La vita abortita nel Macbeth di Warilikowski

Al Festival di Salisburgo l’opera di Verdi diretta da Jordan con la Lady di Asmik Grigorian e Vladislav Sulimsky Spettacolo di forte impatto firmato dal regista polacco

Sembrerebbe la sala d’attesa di una stazione ferroviaria. Una lunga panchina in legno, di quelle bombate che trovi ancora in qualche linea secondaria delle ferrovie italiane. Anni Cinquanta, diresti dai costumi della donna seduta all’estrema destra. Tailleur viola, manicotto e cappello di pelliccia. Poi, sulle note del preludio, scopri che la Lady, perché è Lady Macbeth quella donna elegante, sta aspettando non ina stazione, ma fuori da una clinica ginecologica. Per abortire. Il colloquio con il medico. L’intervento, dietro un paravento, mentre il marito, Macbeth in doppiopetto, seduto dalla parte opposta (ma siamo in un altro posto, in un altro mondo) incontra le streghe. Che streghe, poi, non sono, ma donne (forse morte), relitti di un’umanità deportata che tengono per mano o sulle ginocchia bambine dal volto già segnato dalle rughe. Mai nate, abortite. Oppure uccise dalla violenza cieca del potere.

Visione. Pugno nello stomaco che il regista polacco Krzystof Warilikowski, Leone d’oro alla carriera della Biennale teatro di Venezia 2021, mette all’inizio del suo Macbeth. Il Macbeth di Giuseppe Verdi, diretto sul podio dei Wiener da Philippe Jordan, titolo inaugurale (se non da calendario, preceduto da Le nozze di Figaro, sicuramente nelle attese e nella mondanità della prima, trasmessa da Orf 2, tv pubblica austriaca, e da Arte, dove è ancora visibile) dell’edizione 2023 del Festival di Salisburgo. Visionario, ma anche concreto, sospeso tra artigianato e tecnologia, tra teatro di ricerca e cinema (in scena sempre uno schermo che rimanda immagin i in bianco e nero, pellicole del passato di Macbeth e live di telecamere sparse sul palco) il Macbeth di Salisburgo. Riuscito? Non completamente, forse. In perfetto stile Warilikowski. Che per raccontare il dramma messo in musica da Verdi ispirandosi a Shakespeare si “inventa” una storia parallela. Storia di un’ossessione – che certo c’è anche in Verdi e in Shakespeare, quella del male. Ma che qui diventa l’ossessione di una vita “abortita”. E non è solo la vita soppressa nel suo grembo dalla Lady. Ma è la sua stessa vita.

Perché Warilikowski ci racconta la scelta della donna proprio mentre le streghe profetizzano a Macbeth un futuro da re. Che avrà, certo, ma senza poi poter passare la corona alla sua discendenza. Abortita sul nascere. E dunque la “macchia” della Lady – che saluta con la mano come la regina Elisabetta, una volta seduta sul trono, incoronazione che avviene nel giro di una manciata di minuti, il tempo del finale del primo atto, subito dopo il funerale di Duncano, tutto mostrato da Warilikowski nella sua narrazione – e dunque la “macchia” della Lady è quel delitto, non solo quello del re Duncano, di Banco, della moglie e dei figli di Macduff – la lunga scia di sangue per arrivare al potere.

Così il male che si accumula a male è una disperata corsa per dimenticare, per lavare via quella macchia. Inutilmente. Perché il delitto è sempre lì davanti agli occhi della coppia criminale: bambole, giochi, frammenti di infanzia che compaiono ovunque (persino sulla tavola nei piatti di portata), bambini che si moltiplicano e hanno tutti il volto di Banco o i capelli biondi di Lady Macduff che, in una sorta di rito tragico (da fine del Terzo Reich) avvelena tutti i suoi figli, costretta dalla Lady. C’è la psicanalisi nel Macbeth di Warilikowski, perché il re mentre la Lady canta la sua inquietante La luce langue  è in poltrona di fronte a uno schermo tv sul quale campeggia chiara la scritta Edipo Re.

Una drammaturgia che spiazza (se non consci alla perfezione l’opera) perché i personaggi sono in scena anche quando il libretto non lo prevede. Osservano ciò che fanno gli altri. Interagiscono anche quando la musica non lo racconta. Così Macbeth assiste al tentato suicido della moglie e lei ascolta l’addio al mondo di lui mentre viene rianimata… Una drammaturgia che, comunque, offre anche nuovi spunti di riflessione – la Lady, appunto, si taglia le vene, ma viene salvata e (sulle note coro finale) per lei e il marito (anche lui non muore dopo aver cantato il Mal per me della versione di Firenze del 1847 mentre sul leggio di Jordan c’è la revisione, falcidiata dai tagli, del 1865) intuisci che si apre un lungo processo. Una nuova Norimberga – e i coristi hanno fasce sulle braccia, stelle distintive attaccate alle giacche, che mettono un certo brivido – dopo che tutto lo spettacolo è stato “visto” dal coro, sempre sul fondo, su gradinate un po’ da teatro moderno, un po’ da tribunale. Tutto (quello che accade in scena, ma anche fuori scena) ripreso dalle telecamere, così da farci vedere anche quello che (volutamente) la scenografia di Małgorzata Szczęśniak (che disegna anche i costumi) nasconde, quello che avviene nel lungo e stretto e basso corridoio che corre a metà della parte di fondo, quello che succede oltre il paravento (l’aborto, l’assassinio di Duncano)… Si strizza l’occhio al cinema, alle pellicole in cinemascope, sfruttando l’ampiezza del palco della Grosses Festspielhaus.

Dove quello che si vede assomiglia tanto a una recita, a un gioco delle parti, a una rappresentazione. Una rappresentazione, una recita, come quella del potere. Che finisce sotto processo. E la sentenza sarà inesorabile. Lo vedi negli occhi terrorizzati di Asmik Grigorian, attrice di un’intensità unica, soprano che debutta nei panni della Lady (e lo disegna con quel distacco ai limiti del menefreghismo che la cantante mette sempre nei suoi personaggi) venendo a capo senza problemi della parte. Cosa che non riesce al Macbeth di Vladislav Sulimsky, in più punti in difficoltà con la tessitura vocale. Lasciano il segno (ma le parti sono di quelle facili e che con poco garantiscono l’applauso) il Banco di Tareq Nazmi e il Macduff di Jonathan Tetelman (nel cast anche la Dama dell’italiana Caterina Piva).

Tanti, troppi tagli (il da capo della cabaletta della Lady, i Ballabili, il coro Ondine, silfidi…) nella partitura ben governata da Jordan che restituisce un Verdi asciutto, essenziale. Incalzante. Come il noir cucito sul testo da Warilikowski. Regia che in Italia sarebbe stata sonoramente bocciata (anche preventivamente dalla politica), ma che a Salisburgo ha raccolto applausi convinti. Come direttore e interpreti.

Nelle foto @Salzburger Festspiel Bernd Uhlig Macbeth