All’Oper Köln l’opera di Händel con la regia di Boussard Cast (e non solo) italiano con Raffaele Pe e Sonia Prina Dirige Rubén Dubrovsky, Cleopatra è Kathrin Zukowski
Lo dice bene il titolo. Che non si limita (come ha insegnato da subito la tradizione, a partire dal melodramma zero della storia, l’Orfeo di Claudio Monteverdi) non si limita al nome del protagonista – sempre che il condottiero romano si possa definire davvero il protagonista assoluto della partitura… ma questa è un’altra questione e riguarda una partitura dove occorrono cinque voci cinque, tutte protagoniste (e pure i cosiddetti comprimari non scherzano…). Non si limita, dicevamo, il titolo dell’opera al nome del protagonista, ma ci mette accanto un’indicazione di luogo (che guardando alla cronologia della Storia diventa anche un’indicazione puntualissima di tempo) ben precisa… in Egitto. E in questa indicazione di luogo (e di tempo) c’è l’essenza – al di là della perfezione della musica, bella, bellissima, da perderci la testa – del Giulio Cesare in Egitto di George Friedrich Händel.
E il titolo, Giulio Cesare in Egitto, appunto, dice bene che la partitura del 1724 è (può essere, se la si vuole leggere nella sua profondità e nel suo essere arte che parla alla vita) un manuale di diplomazia, un trattato (in musica, certo) di strategia politica. Oggi diremmo un saggio di relazioni internazionali. Valido, validissimo per questi tempi di terza guerra mondiale a pezzi. E se non fosse che dietro c’è la tragedia di un popolo – che è certo quello ucraino, ma che è anche ogni popolo di ogni paese del mondo dove si combatte e dove si fa la guerra – se non fosse che il sangue di chi muore impone gravità di pensiero e di parola, potremmo dire che i politici di oggi, i vari Putin e Zelensky, per intenderci, ma anche i generali che mettono a ferro e fuoco il Sudan, per esempio, potrebbero imparare a fare la pace – o quantomeno a fare un accordo, vantaggioso, per far cessare il rumore delle armi – ascoltando Händel e il suo Giulio Cesare in Egitto.
Che ci porta subito, nella prima scena, in medias res della campagna di Cesare in Egitto (datata 48 e 47 a. C.). Giulio Cesare sbarca in Egitto «venne, vide e vinse» si canta subito addosso il condottiero prima che Tolomeo, re d’Egitto, come benvenuto gli faccia recapitare la testa di Pompeo, il suo nemico nella guerra civile romana arrivata, appunto, sino in Egitto. Inizio da pugno nello stomaco, alla Shakespeare del Tito Andronico o alla Thomas Middleton della Tragedia del vendicatore, teatro elisabettiano dei più crudi e crudeli. Inizio che Vincent Boussard rende elisabettiano e grottesco – e dunque ancora più inquietante perché ha i contorni di un incubo – mettendo la testa di Pompeo in una elegante cappelliera portata a Cesare da un Achilla vestito da clown, la parrucca azzurra, il volto imbiancato, le mani grandi – che saranno poi le mani (goffe) che Tolomeo non riuscirà ad indossare, impacciato com’è a gestire un potere più grande di lui.
Inizio folgorante ed esteticamente bellissimo (la scena fatta tutta di luci ed elementi in controluce è di Frank Philipp Schlößmann) del Giulio Cesare in Egitto di Händel, nuovissimo allestimento dell’Oper Köln, affidato alla regia di Boussard e all’estro barocco dello stilista francese (baroccheggiante) Christian Lacroix. Secondo inizio, in realtà, perché il primo, sul coro introduttivo che non senza retorica – «Viva, viva il nostro Alcide, goda il Nilo in questo dì» – saluta lo sbarco di Cesare in Egitto, ci porta inaspettatamente in (quella che sembra) una Venezia livida, raggelata in un’alba tutta in controluce con maschere nere, nei tipici abiti settecenteschi (ma le gonne sono sghembe e corte, il taglio delle giacche modernamente ammiccante) che si aggirano nel bagliore in una danza che è un gioco di seduzione guidato da un Cesare (che è lui, però, lo scopriamo poi) che tanto assomiglia a Giacomo Casanova. Giacca e cappello identici (il copricapo maliziosamente di tulle). Casanova il seduttore, che “rimorchiava” le donne per il solo piacere della conquista. Casanova, forse, non tanto diverso da Cesare. Che più o meno inconsciamente usa il suo fascino per sedurre “politicamente” Cleopatra (lei che nelle vesti di Lidia e di Bellona voleva usare la seduzione come strategia politica, ma poi cade innamorata cotta) e siglare con lei un patto di ferro. Politico e strategico. Da prendere come esempio oggi… forse.
Forse. Perché non mancano zone d’ombra, inquiete e sinistre, nel Giulio Cesare in Egitto. Nella trama, che mostra i giochi di potere e le fragilità di chi lo gestisce – Tolomeo, il re d’Egitto, è emblema di questo, nel suo amore incestuoso per Cleopatra, unico suo vero oggetto del desiderio, tanto che alla fine, quando la perderà non vorrà più nemmeno il potere e si getterà, nella lettura di Boussard, sulla spada di Sesto, suicidandosi. Zone d’ombra che ci sono nella musica di Händel che racconta sì la furia, l’impeto, la rabbia – dall’Empio dirò tu sei al Lampo dell’armi tutte di Cesare –, ma predilige spesso le zone in chiaroscuro, i controluce nelle bellissime pagine liriche, nelle arie dolenti che raccontano il dolore che la guerra (qualsiasi guerra carica di lutti) porta con sé. Le arie di Cornelia che piange il marito Pompeo – e anche Cesare gli rende omaggio in uno dei più bei recitativi mai scritti, quell’Alma del gran Pompeo che è il contrappunto in musica dell’orazione che poi Marco Antonio in Shakespeare farà al funerale di Cesare. Il lamento a due Son nata a lagrimar/Son nato a sospirar tra la vedova di Pompeo e il figlio Sesto, dolce dichiarazione di pessimismo cosmico, su note che invitano, invece, alla pace. E il dolente Se pietà di me non senti, lo straziante Piangerò la sorte mia di Cleopatra, preghiere umanissime perché impastate di vita. Pagine che Rubén Dubrovsky sbalza commoventi e toccanti dal podio, alla guida dei musicisti della Gürzenich Orchester – strumenti moderni che ben dialogano con cembalo, liuto e tiorba, poco vibrato, suono secco nelle arie di impeto, slanci siderali e accenti quasi romantici nelle arie liriche (e quando le voci dialogano con strumenti solisti Boussard li fa vedere in scena, il violino, il corno…).
Una lettura, quella del direttore nato a Buenos Aires da una famiglia italo-polacca (l’Italia torna spesso in questo Giulio Cesare di Colonia), tesa, storicamente informata (qualche sforbiciata alla partitura rende più incalzante il ritmo di un testo musicale che è un susseguirsi di arie e recitativi), teatrale e attenta al canto. Che corre bene nella Saal 2 dello Staatenhaus, il grande spazio fieristico sulla riva del Reno, sede temporanea dell’Opera di Colonia in attesa della riapertura del teatro di Offenbachplatz – nel 2024 si torna nel tronco di piramide imponente che ospita Oper e Schauspiel, che vedi anche a distanza, grigio, austero ma proteso sulla piazza nelle grandi vetrate e nei balconi lunghissimi, per accogliere, quasi fossero braccia o dita di una mano, il pubblico. Allo Staatenhaus c’è una lunga, lunghissima gradinata avvolta dal nero. In fondo il palco – l’orchestra sta ai piedi della scena, a livello del pavimento, non in buca, così che il suono corre bene – e il boccascena che è quasi il grande schermo di una sala cinematografica. Dove il racconto procede in dissolvenza – ma i video di Nicholas Hurtevent non sono totalmente riusciti. Pareti che scorrono e modulano gli spazi, apparecchiano e sparecchiano scene e ambienti, fanno apparire e scomparire oggetti e personaggi, ritagliano la luce (bellissimo il disegno luci di Andreas Grüter). Come in un lungo, lunghissimo videoclip. Perché l’effetto della regia di Boussard è quello di un grande contenitore pop dove la narrazione del Giulio Cesare in Egitto procede per immagini forti e di impatto – Cesare è bellissimo nel suo cappottone cammello sotto il quale indossa una corazza color rame, Tolomeo inquietante nella sua nudità esibita (il suo gioco è, inevitabilmente, quello sessuale… che poi può essere benissimo metafora del potere).
Un racconto, quello del regista francese, che a un primo impatto è puramente estetico, bello da vedere, appagante per gli occhi. Ma che non rinuncia allo scavo psicologico e propone anche una sottile chiave di lettura politica della vicenda. Tolomeo e il suo oggetto di piacere… ma anche Cleopatra che si sdoppia, in tulle nero quando è Lidia e quando veste i panni della seduttrice, doppiopetto scuro per la donna politica che tratta con il condottiero romano – in testa sempre l’iconico caschetto nero. E Kathrin Zukowski, artista dell’ensemble dell’Oper Köln che debutta nel ruolo di Cleopatra, passa con disinvoltura scenica e vocale da una all’altra faccia della regina (contrappuntata da un’attrice che veste sempre i panni dell’opposta), avvolgente Lidia/Bellona, calcolatrice Cleopatra. Voce, quella di Kathrin Zukowski, che è un cristallo puro, limpida e immacolata capace di commuovere per bellezza e di avvincere in una tensione crescente l’ascoltatore. Capace di calamitare l’attenzione.
Come fa Raffaele Pe – ecco l’Italia – istrionico protagonista, a cui basta un gesto del braccio, un avvolgersi nel cappotto per fare teatro. Il suo è un Cesare tutto di forza, che non presta il fianco al nemico, muscolare e dominante. Un Cesare tutto d’un pezzo (si scioglie solo alla fine) che il controtenore di Lodi disegna con la sua voce affilata e piena restituendo intatta la bellezza e la forza (impeccabili le arie d’impeto e le agilità) della scrittura di Händel. Unico controtenore, nel Giulio Cesare di Colonia, Pe. Non l’unico italiano (in locandina c’è anche il musikalischer Assistent Luca Marcossi mentre nello staff del sovrintendente Hein Mulders da poco più di un mese è sbarcato Gabriele Donà). Perché Tolomeo ha il carisma e la sconfinata intelligenza musicale di Sonia Prina, interprete che ben conosce i segreti del canto (tanto che è ottima insegnante) e li usa per venire a capo di una parte che rischia sempre di finire nel caricaturale – e se un po’ il regista Boussard disegna così il re d’Egitto, Sonia Prina si guarda bene dal ridicolizzare una figura tragica come quella di Tolomeo, al potere suo malgrado.
Anche per Sesto in campo la voce di un mezzosoprano Anna Lucia Richter, anche lei per la prima volta nei panni del figlio di Pompeo. Efficace, puntuale e incisiva nel restituire il tormento di un figlio che si trova senza padre e deve difendere la madre Cornelia. Che è una bravissima Adriana Bastidas-Gamboa – anche lei dell’ensemble di Colonia e anche lei al debutto nel ruolo – capace di toccare le corde più intime per come mette nel suo canto il dolore di Cornelia. Arie su arie per tutti. Voci che sono ugualmente protagoniste, come si diceva. E non sono da meno i cosiddetti comprimari, tutti debuttanti nei ruoli e tutti della squadra vocale dell’Oper Köln: Matthias Hoffmann è un puntualissimo Achilla, Regina Richter e Sung Jun Cho sono Nireno e Curio.
Vestiti di barocco, come in un moderno videoclip, da Lacroix. Panni che tolgono nel finale. Per tornare a indossare quelli settecenteschi (e neri) nella Venezia livida che è apparsa all’inizio. Protagonisti di un carnevale (dove per definizione il mondo si rovescia e i rapporti di potere si invertono) inquieto. Dove si ripete perenne la rappresentazione del potere – come nel ritorno perenne in teatro del Giulio Cesare in Egitto. Specchio, la musica di Händel, nel suo gioco di specchi e di rimandi, della nostra realtà.
Nelle foto @Karl & Monika Forster Giulio Cesare in Egitto all’Opera di Colonia