L’opera di Verdi ha inaugurato il cartellone numero 100 Diretta tv per lo spettacolo che sembra un videoclip pop Dirige Marco Armiliato, protagonista Anna Netrebko
Non c’è da stupirsi (o, addirittura, da scandalizzarsi). Non c’è da stupirsi se in uno dei brindisi ai bordi dell’Arena di Verona prima che inizi l’Aida di Giuseppe Verdi che inaugura il festival numero cento – d’accordo la prima Aida a Verona è del 1913, ma ci sono stati gli stop forzati per le due guerre mondiali, dunque quest’anno va in scena il cartellone numero cento – non c’è da stupirsi se a uno di questi brindisi (dove si entra con invito) ti consegnano un foglietto. Con un marchio che se guardi bene non è quello inconfondibile della fondazione lirica (questo è più anni Ottanta), anche se la firma è «Noi della Fondazione Arena di Verona». Questa “fondazione” non è, però, quella lirica della sovrintendente Cecilia Gasdia, bensì quella (che si occupa di tutto tranne che di lirica) di Arena di Verona srl di Gianmarco Mazzi, oggi sottosegretario alla Cultura, da sempre organizzatore degli eventi pop nell’anfiteatro – tanto che alla prima scortava Sophia Loren e ha invitato Lino Banfi e Jerry Calà, Iva Zanicchi e Orietta Berti, Il volo e Amadeus, volti pop delle serate su Rai1 dall’Arena.
Un foglietto, si diceva, dove si chiede «a tutti gli invitati di accompagnare le sedute con una mano, per evitare che sbattano, quando Vi alzerete all’ingresso di Sophia Loren (ore 20.40) e per cantare l’Inno nazionale, che verrà eseguito subito dopo il passaggio delle Frecce tricolori (ore 21.04)». E ancora che è importante «sostenere lo spettacolo, con applausi nei momenti appropriati, fino alla fine e anche un po’ oltre» e che «l’Anfiteatro non va abbandonato prima del termine dello spettacolo (ore 00.30) perché «Verona e la mondovisione hanno bisogno del Vostro calore, dei Vostri applausi e delle Vostre standing ovation da mostrare al pubblico internazionale». Un foglietto che (per incuria e maleducazione) può capitare di trovare per terra davanti agli archi che introducono nell’anfiteatro romano.
Non c’è da stupirsi – lo dicono, se ci fosse bisogno di una conferma, gli orari super precisi messi tra parentesi – perché sono le indicazioni che ti danno in qualsiasi studio televisivo se ti capita di assistere tra il pubblico ad una registrazione o ad una diretta di un programma, un Che tempo che fa qualsiasi, per intenderci. Te lo dice l’assistente di studio (quel signore che sta dietro le telecamere con in testa delle cuffie e in mano una cartelletta con la scaletta del programma) prima che parta il rec o il live, ti dice di applaudire, di sostenere con calore il/la presentatore/trice, di ridere anche più del normale, di partecipare “emotivamente” con gesti del corpo o espressioni del viso a quello che succede davanti alle telecamere, di non abbandonare il tuo posto prima della fine «perché altrimenti si vedrebbe il buco». Te lo dice chiaro e se non esegui “ti fa brutto” (come direbbero i gggiovani) con terribili occhiate. Non c’è da stupirsi che abbiano chiesto tutto questo alla serata inaugurale del cartellone numero cento dell’Arena di Verona perché per una sera l’Arena non era il “solito”… palcoscenico sotto le stelle dove va in scena il più grande spettacolo lirico del mondo… (dai… un po’ di retorica ci sta bene…), ma per quella sera l’Arena è stata trasformata in un grande studio televisivo nelle mani di Milly Carlucci, Alberto Angela e Luca Zingaretti – perché loro? Perché su Rai1 per una politica aziendale non possono esserci che volti di Rai1 dunque riconoscibili come i conduttori di Ballando con le stelle e Ulisse e il Commissario Montalbano (ed ecco perché la diretta della Prima della Scala è sempre territorio della Carlucci e di Bruno Vespa).
Uno studio televisivo a cielo aperto con un pubblico di 14mila persone con lo sguardo rivolto all’insù, alla scia di fumo che ha il colore della nostra bandiera riempie il cielo sopra Verona. E il primo suono del festival numero cento dell’Arena è quello dei motori delle Frecce tricolori. Sfrecciano sopra l’anfiteatro romano e lasciano i loro colori impressi nell’azzurro che si sta facendo blu dell’imbrunire mentre dal podio Marco Armiliato attacca l’Inno di Mameli. «Fratelli d’Italia» canta il coro già dentro i costumi di scena, ma avvolto da grandi mantelli bianchi, rossi e verdi. «L’Italia s’è desta… dell’elmo di Scipio…» fa eco il pubblico dell’Arena, prima timidamente, poi sempre più convinto. Un coro di 14 mila persone, chiamate a «sostenere lo spettacolo con il Vostro calore, i Vostri applausi e le Vostre standing ovation da mostrare al pubblico internazionale». Internazionale, perché l’Aida con una super Anna Netrebko, la bacchetta assai meditativa di Marco Armiliato e la regia da show tv (appunto) di Stefano Poda è stata trasmessa in mondovisione su Rai1 con una diretta partita dopi il Tg1 delle 20 e andata ben oltre l’1 (a far slittare in là il tutto una lieve pioggia che ha ritardato di mezz’ora l’inizio dello spettacolo). Una diretta che ha raccolto in media un milione e 800mila spettatori e registrato il 13% di share. Numeri che dicono il gradimento del pubblico – e, incredibile, negli ultimi giorni, rispetto agli ultimi cinque anni, la ricerca della parola «Aida» su Google è stata superiore di circa il 430% alla media. Non solo. Sui social l’hashtag #inArena ha raggiunto circa 5,6 milioni di utenti producendo 310 mila like, mentre le pagine social ufficiali Arena di Verona hanno raggiunto un pubblico di oltre 1 milione e 500 mila persone.
Il passaggio delle Frecce tricolori sull’Arena di Verona
Certo, l’Aida di Stefano Poda (che firma regia, scene, costumi, luci e coreografia del titolo verdiano rappresentato, dal 1913 ad oggi, 736 volte in 28 allestimenti diversi nell’arco di 62 festival) è uno spettacolo costruito a misura di tv, provato anche nei giorni precedenti la prima (spesso fino a tarda notte per le piogge che hanno contrappuntato il lavoro) mettendo a punto gli sguardi in camera dei cantanti. Perché, oltre al drone che ronzava sopra l’Arena, oltre alla telecamera che si muoveva appesa a due cavi sopra le teste del pubblico della platea e oltre agli obiettivi fissi collocati sulle gradinate, due steady erano sul palco, in mezzo a coristi, danzatori e comparse, per catturare i primissimi piani degli interpreti. Disturbante? Un po’, all’inizio. Poi non ci fai più caso. Tanto più che potevano anche starci bene nell’impianto “tecnologico” della regia. Regia che in realtà è una grande coreografia con oltre trecento persone (numeri da Zeffirelli) sul palco tra coristi, danzatori e comparse che danno forma a magmi di corpi che avvolgono i personaggi anche nei momenti più intimi. Corpi pulsanti che materializzano sentimenti e mostrano, come in drammatici squarci di realtà, la verità e il dolore di cui la musica gronda. Masse che si muovono al rallenty per il palco, che si concentrano e si dilatano nello spazio. Funziona? A tratti. L’impatto è spesso garantito (come nell’apertura del terzo atto con bastoni che ondeggiano a evocare la vegetazione delle sponde del Nilo), ma non mancano momenti più confusi e alla lunga, nelle due ore e quaranta che dura lo spettacolo, il già visto è continuamente in agguato. Niente scavo psicologico, piuttosto suggestioni evocate da un magma di corpi nel quale spesso si perdono i protagonisti, non così caratterizzati né dalla recitazione né dai costumi (hanno la stessa foggia e lo stesso colore di quelli di coristi e danzatori ai quali si mescolano) e dunque puntini quasi invisibili nello spazio infinito dell’Arena – in teatro, ad esempio, non si capiva che la figura che avvolge Radames nel suo «Celeste Aida» era proprio Aida, lo ha rivelato il replay della diretta tv: sembrava una danzatrice, invece era una snodatissima e comunicativa Netrebko, vestita di nero e sinuosa intorno al suo Radames
Certo, Poda fa Poda – e c’era da scommetterci – amplificando il suo modo di fare regia (che è sempre quello, per immagini scolpite nella luce “alla Bob Wilson”, grandi tableaux dai colori gelidi e dai contorni inquieti, prendere o lasciare, ma se lo chiami a firmare uno spettacolo sai che la cifra estetica sarà quella…) amplificando e dilatando il suo modo di fare regia, con pregi e difetti, per il grande palcoscenico dell’Arena. Che diventa, come in uno studio tv, una grande pedana lucida e inclinatissima – e appena spiove i tecnici corrono ad asciugarla per evitare che si scivoli. Ogni azione, ogni parola cantata dei protagonisti è contrappuntata dal movimento, come in un grande concerto pop (e in Arena se ne fanno e sono pure ripresi dalle telecamere). E ha proprio questa estetica, di uno show alla Lady Gaga o alla Beyoncé, l’Aida di Poda tra fumi e luci laser che si incrociano nel cielo sopra l’anfiteatro disegnando il profilo di una piramide, tra una enorme mano stilizzata (ma il senso si fatica a comprenderlo) che incombe sui protagonisti (un po’ ricorda quella del Tannhäuser scaligero della Fura dels baus) e un grande pallone d’argento che si alza in aria, tra mummie di gesso e stendardi con mani aperte pugni chiusi, tra una colonna corinzia e un relitto di astronave (da 2001 Odissea nello spazio) adagiati sulle gradinate, tra caschi da motociclista tempestati di specchi e costumi che sono materici e concreti, colate di colore, intrecci di fili, fusione di metalli – quelli dei danzatori che sferragliano sulla pantomima tribale che è la Marcia trionfare secondo Poda, che astrae le vicende, spazza via qualsiasi connotazione egiziana, in un racconto che ha l’andamento di un lungo, lunghissimo videoclip sulla musica di Verdi.
Musica affidata a Marco Armiliato: nessun leggio sul podio, nessuna partitura, perché Armiliato dirige tutto a memoria, dilatando i tempi della scrittura verdiana, in perfetto sincro con le immagini che si vedono sul palco. L’effetto c’è, ma il rischio è quello di un appiattimento (quasi una sordina), di una monocromia del suono che spesso non arriva sbalzato nelle dinamiche e nei colori come ci si aspetterebbe. La lettura di Armiliato è intima, ripiegata, anche nei momenti più solenni e corali – ottimo l’apporto del coro che da maggio (e si sente) è diretto da Roberto Gabbiani. Affidabile, certo, la bacchetta del direttore genovese, sempre pronto a riprendere i cantanti che sfuggono nella vastità areniana. Cosa che capita a Yusif Eyvazov, un Radames dolente, dagli acuti sicuri, dalla tecnica che lo porta a restituire al meglio la scrittura verdiana (bello il diminuendo del Trono vicino al sol… bellissime le mezzevoci del finale quando A noi si schiude il ciel) anche se a vote il fraseggio appare “creativo” e la voce a tratti sembra accusare un po’ di stanchezza (saranno anche le prove ravvicinate di questa Aida messa su in dieci giorni – la Netrebko, come ha documentato nelle sue storie Instagram, è arrivata a Verona il 6 giugno). Non capita mai, di essere fuori sincro con il podio, ad Anna Netrebko, Aida perfetta, personaggio che si adatta come pochi alla sua voce (una Lady le sta più stretta, ad esempio) di velluto e cristallo, pastosa (colore malinconico russo) nei centri e nei gravi, tutti timbratissimi, limpida e pura negli acuti che riempiono incredibilmente, anche nei più sussurrati pianissimi, tutta l’Arena e ti arrivano nitidi, come se te li stesse cantando all’orecchio. Emoziona da subito il Ritorna vincitor, ma i Cieli azzurri sono un miracolo di bellezza tra fiati e acuti infiniti e un do in pianissimo da brivido. Ma tutta l’interpretazione della Netrebko lascia il segno, vocalmente (sempre presentissima, sempre dominante in duetti e concertati) e scenicamente con il soprano che costruisce un personaggio onirico capace di incarnare, con un movimento o uno sguardo un sentimento.
Amneris è Olesya Petrova, un fiume in piena di voce e di volume (voce da Arena, si dice) che il mezzosoprano incanala (e a volte fa straripare) in un canto spesso debordante, disegnando un’Amneris tutta istinto. Calcolatissimo, glaciale, al contrario il Ramfis di Michele Pertusi, basso dal canto nobile e avvolgente, come Simon Lim, interprete di lusso nel ruolo del Re – canta solo nei primi due atti, ma lascia il segno. E lascia il segno, in una parte ancora più piccola, Riccardo Rados che arriva a primo atto appena iniziato e canta con un’autorevolezza rara la tirata del Messaggero, restituendola con la sua voce bella, corposa, piena (se non partisse subito il «Guerra! Guerra!» del coro partirebbe l’applauso). Serata sottotono, invece, per Roman Burdenko, che fa solo intuire (la voce spesso si perde, l’interpretazione è fiacca) come potrebbe essere il suo Amonasro, nobile e senza i fastidiosi accenti veristi che si sentono spesso. Francesca Maionchi restituisce bene le litanie della Sacerdotessa.
Smoking e sandali, tra gradinate e platea, per l’inaugurazione di stagione. Perché a Verona l’opera è sempre stata qualcosa di popolare, le candeline che fanno atmosfera, ma anche le lattine vendute sui gradoni di pietra, come allo stadio. Qualcosa per tutti. Dal 1913, quando il tenore veronese Giovanni Zenatello si è inventato la lirica sotto le stelle, il melodramma sul più grande palcoscenico di sempre, quello dove le scenografie sono imponenti, come se fossimo a Cinecittà o a Hollywood, quello dove coristi, danzatori, figuranti riempiono ogni centimetro – Franco Zeffirelli è stato il regista per eccellenza dell’Arena, quello che ne ha esaltato all’ennesima potenza questa dimensione kolossal, popolare e allo stesso tempo colta. Come (a volte) sa essere (o dovrebbe) la televisione.
Nelle foto Ennevi Aida all’Arena di Verona