Il Maggio fiorentino inaugura il cartellone lirico con Mozart Zubin Mehta sul podio, protagonista Luca Micheletti Spettacolo di Giorgio Ferrara ambientato in un cimitero
La morale, se proprio ce ne fosse bisogno, se non fosse abbastanza evidente quello che la musica e le parole del coretto finale sottolineano ben chiaro – «questo è il fin di chi fa mal» cantano (alcuni a denti stretti perché la dissolutezza è sempre qualcosa di affascinate) Anna e Ottavio, Zerlina e Masetto, Elvia e Leporello di fronte a Don Giovanni trascinato all’inferno dalla statua del Commendatore – se proprio ce ne fosse bisogno, la morale è messa in alto, nel titolo dell’opera più opera di Wolfgang Amadeus Mozart, Il dissoluto punito. Che non è il sottotitolo, ma la prima parte del titolo del Don Giovanni. Che in locandina – in quella dell’inaugurazione del cartellone lirico dell’ottantacinquesimo Maggio musicale fiorentino e in tutte le altre locandine di quando va in scena il capolavoro mozartiano – è sempre e solo Don Giovanni. Ma in partitura è (sempre e necessariamente) Il dissoluto punito o sia il Don Giovanni. Dissoluto e dunque punito, morale chiarissima. Equazione che più lineare non si può. Come quella che propongono, cliccatissimi, alcuni video su YouTube. «Seduce compulsivamente le donne, riceverà una punizione che farà riflettere tutti» riassumerebbero oggi gli “sceneggiatori” dei cosiddetti video emozionali che spopolano in rete, racconti sceneggiati e (parecchio) romanzati ispirati a fatti realmente accaduti (o che potrebbero accadere) che si concludono sempre con una morale, chiara e limpida ed “emozionale” appunto, perché su note ruffiane e ammiccanti di una musichetta melanconica arriva il «nella vita ho imparato che…». Recitato come in una filodrammatica, ma tanto efficace nel suo sapere genuinamente di vita quotidiana.
Arriva sempre il «nella vita ho imparato che…». Come nel Don Giovanni (che non è mai musica ruffiana ed ammiccante, anzi è capolavoro assoluto di inquietudine e di vita ad ogni nota) arriva, sempre, inesorabile (catartico, diremmo, se si trattasse di una tragedia greca… e forse, in qualche modo lo è) il «e de’ perfidi la morte alla vita è sempre ugual». Arriva dopo che il Commendatore ha trascinato il «giovane cavaliere estremamente licenzioso» (come Da Ponte, nel suo libretto, definisce Don Giovanni), all’inferno. Dissoluto, dunque punito. Non fa una piega… come si dice. E, certo, ci piacerebbe che nella vita fosse tutto così semplice. Chiaro. Trasparente. Ma, lo sappiamo, non va sempre così. Anzi, non va così quasi mai. Perché c’è sempre un Don Giovanni che tutti credevamo morto e punito e a bruciare tra le fiamme dell’inferno, pronto a ribaltare la morale, a beffarci, a risorgere dalle proprie ceneri, pronto a girarsi verso la platea – genialata che è la firma che ci mette Stefania Grazioli che riprende per Firenze la regia di Giorgio Ferrara immaginata nel 2017 per il Festival dei due mondi di Spoleto – e a fare l’occhiolino a noi che un po’ abbiamo simpatizzato per lui, pronto a brindare a una morale da sepolcri imbiancati (espressione che in questa regia ci sta benissimo). La morale di chi, a denti stretti, canta che «questo è il fin di chi fa mal…», ma in realtà tanto avrebbe voluto cedere alle seduzioni del libertino.
Le donne, senza dubbio: Elvira ci prova fino all’ultimo, «l’ultima prova dell’amor mio…» gli canta, invitandolo al pentimento, ma in realtà proponendosi per l’ennesima volta; Zerlina quasi ci riesce, ma poi, pentita, grida allo stupro; Anna, la più timida e insieme la più perversa di tutte (forse) ha vacillato – basta ascoltare il racconto della notte della violenza sfociata nella morte del padre, un racconto che fa acqua da tutte le parti perché i fatti non tornano –, Anna ha vacillato, ma poi ha ritrattato e ora sicuramente si mangia le mani per non aver ceduto a quell’uomo entrato in camera sua «in un mantello avvolto» che in un primo istante aveva preso per il fidanzato, l’insipido Don Ottavio che adesso si deve tenere invece del focoso amante, anche se fa di tutto per rimandare il matrimonio chiedendo «lascia o caro un anno ancora». Ma anche gli uomini (e non è una par condicio per evitare il sessismo) con Leporello che vorrebbe essere un seduttore seriale come il padrone (ma non ce la fa proprio, impacciato com’è e fedele alla moglie che forse Don Giovanni gli ha sedotto) e Masetto al quale sarebbero anche bastati cibo e soldi e magari avrebbe chiuso un occhio sul tradimento della futura sposa. Tutti comportamenti che si meriterebbero l’ammonizione dell’«antichissima canzon» che diche che «questo è il fin di chi fa mal».
Tante sfumature di inferno – e per ognuna ci vorrebbe un titolo emozionale ad hoc, coniato sugli errori di ciascuno dei personaggi. Che fanno vacillare quella morale granitica cantata alla fine del Don Giovanni, il Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart e di Lorenzo Da Ponte che ha inaugurato il cartellone lirico del Maggio musicale fiorentino 2023 – inaugurazione nell’inaugurazione quella della msotra su Franco Zeffirelli al Maggio, allestita per ricordare i cento anni dalla nascita del grande regista fiorentino. Inaugurazione austera, niente sfarzo (anzi qualche jeans e felpe in platea), perché il teatro fiorentino è commissariato dopo l’addio burrascoso, per l’impennata di debiti, del sovrintendente Alexander Pereira. Cartellone ridimensionato dal commissario Onofrio Cutaia. niente Maestri cantori wagneriani (Daniele Gatti dirigerà invece un Falstaff), niente nuova produzione per l’inaugurale Don Giovanni (doveva firmarla David Pountney), ma il ripescaggio di un vecchio allestimento, quello di Giorgio Ferrara che guardando a Kierkegard e alle sue riflessioni sul Don Giovanni mozartiano (proiettate su un grande schermo mentre scorrono le note dell’ouverture), ambienta la corsa precipitosa verso la morte di Don Giovanni in un cimitero. Così siamo dentro una notte dei morti viventi dove tutti i personaggi già all’inizio sono morti, fantasmi che al calar della sera escono dalle loro tombe, condannati a recitare in eterno, in una pantomima sempre uguale a se stessa, la loro storia per ripetere all’infinito che «dei perfidi la morte alla vita è sempre ugual». Salvo poi ricadere negli stessi errori.
Don Giovanni lo dice chiaro, all’inizio dell’opera nella prima frase che pronuncia entrando in scena. «Donna folle indarno gridi, chi son io tu nol saprai…». Lo dice ad Anna, certo, ma lo dice anche a noi che siamo in platea. Perché è sfuggente la natura del personaggio della tradizione popolare, codificato e raccontato da Tirso da Molina e Moliere e messo in musica da Mozart con il libretto prefetto di Lorenzo da Ponte. E anche Ferrara, forse, non coglie appieno la natura del personaggio. Ce ne racconta un aspetto, quello tragico con la sua idea iniziale, che, però, resta tale, non viene sviluppata drammaturgicamente tanto che, se non fosse per la cornice scenografica cimiteriale (la disegnano i premi Oscar Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo) saremmo di fronte a un Don Giovanni nel solco della più collaudata tradizione (costumi di cappa e spada di Maurizio Galante, luci, belle, di Fiammetta Baldiserri). Resta così nelle mani degli interpreti l’incombenza di scolpire e colorare di molte sfumature i caratteri dei protagonisti. Perché tutti sono protagonisti, non ci sono ruoli minori nella partitura mozartiana.
Luca Micheletti, ci riesce benissimo con la sua voce avvolgente e morbida e bellissima (ascoltarla è un piacere anche fisico, non solo per la mente), ideale per il repertorio mozartiano dove la parola è musica, e con il suo carisma scenico, modellato sul repertorio del teatro settecentesco, ma asciugato progressivamente per andare al cuore del personaggio. Così il baritono disegna un Don Giovanni moderno perché pieno di tormenti, ma anche capace di ridere (tragicamente) del suo destino. Ne esce il ritratto di un uomo vero, di carne e sangue, l’opposto del Leporello disegnato, con bella voce e tecnica sicura, da Markus Werba (che canta il ruolo per la prima volta) guardando, tra lazzi e gestualità pronunciata, ai caratteri dei servi della commedia dell’arte. Jessica Pratt è una musicalissima Donna Anna, acuti lucenti e infiniti, pianissimi vertiginosi, giusta drammaticità vocale impressa al personaggio, che il soprano australiano quasi svuota della sua dimensione corporale, terrena, facendone una figura di donna che è già oltre il desiderio, incorporeo fantasma alla ricerca di pace. Che non le può dare Ottavio, al quale il rossiniano Ruzil Gatin offre il suo squillo terso e morbido – lui, come altri, però variano e abbelliscono a piacere la scrittura mozartiana. Pasta antica, bel colore per Anastasia Bartoli che è un’Elvira di carattere (forse un po’ troppo sopra le righe nei recitativi dialogati, ma quello che apre la sua grande aria lascia il segno). Come di carattere è la Zerlina (anche lei debuttante nel ruolo) di Benedetta Torre, brunita nella voce e scattante in acuto e scenicamente. Corretto e ben in parte Eduardo Martinez che è Masetto. Notevole il Commendatore di Adriano Gramigni, potente voce di basso, che arriva dagli abissi e colpisce per bellezza e forza.
Tutti in dialogo con il podio dove c’è Zubin Mehta, che restituisce tutta la perfezione della scrittura mozartiana, sbalzando gli infiniti disegni musicali in orchestra – ottima quella del Maggio, suono compatto, mozartiano, antico. Il direttore indiano, infaticabile e applauditissimo già dal suo ingresso in buca, sceglie tempi solenni e distesi (e il pensiero va al Don Giovanni di Harnoncourt, dilatatissimo, ma rivelatore) per rileggere l’opera come una lunga meditazione sulla vita. La meditazione di un grande vecchio, dove senti la riflessione di chi, forte dell’esperienza accumulata, guarda alla vita con disincanto e saggezza: così i passaggi che raccontano il desiderio di vendetta non sono mai venati di sangue, così la rabbia per la vita che sfugge di mano ha il sapore di una poetica malinconia. Mehta, al suo quarto Don Giovanni al Maggio dal 1990 (l’ultimo nel 2013, dieci anni fa), è perfettamente nel solco della tradizione esecutiva del secondo Novecento (nessun Mozart filologico o ba-rock), ma capace di rivelare ancora una volta la grandezza di Mozart e la profondità della sua scrittura. Capace di arrivare sempre al cuore, di funzionare sempre e comunque (cosa che con altri autori non capita, penalizzati da tempi slentati, azzoppati da direzioni tradizionali… Mozart no, ha una grandezza che va sempre oltre). Funziona se lo rilegge un giovane con piglio deciso e frenesia di vita che si traduce in corse in avanti, funziona se arriva meditativo e pacificato, restituito dalle mani di un grande vecchio del podio come Mehta. Che quasi con un sorriso, lo stesso con il quale alla fine ci guarda Don Giovanni, assolve (e non punisce) il dissoluto. Ribaltando quella morale chiara e limpida che vorrebbe indicarci, ancora una volta, «il fin di chi fa mal…».
Nelle foto @Michele Monasta Don Giovanni al Teatro del Maggio di Firenze