L’opera di Strauss inaugura la stagione dell’Oper Köln Dirige Marc Albrecht, regia toccante di Katharina Thoma Ottimo cast con Glueckert, Köhler, Shanahan e Lindstrom
Abitano in una discarica Barak e sua moglie. Una discarica di vestiti, alla periferia di una grande città. Potrebbe essere una favela, uno slum, una baraccopoli ai margini di una delle nostre metropoli fatte di grattacieli e frenesia. In lontananza le luci, i suoni, echi lontani, ma assordanti di colori e rumori. Che non scalfiscono per nulla lui, il Färber, il tintore. Che ogni giorno affonda le mani in quei vestiti – vestiti dentro i quali ci sono state (e ci saranno) tante vite – sparsi sulla collina sulla quale vive, astratta, fatta di strati bianchi sovrapposti, quasi fossero usciti da una stampante 3d. In lontananza le luci e i suoni della città che non incuriosiscono Barak, perché lui, il tintore, ha ben presente le priorità della (sua) vita – lo dice quel tozzo di pane spezzato, dato insieme a una bottiglietta d’acqua a due bambini che non hanno nulla… un colpo al cuore, vero, autentico, che racconta la profonda umanità di Barak, un’umanità concreta, come il pane che è il primo frutto della terra, incarnata nella quotidianità… corpo che si spezza per gli altri. Nulla lo scalfisce. Non le luci, non i suoni che, forse, attirano lei, la moglie di Barak, identificata con il femminile della professione del marito, lei è la Färberin, la tintora con il suo sguardo che va sempre lontano, verso un altrove ignoto. Non ha un nome questa donna, è la Färberin e questo basta per conoscerne l’anima, perché, forse, è anche – come quelle di tutti gli altri – la nostra anima… anima di gente che affonda continuamente le mani in frammenti di vita da ricondurre ad unità.
Non ha un nome la Färberin. Come nessuno ha un nome nella Frau ohne Schatten di Richard Strauss – anche se quella lettera maiuscola, come vuole la lingua tedesca per ogni sostantivo, rende questi nomi comuni quasi nomi propri, di persone concrete. Tipi umani, come se ne possono trovare tanti, ma anche persone di carne e sangue il Kaiser e la Kaiserin (che sono l’Imperatore e l’Imperatrice, reali di un regno nelle Isole Sudorientali, ma fatti di una regalità che dice altro… oltre la fiaba), la Amme, la Nutrice (e lei nutre… anche se quello che offre come cibo dell’anima sono odio, sospetto, avidità). E il Geisterbote (un Messaggero, come i tanti messaggeri della tragedia greca che attraverso il mito scava, come la Frau, alle origini della nostra civiltà e della nostra umanità), l’Einäugige, l’Einarmige e il Bucklige, l’Uomo con un occhio solo, l’Uomo con un braccio solo e l’Uomo gobbo (i fratelli di Barak, identificati con la loro deformità, che non è solo fisica… chiave potente per conoscere l’uomo). E poi le Stimmen, le Voci, quelle dei bambini mai nati, quelle dei guardiani della città che ti cullano. Nessuno ha un nome proprio. Nessuno tranne Barak – e sicuramente non è un caso, perché il libretto di una delle opere più belle di Strauss (e forse di tutta la storia della musica) ha la profondità intellettuale e letteraria di Hugo von Hofmannsthal.
Barak – bellissimo personaggio, lo vorresti abbracciare, dirgli grazie per quello che con un solo gesto sa insegnarti… – tuta da lavoro, un gilet con tante tasche, birkenstock ai piedi, bandana in testa, Barak che abita con la moglie in una discarica, alla periferia di una grande città. Una periferia del mondo (e dell’anima) dove Katharina Thoma cala la sua Frau – o FrOSch, come in Germania, con un acronimo, chiamano confidenzialmente la partitura di Strauss – Frau ohne Schatten che con un bel successo ha inaugurato la nuova stagione dell’Oper Köln. Oper Köln che è in trasferta, in attesa che il prossimo anno riapra la sede storica di Offenbachplatz, negli spazi fieristici dello Staatenhaus. Spazi che stimolano la creatività e “costringono” a trovare nuovi modi per fare opera – da custodire preziosamente anche quando si tornerà nella classica collocazione di palco e platea. Qui le barriere tra pubblico e palcoscenico cadono, l’azione accade accanto a chi ascolta, a un passo dalla prima fila, ma anche sulle gradinate. L’orchestra (enorme, con la celesta e la glassarmonica di Philipp Marguerre, Torsten Janicke violino solista e Ulrike Schäfer al violoncello, ma anche tube wagneriane, campane, gong…) non è in buca, ma (in questo caso) a lato della scena.
Bellissima Frau musicalmente, grazie alla direzione serrata e rivelatrice di Marc Albrecht, direttore che conosce a fondo una partitura che ha diretto in tutto il mondo e che restituisce in tutta la sua immediata bellezza, dispiegandola come un foglio che si srotola e avvince sempre più, che ti prende e non ti lascia sino all’intenso, commovente (e non puoi non farti scappare una lacrima) finale. Albrecht, alla guida della Gürzenich-Orchester Köln, entra in punta di piedi nel racconto musicale per poi affondare le mani sempre più nel magma sonoro di Strauss che il direttore tedesco governa sempre a meraviglia, tenendo insieme respiro sinfonico e cantabilità della partitura. La sua Frau ha un passo teatrale serrato e una chiarezza rivelatrice della bellezza della scrittura straussiana.
Bellissima Frau musicalmente grazie a un cast eccellente, AJ Gluckert, Daniela Köhler, Irmgard Vilsmaier, Jordan Shanahan, Lise Lindstrom i primi nomi in locandina, solo per fermarsi ai ruoli principali – ma gli interpreti in locandina sono tutti perfetti nel restituire una scrittura impervia come quella di Strauss e della Frau, che mette a dura prova le voci, tanto che sono rare le occasioni di vedere in scena l’opera ispirata a Goethe e al suo Faust, ma anche alle Mille e una notte e alle fiabe dei fratelli Grimm. Voce di velluto, morbidissima e avvolgente, quella di AJ Gluckert che è un Kaiser tutto ripiegato su se stesso, toccante negli accenti e nella partecipazione con la quale il tenore (che debutta nel ruolo) disegna il ritratto di un uomo un tempo felice, ma che ora vede avvicinarsi inesorabile la fine. Daniela Köhler è la Kaiserin (personaggio che il soprano tedesco affronta per la prima volta) fragile e indifesa dapprima, poi donna cosciente, matura, risoluta, grazie ad un canto sempre musicalissimo, scolpito nella parola, capace di restituire la vita. Cosa che fa anche il baritono hawaiano Jordan Shanahan (anche lui al debutto nel ruolo) restituendo con la sua voce bella e sempre usata con intelligenza musicale un Barak umanissimo, toccante, vero. Lise Lindstrom ha una presenza scenica magnetica, ha uno sguardo che va sempre oltre, lontano e disegna una Färberin inquieta e dolente, con una voce che arriva dritta al cuore, tagliente come una lama, ma anche delicata come una carezza in mezzo a tanto dolore. Irmgard Vilsmaier è ancora una volta la Amme, personaggio che il mezzosoprano bavarese domina con un canto sicuro e una voce che, seppur con i segni del tempo (e del tanto cantare un certo repertorio), comunque affascina.
Partitura imponente la Frau (alla fine si esce dallo Staatenhaus dopo quattro ore e mezza) che, insieme al coro dell’Oper Köln di Rustam Samedov e alle voci bianche dei Kölner Dommusik, vede impegnati molti solisti della ensemble del teatro lirico tedesco, a partire da Giulia Montanari che con la sua voce di cristallo è il Falke, ma anche il Guardiano della soglia e una delle tre serve (le altre due sono Tinka Pypker e Ruth Häde dell’Opernstudio). Il messaggero, che apre e chiude l’opera, è Karl-Heinz Lehner, i tre fratelli di Barak cono Insik Choi (bellissima voce di baritono, da custodire e coltivare, è l’Einäugige, l’Uomo con un occhio solo), Christoph Seidl (l’Einarmige, l’Uomo con un braccio solo) e Ralf Rachbauer (il Bucklige, l’Uomo gobbo che muore nel terremoto e resta in scena durante tutto il secondo intervallo fino a che i soccorritori, all’inizio del terzo, lo portano via in un sacco nero). Bryan Lopez Gonzalez ha il physique du rôle adatto per l’apparizione di un giovane, Jing Yang la musicalità per rendere concreta (anche lei è un soccorritore dopo il terremoto) la Voce dall’alto. Puntali in un commovente canto all’unisono i tre Guardiani notturni, Sinhu Kim, Yongmin Kwon e Michael Terada.
Intensa, toccante e commovente Frau nello spettacolo, a metà tra il realismo e il simbolismo, concreto e visionario allo stesso tempo, della Thoma. Che ci porta in una periferia del mondo, che è poi una periferia dell’anima, appunto, tirandoci dentro nei cerchi concentrici di quello che sembra un girone dantesco (inferno, purgatorio o paradiso… la Frau ha cittadinanza in ciascuno dei tre regni per quello che racconta, peccato e redenzione), un girone dantesco che si materializza nella scenografia di Johannes Leiacker, una montagna (come quelle disegnate sulle copertine di tante edizioni della Divina Commedia che abbiamo avuto sui banchi di scuola) fatta di strati, bianca, sinuosa, che avvolge con le sue spire, ma allo stesso tempo difficile da percorrere in su e in giù negli alti gradoni. Con alla sommità una pietra, dura, spigolosa.
«Die Frau wirft keinen Schatten, der Kaiser muß versteinen» canta lamentoso il Falke, «La donna non getta ombra, l’Imperatore deve trasformarsi in pietra». Terribile maledizione che incombe – e le maledizioni delle fiabe, a volte, sono più vere e più temibili di quelle della realtà. Perché quell’ombra che la Kaiserin non può gettare – perché «Durch ihren Leib wandelt das Licht, als wäre sie gläsern», «la luce passa attraverso il suo corpo, come se fosse di vetro» poesia altissima di Hofmannsthal – è la proiezione di sé (ombra, appunto, che si allunga sulla terra) nel futuro. Di sé e del Kaiser. È la maternità, lo sappiamo. Che la donna non può vivere. E che condanna il Kaiser ad essere pietra sulla quale non cresce l’erba. Ramo secco dal quale non fiorirà nulla. Ed eccola un’altra ombra che si avanza, si allunga sul racconto – un’ombra vecchia come il mondo, come si dice. Perché l’ombra che non ha, dice (e mette in atto) infida la Amme, la Kaiserin potrebbe comprarla da un’altra donna. Povera. Pronta a farsi sedurre da soldi e amanti come dalle luci e dai suoni della città. Ed ecco che fiaba e realtà si confondono. Si contaminano. In un tempo, il nostro, in cui, per vivere come in una fiaba dove «e vissero tutti felici e contenti…», si ricorre a pratiche che mettono un brivido lungo la schiena… manipolare la vita, affittarla, “surrogarla” è qualcosa che si vorrebbe far passare per “normale”, naturale, regolamentarlo per legge, dopo aver spostato il confine sempre più in là.
Così la vita, in questo inizio potente della Frau dell’Oper Köln, entra da subito a “sporcare” quel mondo bianco, immacolato dove vive la Kaiserin catturata dal Kaiser in una battuta di caccia, quando lei aveva preso la forma di una gazzella. Ma quel tempo è finito, perché lei ha perso il talismano che le dava questo potere. La favola è finita e tutto si sporca di vita. Così su quel talismano, che il Falke le riconsegna, c’è incisa una maledizione: entro tre giorni dovrà trovare il modo di gettare un’ombra, altrimenti «Der Kaiser muß versteinen»… Ed ecco la vita che irrompe. A contaminare. A corrompere. Così quell’universo di cristallo e neve si trasforma in una favela, in uno slum, in una periferia… basta uno stacco musicale (uno di quelli che Strauss mette nella sua musica per “raccontare” il cambio scena, la discesa agli inferi della Amme e della Kaiserin) e un popolo di ultimi entra in scena (bellissima e potente trovata della Thoma), sparge ovunque vestiti – sporchi e polverosi te li immagini, impregnati di fango e sudore. Ed eccolo lì il mondo di Barak, del tintore che ha cura di quei vestiti, che li raccoglie per darli a chi non ne ha. Eccolo lì sulla stessa collina sulla quale ci era apparsa quasi come una bambina (tanto simile alla bambola che la tiene legata alla sua fanciullezza) la Kaiserin, eccolo lì il mondo di Barak, un cumulo di vestiti, rifugio per gli ultimi. Quella collina dove non c’è più la fiaba, ma c’è la vita. C’è la corruzione, nera come il costume della Amme, una sorta di maschera tragica alla Magritte con bombetta e bastone (qui è una stampella, indispensabile in seguito ad un piccolo infortunio di Irmgard Vilsmaier, ma diventata potente chiave di lettura drammaturgica del personaggio), che cerca l’ombra, da strappare a un’altra donna. Cerca la maternità che anche la Färberin sogna – quella tutina da bimbo che trova tra i vestiti, che guarda, che culla ha dentro una forza visiva potentissima. Racconta uno scarto enorme.
Racconta, come in uno specchio tragico e potente del nostro presente, tanto di noi. Una narrazione che Katharina Thoma tiene continuamente in bilico tra realismo e simbolismo, ben assecondando la doppia natura della partitura di Strauss – ci sono uomini in carne ed ossa e ci sono creature fantastiche, personaggi che potrebbero popolare sogni (o incubi) ad occhi aperti, vestiti da Irina Bartels. La regista tedesca lavora per sottrazione, per simboli (i video di Georg Lendorff e le luci di Nicol Hungesberg immergono tutto in un’atmosfera onirica e rarefatta), non ti squaderna tematiche e problematiche sul tavolo, piuttosto accenna, suggerisce, fa intuire… e invita a pensare. E così, senza vedere sul palco un mondo che è lo stesso nostro (non è necessario quando musica e parole hanno la forza di quelle di Strauss e Hofmannsthal), ma è filtrato dalla lente della musica che distanzia e deforma, ma anche amplifica e chiarifica, così pensi al grande tema della maternità. Quella desiderata e quella compiuta, quella cercata e quella negata, quella voluta e quella impossibile… e quella, come si dice oggi, surrogata, gestazione per altri nella fredda definizione che racconta uno strappo, quello dell’utero in affitto (mercato del corpo e dell’anima) che, forse, è vecchio come il mondo…
È tutto qui il racconto della Frau, un racconto che non ha tempo. Ed è dunque attualissimo e dirompente. Peccato e redenzione. Desiderio e frustrazione. Resistenza e resa. Racconto immerso dalla Thoma in un girone infernale dantesco. L’inferno della Färberin che indurisce il suo cuore, cede alle seduzioni (denaro, abiti e gioielli e un giovane amante) della Amme, allontana Barak e vende la sua ombra… L’inferno di Barak, che non trova il suo posto in un mondo di corrotti… L’inferno del Kaiser, condannato ad essere ramo secco, da tagliare, a trasformarsi in pietra… L’inferno della Kaiserin prima convinta a cercare a ogni costo l’ombra, ma poi, di fronte alla sofferenza che il suo gesto avrebbe provocato, capace di rinunciare… Ed ecco il terremoto, che ribalta tutto, che trasforma la discesa agli inferi, in un’ascesa al cielo. La Kaiserin dice no e quel no le “regala” l’ombra. Potenza della lirica, dove succedono cose che nella vita mai potrebbero accadere. Ma la Thoma va oltre la fiaba. Ci racconta un’altra maternità. Perché alla fine della sua Frau, forse, né la Kaiserin né la Färberin saranno madri. La loro ombra, la loro generatività diventa qualcosa di più grande e universale, un prendersi cura dell’altro. Così, insieme, si prenderanno cura dei bambini della favela, dello slum, della periferia, orfani (forse a causa del terremoto), allungheranno su loro l’ombra. E insegneranno a questi ragazzi (ed ecco che il mettere in scena i bambini non è mai fine a se stesso, non è mai qualcosa di ruffiano per la Thoma) a prendersi cura dell’altro e non solo dell’altro, ma diremmo del pianeta che ci è affidato, del creato… quella pianta che la Thoma mette al centro dell’immagine finale e che un bimbo annaffia è eloquentissima. E così la Kaiserin e la Färberin forse oltre all’ombra avranno anche un nome, un nome proprio, quello che Barak (il Barak del pane spezzato e dei vestiti donati gratuitamente) ha sempre avuto. E il loro nome, il nome proprio della Kaiserin e della Färberin, potrebbe essere il nostro nome.
Nelle foto @Matthias Jung Die Frau ohne Schatten all’Oper Köln