Simone Young sul podio per l’opera di Benjamin Britten ambientata dal regista canadese in un aula giudiziaria anche se il racconto è tutto nella mente del protagonista Cantano (e recitano) Brandon Jovanovich e Nicole Car
Claustrofobico. Allucinato. Inquieto e inquietante. Folle di una lucida e quasi metodica follia, il Peter Grimes di Robert Carsen al Teatro alla Scala. Claustrofobico. Allucinato. Inquieto e inquietante. Folle di una lucida e quasi metodica follia, come (quasi) tutti i Peter Grimes. Di legno e di vento. Di acqua e di terra, il Peter Grimes di Robert Carsen al Teatro alla Scala. Di legno e di vento. Di acqua e di terra, come (quasi) tutti i Peter Grimes. Il Peter Grimes di Benjamin Britten tornato al Piermarini a undici anni dall’ultimo (folgorante e bellissimo) allestimento, allora (era il maggio 2012) firmato da Richard Jones che trasportava le vicende del pescatore accusato di torture e omicidio nei confronti dei suoi giovani apprendisti (e dietro, lo sappiamo, l’ombra delle molestie) dal 1830 del libretto di Montagu Slater agli anni Ottanta dell’Inghilterra proletaria e scioperante delle miniere e di Margareth Tatcher – quella raccontata al cinema da Ken Loach, ma anche da Full Monty e Billy Elliot.
Taglio cinematografico anche per Carsen che per la sua nuova (e tredicesima) regia alla Scala sceglie però atmosfere più noir, cupe, restituendo il racconto di Britten come una serie tv di quelle di tante piattaforme on demand, atmosfere raffinate e sospese, colori lividi, recitazione perfetta, “inquadrature” sempre appropriate. Grande mestiere, non una cosa fuori posto, colpi di teatro al momento giusto e al posto giusto. Un giallo psicologico (dentro c’è anche un po´ della lezione di Alfred Hitchcock), claustrofobico, allucinato, inquieto e inquietante, folle di una lucida e quasi metodica follia questo Peter Grimes che scorre come un flusso continuo di pensieri, un lungo monologo interiore alla Joyce affidato a Peter Grimes, in un continuo dentro e fuori dalla mente del protagonista (come in tante serie tv, appunto).
Un lungo monologo interiore che si apre in un tribunale, improvvisato e popolare, dove Peter è a processo davanti agli abitanti del suo borgo di pescatori per la morte in circostanze misteriose del suo mozzo (sarà assolto per mancanza di prove). Un flusso ininterrotto di pensieri (e peccato per i due intervalli che spezzano e non poco il flusso musicale e la tensione narrativa di un’opera che ha un unico grande respiro) un flusso ininterrotto di pensieri che si chiude nello stesso luogo: identica la scena con Grimes che giura sulla Bibbia, il popolo pronto a giudicarlo. Un luogo dal quale non ci siamo mai mossi, perché tutto si è svolto tra quelle quattro pareti di legno e intonaco (la quarta, convenzione teatrale, naturalmente non c’è), pareti diventate di volta in volta spiaggia, locanda, piazza, capanna… e il banco degli imputati dietro il quale siede Grimes alla fine (bella intuizione, forse anche metafora della giustizia, una barca in balia delle onde) diventa la barca che il pescatore affonda. Oppure no…non affonda, ma ha solo immaginato di farlo… perché tutto è accaduto nella testa di Grimes che, in quel brevissimo istante tra il «giuri di dire tutta la verità…» e il «lo giuro!», ha immaginato il futuro, o forse ha ripercorso le vicende che lo hanno portato sul banco degli imputati. E potrebbe essere benissimo, perché la storia si ripete uguale, con un nuovo mozzo che scompare, muore e Peter che viene caricato della colpa, perenne e ciclico passato che ritorna. Nella storia di Peter Grimes, ma anche in tante, drammatiche e quotidiane storie di violenza.
Intuizione, segno forte che Carsen mette nella sua lettura del capolavoro di Britten. Unica intuizione, però, unico segno forte di uno spettacolo (attesissimo) che per il resto è fatto di grande e sapiente mestiere, il mestiere del teatro. Intendiamoci, bello, affascinante, avvincente, capace di catturare la tua attenzione (soprattutto nel terzo atto, sicuramente il più riuscito), capace di prenderti nel vortice della narrazione senza più mollarti, come tante serie tv che ti incollano allo schermo per notti sino a che non si esauriscono le puntate e le stagioni. Nulla di più, però. Nessun affondo “alla Carsen” in una lettura claustrofobica, allucinata, inquieta e inquietante come (quasi) tutte le letture di Peter Grimes – la drammaturgia la firma, naturalmente (trattandosi di uno spettacolo di Carsen), Ian Burton. Un Peter Grimes come (quasi) tutti i Peter Grimes di legno e di vento, di acqua e di terra nelle scenografie (luterane e avvolte dai video minimalisti e in bianco e nero di Will Duke, illuminate, poco in realtà, dalle luci di Peter van Preaet e dello stesso regista canadese) e nei costumi (campagna inglese tra country e punk) di Gideon Davey.
Raffinatissimo da vedere. Recitato con una intensità cinematografica da tutti, coro compreso. Perfetto nella sua costruzione… nel restituire la lucida follia di Peter. Ma freddo, tremendamente freddo, fastidiosamente freddo. Nel non “passare” la quarta parete, nel restare confinato sul palco anche quando un fuoco (il rogo che gli abitanti del borgo nella loro follia accendono per Peter Grimes) scalda la scena, anche quando tutti cercano Peter Grimes con torce che gettano la loro luce tra platea e palchi. Freddo, come un esperimento scientifico, come un elettroencefalogramma, come l’indagine di un medico legale che mappa il cervello (folle di una lucida follia) di Peter Grimes.
Avvolta, quasi riscaldata, questa freddezza, dalla musica di Benjamin Britten che Simone Young restituisce in tutta la sua bellezza e in tutta la sua forza narrativa dirompente – ogni opera del compositore britannico ha questa forza, una forza narrativa (di una musica che arriva sempre senza mai essere ruffiana) che è anche capacità evocativa di temi e nodi che hanno attraversato, scuotendolo, il Novecento. La direttrice australiana (doveva debuttare alla Scala con questo Peter Grimes, ma la sostituzione in corsa di Zubin Mehta per la Turangalila di Messiaen ha anticipato di qualche giorno questa “prima”) sbalza ogni piega della partitura dentro la quale scava a fondo per restituirla in tutta la sua complessità, vocale e sinfonica (bellissimi gli intermezzi che qui diventano parte dell’azione, cambi a vista che trasformano ogni volta l’aula del tribunale spostando solo panche, sedie, tavoli e il banco degli imputati – che alla fine sarà, appunto, la barca di Peter Grimes). Il Britten di Simone Young è avvolgente, energico, ma anche disperatamente malinconico. Intriso di inquietudine, ma anche capace, in quel raggio di sole che avverti nella musica del finale, di illuminare di speranza una storia tragica.
Che è sì la storia di un uomo violento, sul quale si allaga l’ombra delle molestie, ma è anche la storia di una società che giudica, incapace di comprendere, spaventata dalla diversità che è da mettere al bando, da confinare alla periferie del mondo, in campi profughi, in frontiere che non si aprono mai, in perenni astanterie della vita. E anche chi prova a comprendere, a farsi carico di questa diversità con uno scatto di umanità è da allontanare – Ellen Orford, la maestra, la vedova che vuole salvare Peter ed è messa al margine dal borgo, perennemente isolata nel suo soprabito marrone (il colore della terra che vuole portare frutto) mentre gli altri (che brutti personaggi, come Mrs. Sedley) sono vestiti di nero e blu e grigio, i colori della notte, del sospetto, della paura. Tipi umani ben dipinti da Britten nella loro deformità di animo che dal podio (orchestra della Scala trascinata e trascinante, in ottima forma, coro sempre ben presente) Simone Young sbalza alla perfezione, connotandola di miseria, ma avvolgendola anche di pietà.
Quella che Ellen ha per Peter Grimes, al quale offre la sua voce sempre bella e timbrata (ma spesso in difficoltà quando deve salire in alto – cosa che Britten chiede assai spesso) Brandon Jovanovich, intenso, convincente nella sua totale identificazione con la lucida e quasi metodica follia del pescatore violento. Come intenso è Tommaso Axel Versari, capace di incarnare, senza dire una parola, ma solo con la postura del corpo, tutto il dolore, la rabbia, la rassegnazione del mozzo di Peter, strappato alle violenze dell’orfanotrofio e consegnato, quasi vittima sacrificale, alla ruvidità (che è quella della vita) di Grimes. Ellen ha la passione, ma anche il disincantato distacco (come se provasse a guardare il tutto dall’esterno) di Nicole Car, musicalissima, sempre a suo agio nella scrittura vocale di Britten, incisiva, trascinante, combattiva. Fino alla fine.
Il resto (cast di ottimo livello) è l’umanità varia raccontata in musica da Britten. Il Capitano Balstrode di Ólafur Sigurdarson, coscienza civile come lo Swallow di Peter Rose, figure inquiete, quasi fantasmi che Grimes vorrebbe cacciare dalla mente. La pettegola (bruttissimo personaggio nella sua ricercata e detestata solitudine) Mrs. Sedley resa sghemba da Natascha Petrinsky, il reverendo, avvinazzato, Horace Adams (non ci fa una bella figura) di Benjamin Hulett, il farmacista (maneggione) Nel Keene di un efficace Leigh Melrose e poi la Auntie punk di Margaret Plummer, perfettamente in parte come le due Nipoti di Katrina Galka e Tiene Van Ingelgem.
Nessuno si è mai mosso dal tribunale, improvvisato e popolare, del Municipio. Sempre lì, tra le quattro pareti di legno e intonaco. Claustrofobiche. Ma in quel brevissimo istante tra il «giuri di dire tutta la verità…» e il «lo giuro!» sono diventati pensieri, personaggi evocati dal lungo monologo interiore, intriso di lucida follia di Peter Grimes. Fantasmi. Che sono apparsi anche a noi. E che, però, non ci hanno aiutato a sciogliere il dubbio: colpevole o innocente?
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Peter Grimes