cercava nelle radiografie del suo studio. La trova in un gruppo di vecchi piegati e addormentati e soli, abbandonati a se stessi dal mondo. La trova in uno sguardo sul futuro, in quei giovani che escono dalle poltrone e dai divani e diventano forza, anima di quei corpi deboli e provati dalla vita, corpi (e anime) che hanno dato tanto e che ora vengono “salvate”, redente, risollevate dalle loro miserie. Come Faust. Certo «trionfa il Signor, ma il reprobo fischia» canta Mefistofele. E Michele Mariotti quel fischio lo fa sentire forte. Stridente. Perché il male sporca sempre il bene.
E il Mefistofele di Mariotti ha la potenza (michelangiolesca… la Sistina è a pochi minuti dal Teatro dell’Opera…) di un giudizio universale. Ha la forza dirompente di un terremoto che ti sorprende, inaspettato. Ha la visionarietà di un Dies Irae e insieme la tenerezza di un Lacrymosa. È una corsa frenetica, un mordere la vita, un assaporarla sino al midollo. Ma è anche un abbandono meditativo sul tempo, presente, passato e futuro ricapitolati insieme. Per fermare la vita (l’attimo) che (s)fugge. Per fissarla. Boito nel Mefistofele sperimenta, osa – e ci sono anche giochi linguistici che già ci proiettano su certe invenzioni futuristiche. Mariotti fa sua questa sperimentazione (che potrebbe essere anche solo esercizio, speculazione) e la rende teatro. Osa con tempi serratissimi, con colori cangianti, uno per ogni quadro. Osa con una direzione che rivela le grandezze della partitura di Boito – il Prologo vorresti risentirlo subito, la scena del carcere è tutta un fermento di impulsi quasi novecenteschi, gli archi hanno strappi, gli ottoni urli, le percussioni scoppi che ti gettano in mondi cupi alla Berg – e allo stesso tempo non ha paura di consegnare le ingenuità (che comunque funzionano) della scrittura. Osa, Mariotti, rendendo teatrale un’opera/oratorio (e la scelta di staticità nella disposizione delle masse sul palco fatta da Stone ne mette in luce proprio questo aspetto), facendone un cardiogramma di sentimenti e di vita pieno di picchi e di battiti irregolari. Di extra sistole (musicali) che non ti lasciano tranquillo.
Compito arduo, ma superato alla grande, per orchestra, coro e voci bianche dell’Opera, musicalissimi, compatti, convinti e convincenti nel restituire il mondo visionario di Boito. E dai solisti, guidati dal carisma (non di quelli debordanti alla Samuel Ramey, ma misurato e puntuale e dunque ancora più sinistro) e dalla voce scura e tornita di John Relyea, il Mefistofele del titolo, diavolo in completo argentato, pagliaccio sinistro, gentleman subdolo, duce inquietante. Joshua Guerrero, slancio tenorile da contenere e incanalare in un canto più disciplinato, è Faust. Maria Agresta una dolente Margherita, dolente anche nella scena d’amore con una voce velata di malinconia (forse di disillusione) che nel carcere si fa dolore disperato, impossibile speranza, nero pessimismo – e Stone la manda a morte mettendole un cappuccio in testa, brivido che ti butta in un secondo nei bracci della morte statunitensi. Sofia Koberidze, voce brunita e piena, è Marta e Pantalis. Marco Miglietta ha un bello squillo per Wagner. Leonardo Trinciarelli è Nereo.
Avvolti alla fine dalla luce – niente pioggia di fiori su Mefistofele, ma una pioggia di luce. Mentre Faust muore, riverso a terra – intorno a lui i vecchio del ricovero, che cantano le parole delle schiere celesti. Muore, riverso a terra sul pavimento di quella rsa dalla quale non ci siamo mai mossi. Ma ce ne accorgiamo solo alla fine.
Nelle foto @Fabrizio Sansoni Mefistofele al Teatro dell’Opera di Roma