Al festival di musica contemporanea Acht Brücken di Köln Metzmacher dirige il “classico” Les Espaces Acoustiques
A Colonia i ponti che attraversano il Reno sono sette. Uniscono la città, la zona est con quella ovest, Mülheim e Deutz con l’Altstadt. Ma è bello pensare che l’ottavo ponte, perché arriva a quel numero il festival Acht Brücken che tradotto vuol dire appunto Otto ponti, sia quello della musica. Quello lanciato dal festival Acht Brücken. Musik für Köln. Un ponte tra ieri e oggi. Tra la musica del passato e quella del nostro tempo. Tra le quali c’è – al di là di sperimentalismi, prese di distanza più o meno dichiarate, rinnegamenti e rivoluzioni – una continuità. Perché il linguaggio si evolve. Gettando le radici nel passato e portando nel dna tracce di ciò che è stato.
Lo mostra bene il ricco programma di Acht Brücken. Musik für Köln. Musica contemporanea alla Kölner Philharmonie, la sala, bellissima e avvolgente come un abbraccio nella sua vorticosa circolarità, nel complesso museale che da una parte guarda il Duomo e dall’altra lo scorrere del Reno – e nella piazza sopra la Philharmonie, costruita appunto sull’argine, non si può camminare quando ci sono i concerti, per non disturbare l’ascolto (lo impediscono, cordiali e gentili, vigilantes messi lì ogni volta che in cartellone c’è un appuntamento). Musica contemporanea (elettronica e pop) tra concerti, installazioni, dj set, laboratori, conferenze per esplorare – e magari provare a catalogare – le tendenze della musica del nostro tempo. Molta della quale è ormai un classico. Come Les Espaces Acoustiques del francese Gérard Grisey, un ciclo di sei brani per differenti formazioni, iniziato nel 1974 con Périodes (anche se nell’impaginato arriva prima il Prologue per viola sola del 1976) e concluso nel 1985 con Epilogue per quattro corni solisti e grande orchestra. Ciclo profondamente unitario – nonostante gli oltre dieci anni che separano l’incipit dal finale e che, in qualche modo si avvertono nell’evoluzione dello stile e della scrittura – perché ogni capitolo del ciclo amplia il precedente, amplia il campo acustico di quello che lo ha preceduto. Tanto che dalla cellula iniziale per viola si arriva a un’orchestra che quasi fatica a stare sulla piattaforma circolare della Philharmonie. Dove Ingo Metzmacher, per uno degli appuntamenti clou del festival Acht Brücken, guida l’Ensemble Modern, l’Iema, l’Internationale Ensemble Modern Akademie, e la Junge Deutsche Philharmonie di Francoforte.
L’impressione, ascoltando Les Espaces Acoustiques, è di essere di fronte a una cosmogonia. O meglio, alla traduzione in formule matematiche e in leggi della fisica dell’origine del mondo. Un’Odissea nello spazio sonoro che Grisey esplora lavorando più sui toni che sulle note – come ha spiegato lo stesso compositore allacciandosi al lavoro del suo maestro Olivier Messiaen. Tutto parte dal buio. E il big bang è affidato a una viola – quella della virtuosa Megumi Kasakawa, bravissima, intensa, fantasiosa e allo stesso tempo rigorosissima nel grande assolo iniziale e in tutti gli interventi che Grisey dissemina nella partitura. Una viola che ripete un nucleo tematico fatto di poche note – e quasi temi all’infinito visto che la partitura è distribuita su quattro grandi leggii che la musicista percorre avanti e indietro disorientandoti. Nucleo che ritornerà, variato, trasformato, mimetizzato lungo tutto la lunga, lunghissima partitura. Quasi due ore che Grisey vuole teatrali. Le scrive così in partitura. Non rinunciando anche al colpo di teatro del suonatore di piatti che resta immobile sul finire della prima parte, si ritrova così (ma immerso nella grande orchestra e non più solista nell’ensemble) all’inizio della seconda, riuscendo a dare (finalmente) il colpo di grazia solo alla fine.
Le cellule di suono iniziali. Lo stordimento finale del suono a tutta orchestra. Nulla lasciato al sentimento, però. Tutto calcolato con precisione scientifica. Quasi fosse la ricerca di una formula matematica per racchiudere l’essenza dell’universo. Così Grisey scompone la musica – quasi avesse gli occhi su un microscopio – nei suoi elementi fondamentali, va a fondo del suono, a cercare il grado zero per poi ripartire da lì e con quello ri-costruire un universo. Un continuo avanti e indietro dal micro al macro, dall’infinitamente piccolo a ciò che nessuna formula (e nessuna mente) può contenere.
Metzmacher governa a meraviglia questa materia. La fa propria con una naturalezza incredibile. La rende viva e palpitante, quasi che da quelle formule sintetizzate da Grisey sulla partitura sperasse di trarre la vita. E ci riesce, alla fine del lungo viaggio che è Les Espaces Acoustiques, spazio acustico, appunto, da abitare, da “arredare” partendo da formule universali per renderlo personale. Unico. Adatto al qui ed ora di chi lo ascolta. Ecco allora Prologue per viola sola e Périodes per sette strumentisti fino a Partiels per diciotto strumenti. Dimensione da camera, nella penombra della Philharmonie. Un giro nel foyer (intervallo necessario per far decantare i suoni) ed ecco che lo scenario cambia. Dall’infinitamente piccolo si passa all’infinitamente grande, alla grande orchestra – e i giovani della Junge Deutsche Philharmonie sono colorati nei loro vestiti da tutti i giorni, niente divisa da concerto. Ecco Modulations, Transitoires e infine l’apoteosi sonora di Epilogue. Che non è una conclusione, ma un ponte. Verso altri mondi. Perché i corni solisti riprendono il materiale di Prologue e aprono la strada quasi al collasso di un sistema, di un castello fragilissimo – come la doppia elica del dna – costruito sino ad allora. Il tempo dell’universo, il tempo del cosmo si sovrappone e quasi viene a coincidere con il tempo antropico, con il tempo dell’uomo. E la vertigine, nello sfolgorare di luci della sala della Kölner Philharmonie, è di quelle che ti serve una notte per smaltire.
Nelle foto la Kölner Philharmonie