La regista italiana, direttirce artistica del festival irlandese intitolato Women & War racconta il suo cartellone 2023 che la vede firmare la regia de La ciociara di Marco Tutino
In Irlanda c’è un festival (di opera) che parla italiano (che è “la” lingua dell’opera). «E lo fa da sempre, dal 1951 quando Tom Walsh e un gruppo di melomani, spesso in Italia per coltivare la loro passione per la lirica, diedero vita al Wexford festival opera, invitando, da subito, cantanti italiani. Giovani, perché questa è sempre stata una ribalta per giovani talenti, tanto che da Wexford è passata una giovane Mirella Freni» racconta Rosetta Cucchi, regista (e prima ancora pianista) di Pesaro che dal 2020 guida la rassegna irlandese. Giovani cantanti. Ma anche rarità musicali. «Perché un’altra caratteristica del festival è quella di andare a cercare opere dimenticate, spesso ingiustamente e inspiegabilmente dimenticate. E di metterle in cartellone, per far riscoprire al pubblico quelli che spesso sono gioielli preziosi, di una bellezza inaspettata» racconta Rosetta Cucchi che ha voluto dare anche un titolo ai suoi cartelloni, «un triplo salto mortale, perché trovare opere rare che parlino di uno stesso tema è ancora più complesso. Ma è una sfida che vale la pena lanciare». Tanto più se il tema è drammaticamente attuale come quello dell’edizione 2023 del Wexord festival opera, che si è aperto il 24 ottobre e proseguirà sino al 5 novembre, proponendo settanta eventi in tredici giorni.
Women & War, donne e guerra il filo rosso che attraversa i tre titoli del cartellone 2023, Zoraida di Granata di Gaetano Donizetti, L’Aube rouge di Camille Erlanger e La ciociara di Marco Tutino, partitura del 2015 che il compositore milanese ha riorchestrato per l’occasione. Tutino, uno dei tanti italiani a Wexford come Francesco Cilluffo, direttore principale ospite della rassegna irlandese in buca per La ciociara, e il giovane e (più che) promettente talento del podio Diego Ceretta, impegnato con la rarità donizettiana. E poi Matteo Mezzaro, Matteo Guerzé, Marta Pluda, Luca Capoferri… E Leonardo Caimi e Devid Cecconi, Michele e Giovanni nell’opera ispirata al film di Vittorio De Sica con Sofia Loren… di cui firma la regia proprio Rosetta Cucchi. «Una storia dalla forza immensa – dice la regista –. Una storia di donne in guerra».
Come le tante, Rosetta Cucchi, che raccontate quest’anno a Wexford.
«Women & War è il tema al quale ho pensato già dal 2020, quando ho firmato il mio primo cartellone. Ci sono voluti tre anni – in mezzo, lo sappiamo, c’è stato il Covid che ci ha costretto a cambiare i nostri programma –, ma ce l’ho fatta a raccontare le donne e la guerra. Non solo le donne che vivono in contesti di guerra, ma anche la guerra che le donne, che noi donne dobbiamo combattere quotidianamente, una guerra ai pregiudizi, alla violenza, alle discriminazioni… ma siamo forti. E combattiamo. Come le tre donne che sono le protagoniste delle opere in scena a Wexford, tre donne guerriere, che combattono la loro personale guerra, la Zoraida di Donizetti, la Olga di Erlanger e la Rosetta di Tutino. Tre diverse sfumature di donne che devono combattere nelle guerre quotidiane della vita e in quelle del mondo, tra bombe e violenza di chi viola il loro corpo, un’arma psicologica tanto orribile quanto diffusissima».
Come declinate questo tema, così drammaticamente attuale, nei tre tioli in cartellone, lontani tra loro nel tempo, il tempo del racconto e il tempo della composizione?
«Zoraida di Granta potrebbe sembrare a prima vista il classico triangolo amoroso tra Zoraida amata da Almuzir, ma già promessa ad Abenamet. In realtà è un’opera politica dove Zoraida combatte per il suo popolo. Il regista Bruno Ravella trasporta le vicende dalla Spagna del 1480 agli anni Novanta della Guerra dei Balcani, collocando l’azione in un luogo che richiama la Biblioteca di Sarajevo, distrutta dalle bombe. Un luogo che unisce il passato, la cultura e il tempo presente della guerra, per raccontare Zoraida che cerca di tenere insieme, con la sua battaglia, qualcosa che sta crollando. Olga, la protagonista de L’Aube rouge, lotta per salvare il suo uomo da se stesso, dalla sua volontà di autodistruzione. Lui è un nichilista, lei per amore combatte, ma poi è sconfitta, perché non riesce a scalvare Markariev che si lancerà in una missione suicida. Una vicenda che ci porta a prima della Rivoluzione di Ottobre, una musica bellissima, una storia molto teatrale e drammaticamente attuale se pensiamo alla guerra in Medioriente, con Israele e Gaza, “vicini di casa” che non riescono a convivere pacificamente».
E poi c’è La ciociara, di cui lei firma la regia.
«Una storia dalla forza immensa. Qui non una, ma due donne, madre e figlia, Cesira e Rosetta, che cercano di sopravvivere agli orrori della Seconda guerra mondiale. La Storia ci racconta che oltre 60mila donne vennero violentate dagli Alleati sbarcati in Italia per liberarla. Il racconto de La ciociara – prima il romanzo di Alberto Moravia, poi il film di Vittorio De Sica e ora l’opera di Marco Tutino dove alcuni personaggi, penso a Giovanni, sono molto più presenti e molto più cruenti rispetto alla pellicola – tocca questo tema, ma diventa anche un viaggio dei personaggi nella loro anima, personaggi che vengono cambiati dalla storia e nella storia».
Inevitabile il confronto con il film di De Sica che tutti conoscono.
«Inevitabile, certo. Il mio racconto è molto vicino a quello cinematografico. Anzi, parte proprio da lì, da un’ispirazione che mi è venuta riguardando la pellicola con Sofia Loren, che proprio grazie a LA ciociara è stata la prima attrice straniera a vincere l’Oscar. Mi ha ispirato la figura del regista, di Vittorio De Sica e me lo sono visto su un set vuoto a dare forma nella sua mente al racconto, a provare a immaginarsi come sarà il suo film. Che è poi, questo lavoro di immaginazione, di anticipazione nella nostra mente, che tutti noi registi facciamo quando lavoriamo a uno spettacolo e ci immaginiamo, prima di arrivare in teatro, prima di iniziare le prove, come sarà il nostro lavoro, come prenderà forma. Ed ecco che la mia Ciociara è il racconto di un regista che si racconta il suo film».
Il marchio di fabbrica di Wexford è quello di offrire al pubblico opere rare, riscoperte e prime assolute. Potrebbe essere una via che anche i teatri lirici più tradizionali, le nostre fondazioni liriche, ad esempio, potrebbero intraprendere in modo più organico, per coinvolgere il pubblico?
«Wexford è un luogo di ricerca, stimolante e impegnativa allo stesso tempo. E quella del festival irlandese potrebbe e dovrebbe essere una lezione anche per il mondo dell’opera. C’è un vastissimo repertorio di partiture dimenticate, a volte a ragione perché non così imperdibili, ma spesso ingiustamente e inspiegabilmente. Ci sono musiche che meritano di essere riscoperte, invece si preferisce fare per la millesima volta Traviata . nulla contro il capolavoro di Verdi, intendiamoci. La riscoperta, ma anche la proposta di opere nuove che raccontino con un linguaggio contemporaneo il nostro oggi – La ciociara lo fa magnificamente – potrebbe essere la strada per riportare a teatro il pubblico. Perché, non nascondiamocelo, dopo il Covid si fatica a tornare in sala. Stimolate curiosità, ricercate! mi viene da dire ai miei colleghi direttori artistici, in particolare in Italia».
Le opere rare, ma anche i giovani talenti a Wexford…
«Da sempre. Juan Diego Florez mise a segno qui uno dei suoi primi successi, quando nel 1996, dopo aver debuttato al Rossini opera festival di Pesaro con la Matilde di Sahbran – e io me lo ricordo bene perché ero pianista al Rof – venne a Wexford per L’etoile du nord di Meyerbeer. Di recente Wexford ha lanciato Lise Davidsen, oggi di casa dal Met a Londra alla Scala».
È difficile essere donna nel mondo dell’arte?
«Sì. Molto difficile. Io sono una donna che ha fatto la sua vita cambiando più volte cappello, prima pianista, ora regista. L’ho fatto seguendo la mia passione, credendoci. Ma sono sicura che la strada che ho dovuto percorrere per raggiungere i miei traguardi è stata molto più lunga rispetto a quella che sarebbe servita ad un uomo».
A proposito, il festival è nel pieno dell’edizione 2023, ma avete già presentato il cartellone 2024. Sul podio e in regia di una delle tre opere in programma ci saranno due donne…
«Sì, Danila Grassi dirigerà Le convenienze e le inconvenienze teatrali, ancora Donizetti, affidato alla regista Orpha Phelan. Un cartellone che ho voluto intitolare Theatre within Theatre, teatro nel teatro. Insieme al titolo donizettiano ci sarà Le maschere di Pietro Mascagni con Francesco Cilluffo sul podio e Stefano Ricci, del duo ricci/forte e direttore della Biennale teatro di Venezia, in regia. Ci sarà poi la prima in tempi moderni di The critic, opera del 1916 di Charles Villiers Stanford, ispirata all’omonima commedia del 1779 di Richard Sheridan e ambientata dietro le quinte, durante le prove di uno spettacolo: sul podio ci sarà Ciaran McAuley e in regia Conor Hanratty».