L’opera di Verdi, scecondo titolo del Maggio fiorentino torna nell’edizione vista in tv nel 2020 in pieno Covid Metha sul podio, cantano Soghomonyan, Abaeva e Salsi
Prima (due anni fa…) era un posto ai confini del mondo. E forse della realtà. Poteva essere Lesbo, dove si ammassavano (e forse lo fanno ancora, anche se le cronache non ce lo raccontano più) migranti con i piedi immersi nel fango e nell’acqua. Un limbo da rimuovere dalla vista per chi vive nel caldo delle proprie case. Poteva essere, sempre due anni fa – se ipotizziamo che quelle passerelle e quelle case senza pareti siano un luogo ai confini della realtà –, poteva essere icona di un mondo in bilico sull’orlo dell’abisso. Di un mondo in attesa, in un limbo appunto, che una situazione difficile, drammatica, impensata sino a pochi mesi prima, svoltasse. Perché quando si è visto sul piccolo schermo della tv l’Otello di Giuseppe Verdi immaginato da Valerio Binasco per la sala vuota del Teatro del Maggio di Firenze, eravamo in pieno Covid. Seconda ondata – ancora più dura della prima perché alle spalle avevamo l’illusione delle riaperture. E poi di nuovo le porte chiuse. Così quel limbo dove il regista aveva ambientato le vicende che Verdi ha messo in musica ispirandosi (e a volte superandolo, per la concisione della sintesi drammaturgica) a Shakespeare, quel limbo poteva essere metafora di un mondo in attesa. Fermo. Impossibilitato ad andare avanti. E quasi senza speranza pefché, come si diceva, non si riusciva ancora a vedere la luce in fondo al tunnel. Impantanato. Come i migranti parcheggiati in malo modo in qualche campo profughi di confine.
Oggi che al Maggio musicale fiorentino numero ottantacinque (sfrondato dai tagli inevitabili del commissario Onofrio Cutaia dopo l’addio pieno di debiti dell’ex sovrintendente Alexander Pereira, ma Otello era comunque previsto nel cartellone ideato dal manager austriaco) oggi che torna quell’Otello, andato in scena nel novembre del 2020 a porte chiuse (e trasmesso dalle telecamere di Rai 5), il limbo immaginato da Binasco (lo raccontano bene i costumi di Gianluca Falaschi, quelli che il costumista romano disegna per il coro, come se fossero usciti dai sacchi di vestiti usati lasciati nei raccoglitori della Caritas… negli angoli delle nostre città) è inevitabilmente un altro. È un qualsiasi posto (e stavolta non solo di confine) dell’Ucraina. Dove c’è un’umanità sperduta, resa sorda (e stanca) dai «titanici oricalchi» che «squillan nel ciel» (poesia nel libretto di Arrigo Boito) e che non sono i tuoni, ma il rumore delle bombe – li fa sentire bene, in tutto il loro roboante chiasso, Zubin Mehta, sul podio, ancora una volta, per uno dei suoi titoli feticcio, tornati a più riprese (anche a Firenze) nella carriera dell’ottantasettenne direttore d’orchestra indiano. Le bombe della guerra, in Ucraina, certo, ma anche in altre decine e decine di angoli del mondo dove c’è un’umanità che attende che passi la bufera. Che dura ormai da tanto, troppo tempo. Perché forse non c’è giorno nella storia in cui sulla terra le armi abbiano taciuto.
Allora la Cipro del libretto di Boito (e William Shakespeare, naturalmente) diventa, nella rilettura di Binasco (la regia, senza più obblighi di distanziamenti e senza nemmeno le mascherine sui volti dei coristi la riprende João Carvalho Aboim), un campo profughi di oggi, ma anche una città che ha fermato le lancette degli orologi perché distrutta dalla guerra. Un campo, un limbo, forse un’anticamera dell’aldilà, dove si aggirano soldati, uomini in divisa che girano a vuoto su se stessi e intorno alle loro vite. Abitanti di una mediterranea Fortezza Bastiani, in attesa che qualcosa succeda e rompa il silenzio (l’immobilità) di quel deserto. Un luogo dove forse la noi provoca la tragedia. Che oggi chiameremmo femminicidio come i tanti (troppi) che ci raccontano le cronache. Perché Otello uccide Desdemona accecato di gelosia – quella che gli ha instillato ad hoc Jago. Ed è qui la radice del male. Imprevedibile, che va sempre oltre. Perché forse le intenzioni di Jago – sembrano dirci Binasco e la recitazione sfaccettata, da attore cinematografico di Luca Salsi, nei panni del cattivo – non erano quelle di spingere Otello ad uccidere la moglie, ma c’era “solo” la volontà di mettere in cattiva luce Cassio «quell’azzimato capitano» che «usurpa il grado mio». E farlo degradare. Dunque una lotta di potere male (malissimo) gestita. Perché Otello – e questo ce lo dice la storia – non canalizza il suo istinto (è pur sempre «quel selvaggio dalle gonfie labbra» alla faccia di qualsiasi politically correct) su Cassio, ma sulla moglie. Un vero e proprio stalking. Un accerchiamento progressivo, per cerchi concentrici. Fino al drammatico confronto a due. Preparato da una delle più belle scene di sempre, fatta di quella musica che ti si imprime nella mente e non ti lascia più. Perché, come Desdemona, hai «la memoria piena di quella cantilena». Della Canzone del Salice. Dell’Ave Maria, la più umana di tutte, impastata di terra e lacrime.
Binasco mette un letto in mezzo al nulla. Rifugio per Desdemona, donna in un mondo di uomini. Di militari, vestiti con divise che non hanno tempo. Donna che veste anni Trenta, elegantissima (cifra inconfondibile di Falaschi). Donna tra i profughi vestiti con relitti di vestiti di oggi. E così i piani temporali si mischiano e un po’ confondono, così come gli spazi fisici si incastrano l’uno nell’altro: Otello e Desdemona e tutta la truppa veneziana abitano in porzioni di case che entrano ed escono nella scenografia di Guido Fiorato – impianto pressoché unico, case senza pareti, non finite nel loro scheletro di cemento armato, come tante case del nostro Sud che assomiglia in modo impressionante a tanti paesaggi urbani dell’Africa del Nord.
Qui si consuma la tragedia di Otello, un Otello che scorre, tutto sommato tradizionale, nell’impianto drammaturgico e registico. Un Otello affidato ancora una volta alla bacchetta di Zubin Mehta che a tratti (vedi il vigoroso inizio) mette per un attimo da parte il piglio meditativo che da qualche tempo contraddistingue le sue letture (che sono ri-letture). Certo, non mancano solennità e lentezze (e alcuni scollamenti come quello, abbastanza vistoso e spiazzante del finale del terzo atto, salvato dall’intelligenza musicale di Salsi, dopo che coro e ottoni fuori scena non avevano avuto l’attacco…). Solennità e lentezze che permettono di assaporare tutta la bellezza timbrica della scrittura verdiana, bellezza cupa e sghemba, ma con un fascino unico e avvolgente. Bellezza c he assapori solo dal vivo perché Otello (come Falstaff) è una di quelle opere che devono essere ascoltate dal vivo certo, tutti i melodrammi hanno la loro ragione solo nel live, perché è teatro musicale, ma se alcune partiture te le godi anche in disco, queste no, non arrivano con la stessa forza (sarà perché dietro c’è Shakespeare, uomo di teatro come nessuno?).
Del cast dell’Otello tv resta solo Luca Salsi, gigante nei panni di Jago. Non una sillaba è fuori posto nel canto musicalissimo del baritono di Parma. Non c’è nota sforzata. Non c’è accento fuori posto. Perché Jago non è un personaggio verista, non è un cattivo da sbalzare con volgarità. Perché il male che fa (e che è) è un male tutto psicologico, interiore, di testa. Quel male che ti affascina intellettualmente. E che ti confonde fino a convincerti di essere bene. Salsi sbalza così il suo Jago, nobile, elegante, fatto di pianissimi e sfumature infinite. Tutto sulla parola. Scolpita nella musica. Che nella musica trova la sua origine e il suo senso più profondo. E ancora una volta ti spiazza mostrandoti (in modo inaspettato e illuminante) quanto il personaggio abbia in sé la tragicomicità del Falstaff che verrà. Otello ha il fiume di voce di Arsen Soghomonyan (che è pure bella), nato baritono e poi passato al registro di tenore (mix ideale per la tessitura di Otello). Il cantante armeno, pur non immune da stanchezze nel corso della serata (la parte è delle più impietose per le voci), offre un ritratto credibile e tormentato del Moro. Certo, un po’ sottolineato. Come fa Zarina Abaeva che è una Desdemona tutta in crescendo, intensa nella grande scena del quarto atto. Pur indisposto (alla prima) Joseph DahDah è un eccellente Cassio, dal timbro luminoso e dalla tecnica solida. Un’altra prova a segno per Adriano Gramigni che è Ludovico. E poi cantano Francesco Pittari (Roderigo), Eduardo Martinz (Montano) ed Eleonora Filipponi (Emilia).
Uomini e donne (come gli uomini e le donne del coro di Lorenzo Fratini e delle voci bianche di Sara Matteucci) in un limbo. Uomini e donne in un mondo in guerra. Messi in pausa. In attesa che la tempesta passi. E allora ci siamo anche noi in questo Otello. Spettatori muti e impotenti (o potremmo forse fare qualcosa? ce lo domandiamo ogni volta, anche un po’ retoricamente, di fronte all’ennesimo femminicidio) di una tragedia che si consuma… nell’intimo di una famiglia. O nella scacchiera del mondo.
Nelle foto @Michele Monasta Otello al Teatro del Maggio di Firenze