L’opera di Richard Strauss ispirata alla tragedia di Sofocle diretta da Lukas Beikircher con la regia di Reitmeier Grandi protagoniste Asszonyi, Denoke e Hinterdobler
Se non bastasse la musica di Richard Strauss che, come si dice, è un pugno nello stomaco di quelli che fanno male, con quei due accordi che sono come una ghigliottina tagliente, un sipario che si chiude veloce, un andare al nero improvvisamente per dire che dopo tanto male (gli urli della musica, tutta fatta di acuti e di frasi orchestrali spinte all’insù) non c’è (forse non c’è, perché c’è sempre un forse… anche nello Strauss più nero di Salome o Elektra) forse non c’è speranza… Se non bastasse la musica di Richard Strauss a darti una bella spettinata dopo un’ora e quarantacinque minuti di follia – perché questo è Elektra, follia, seppur lucida e allucinata, ma pur sempre follia di un mondo fuori asse – ci si mette Johannes Reitmeier, regista che saluta con questo spettacolo (e dunque con questo colpo di scena finale) il Tiroler Landestheater di Innsbruck, che ha guidato per undici anni come Intendant. Reitmeier ci mette del suo e aggiunge dolore e sconcerto a quello già distillato in musica da Strauss, perché Reitmeier vuole la sua Elektra suicida, cosciente (anche qui, però, ci sta un “forse”…) nell’andare incontro alla morte perché incapace di sostenere tanto dolore… oppure perché soddisfatta della vendetta ottenuta – il fratello Orest ha ucciso la madre Klytämnestra e l’amante di lei Aegisth, colpevoli dell’uccisione di Agamemnon (nomi detti nel tedesco del librettista Hugo von Hofmannsthal) – e dunque incapace di desiderare altro, se non la fine della vita. Perché, appunto, non vive nella speranza.
La musica di Strauss urla. Elektra canta e danza. Canta che «ho seminato tenebre e raccolgo gioia su gioia. Ero un nero cadavere tra i vivi e in quest’ora io sono il fuoco della vita, la mia fiamma accende le tenebre del mondo». Eppure cerca la morte. Cerca il buio. Danza la sua lucida follia e, come un’invasata, si lancia sul coltello ancora insanguinato che Orest tiene tra le mani. Lo fa volontariamente, lucida nel suo cercare il bacio della morte? Lo fa accidentalmente, stordita dagli urli lancinanti della madre e di Aegisth (bestie squartate, agnelli condotti al macello…) arrivati dall’interno del palazzo e inebriata dal sapore del sangue? Reitmeier ci lascia con il dubbio. E noi di fronte ad Elektra che crolla a terra abbiamo lo stesso sguardo perso di Orest. Certo, il suo è lo sguardo di chi ormai ha la mente altrove perché costretto ad essere, suo malgrado, il vendicatore. Tanto che Chrysothemis lo scuote gridando il suo nome, «Orest! Orest!», buttato in faccia al fratello e non detto (nel finale ri-pensato da Reitmeier) battendo alla porta dietro la quale si è compiuta la mattanza – come vorrebbe il libretto. Il regista bavarese ci lascia con il dubbio alla fine di una Elektra psicologica, tutta cesellata, fatta di dettagli quasi mettesse una telecamera davanti al volto dei protagonisti – e la dimensione raccolta della sala del Tiroler Landestheater di Innsbruck si presta benissimo a questo, offrendoti la possibilità di non perdere nemmeno uno sguardo.
Un’Elektra psicologica. Dal taglio cinematografico. Moderna, ma in un impianto tutto sommato tradizionale. Perché Reitmeier, pur in un’ambientazione che ti catapulta in pieni anni Novanta – la foggia degli abiti, l’architettura del palazzo che è una piscina, un mattatoio, un locale di servizio tutto piastrellato, archeologia industriale di un recente (negli anni Novanta) passato – restituisce il racconto fedele alla tragedia (Hofmannsthal si ispira a Sofocle, toglie i cori, ma restituisce intatti gli episodi) nella narrazione e nell’impianto visivo. Perché la scena di Thomas Dörfler evoca la skené del teatro greco con la grande porta centrale (quella del palazzo di Micene), vista, però, di taglio, fuori asse nella prospettiva, ma anche nelle altezze con pieni e vuoti di volume. Una piscina dismessa, tutta piastrellata, architettura industriale anni Sessanta. Una piscina trasformata in mattatoio (anche Luca Ronconi nella sua Elektra scaligera ebbe la stessa intuizione) dove le ancelle (indosso un grembiule verde, e in testa una cuffia verde, da sala operatoria) svuotano secchi di sangue di riti/omicidi/sacrifici che si compiono nel palazzo. Li compie Klytämnestra che entra in scena con un coltello insanguinato – sappiamo che ha ucciso il marito, ma così il regista lo sottolinea più e più volte, ben chiaro. Sangue anche sul grembiule che protegge un vestito di lustrini e paillettes (i costumi li firma Michael D. Zimmermann). Viola. Inconfondibilmente il colore del lutto. Lo stesso colore che indossano tutti. Lo indossa Chrysothemis, lo indossa Orest. Lo indossa Elektra che ha fatto di quel luogo fuori dal tempo un memoriale, perché in una delle docce che circondano la vasca ha costruito un altare per fare memoria del padre, tra fiori secchi e lumini che vanno a pila e una foto in bianco e nero messa in una cornice. In una borsa nasconde un’ascia, quella che ha messo da parte per il giorno della vendetta.
Arriva la vendetta. Ma forse non ha il sapore che Elektra si aspettava. Perché annienta tutti. Non solo le vittime, non solo Klytämnestra e Aegisth, ma anche Orest che Reitmeier disegna come un inetto, un perenne indeciso, burattino nelle mani del precettore che gli alza il braccio quando deve uccidere, su una tribuna che affaccia sulla piscina/mattatoio, Aegisth (e immaginiamo che lo faccia anche nel palazzo, quando uccide Klytämnestra). Incapace di tirare indietro il braccio quando Elektra si avventa sulla lama. Annienta Chrysothemis che sognava una famiglia invece si ritrova unica testimone lucida di una follia collettiva. Una sorta di Orazio shakesperiano alla quale Elektra/Amleto – anche Elektra finge (?!) una follia per dire la verità, una pazzia per vendicare l’uccisione del padre – affida il compito di raccontare la sua storia. Chrysothemis lo fa. Narratore di questa tragedia, sguardo esterno dei fatti, coscienza critica di un mondo che ha perso il senso. Cosa che riesce benissimo, quella di narrare a noi spettatori le vicende, a Magdalena Hinterdobler, grandissima Chrysothemis, trascinante nel suo canto appassionato, musicalissima nel restituire perfettamente la scrittura (tutta all’insù) di Strauss, disegnando un personaggio dai contorni netti, ma senza mai andare oltre. Acuti limpidi, fraseggio intelligentemente sulla parola, colori avvolgenti quelli che Magdalena Hinterdobler offre a Chrysothemis, personaggio dolente e tragico, senza mai essere eroico. Senza mai essere marcatamente wagneriano – che è il rischio che spesso è in agguato con Strauss. Rischio sul crinale del quale si muove Aile Asszonyi, soprano indubbiamente wagneriano nell’emissione, nel volume, negli accenti. Che offre alla sua Elektra, lacerata da un tormento interiore più che da un disagio fisico. Statuaria nelle grandi tirate, intensa nel drammatico finale.
Figlia, l’Elektra di Aile Asszonyi, della Klytämnestra di Angela Denoke. Meno di un quarto d’ora in scena – più un’appendice, un’apparizione ieratica nel finale – basta alla Denoke per mettere la sua firma, offrendo una grande lezione di canto grazie alla nobiltà che mette nel disegnare un personaggio distrutto dalla vita e dal male compiuto, dilaniata, ma mai piegata. La Denoke è una Klytämnestra musicalissima, dalla voce ancora intatta e capace di colorare questo Strauss di inaspettata malinconia – te la aspetteresti da un Rosenkavalier e dalle nostalgie della Marescialla che la Denoke ha disegnato con la sua inedita intelligenza musicale. Andreas Mattersberger è un efficace Orest, voce bella di baritono, presenza scenica intensa per un personaggio che vorremmo eroico, ma che qui arriva come il più umano, estraneo (come Chrysothemis) alla logica della vendetta, ma costretto a incarnarla suo malgrado. Lascia il segno, nel breve passaggio di Aegisth, Florian Stern, tenore dallo squillo potente e ben governato.
Tutti – anche il Precettore di Oliver Sailer, i due servi di Sascha Zarrabi (il giovane) e Stanislav Stambolov (il vecchio) e le ancelle di Abongile Fumba, Fotini Athanasaki, Federica Cassati, Susanna von der Burg e Annina Wachter – passano senza problemi il muro di suono che sale dalla buca dove Lukas Beikircher, prossimo a chiudere il suo mandato di Generalmusikdirektor a Innsbruck, restituisce uno Strauss muscolare, monolitico, tragico, appunto, più espressionista che impressionista (eppure in partitura i colori ci sono, cangianti, danzanti, profumati…) ben assecondato dalla Tiroler Symphonieorchester di Innsbruck (ottoni brillanti, archi volanti, legni intensi). Espressionista. Carica di dolore. Come la musica di Strauss. Come lo spettacolo di Reitmeier. Catartico (?!) come dovrebbe essere (sempre) la tragedia.
Nelle foto @Birgit Gufler Elektra al Tiroler Landestheater di Innsbruck