Cilona sul podio e al fortepiano per il Barbiere di Rossini nella versione ironica e moderna di Fanny e Alexander Cast eccellente con Luongo, Roma, Gaudenzi e Montanari
«Amoore e fede eterna sii vegga in voi regnar… in voi regnar… in voi regnaaaaar…». Treno Ravenna-Bologna. Un assonnato sabato mattina di aprile. Quasi non te ne accorgi e sulle carrozze senza pendolari canticchi il rondò finale del Barbiere di Siviglia. Quello che ti mette di buon umore ogni volta che lo senti… Anche se sai benissimo che quella «fede» che il coro (tutto maschile… e dunque portatore di una sola visione di genere, direbbero i bravi dramaturg) auspica per Rosina e Almaviva sarà tutt’altro che «eterna»: perché ci sono in agguato Le nozze di Figaro (anche se quello che cronologicamente è il sequel del Barbiere, Mozart lo ha scritto trent’anni prima del 1816 della partitura di Rossini) con i tentativi del Conte di sedurre la cameriera Susanna, tentativi, però, smascherati da una nuova coscienza femminista.
Si diceva. Treno Ravenna-Bologna. Un assonnato sabato mattina di aprile. Quasi non te ne accorgi e canticchi il rondò finale perché il Barbiere di Siviglia con la sua musica che è un misto di contagiosa allegria e malinconica felicità ti resta addosso ogni volta che lo ascolti. Incroci lo sguardo del vicino di sedile. «Mi scusi…». Lui, però, sorride. «Era per caso all’Alighieri ieri sera?». Inconfondibile pronuncia spagnola che ti fa sussultare, corto circuito inaspettato con il melodramma di Rossini… «C’ero anch’io. Nel pomeriggio i mosaici mozzafiato delle basiliche, la sera Figaro a teatro. Oggi un giro alla Pinacoteca di Bologna e stasera sono già a Barcellona» ti rassicura il gentile compagno di viaggio. Che sa tutto di opera. Sa che «Kaufmann sta cantando Wagner a Napoli: dovevo sentirlo a Monte Carlo, ma ha cancellato». Sa che c’è una Lucia alla Scala dove a maggio sempre Kaufmann canterà Chénier. «Magari farò un salto». A Bologna, appena si aprono le porte del treno, si dilegua tra la folla. Ragazzi con lo zaino. Qualche metallaro nostalgico. Un rider con in spalla lo zaino per le consegne. Famiglie che partono per il ponte. Tanti stranieri nell’Italia multietnica e multiculturale.
Che è l’Italia (e non la Siviglia del libretto di Sterbini ispirato a Beaumarchais) dove Luigi De Angelis e Chiara Lagani ambientano il “loro” Barbiere rossiniano. Un asse veneto-romagnolo (ma anche tosco-marchigiano perché a coprodurre ci sono anche Pisa, Lucca e Jesi) per un nuovo allestimento dell’opera più famosa di sempre (insieme alla verdiana Traviata) perché anche se non sai nulla di lirica non dico un rondò finale – quello di «Amore e fede eterna…» – ma almeno un «Figaro qua, Figaro là…» una volta nella vita lo hai sicuramente canticchiato. Un asse veneto-romagnolo perché il Barbiere ravennate ha debuttato a fine marzo al Teatro Sociale di Rovigo, coprodotto con l’Alighieri (dove è andato in scena con un doppio tutto esaurito e un doppio successo il 21 e 23 aprile) in collaborazione con Fanny & Alexander, la compagnia di ricerca fondata nel 1992 proprio a Ravenna da Luigi De Angelis e Chiara Lagani.
Artisti di casa che firmano, con il loro stile inconfondibile, uno regia, scene e luci e l’altra drammaturgia e costumi di questo Barbiere contemporaneo. Che funziona benissimo, specchio dei tic e delle nevrosi della nostra società: il fissato con il fitness e la corsa, il nerd, il timido, la signora snob che getta plastica e fazzolettini di carta a terra, l’anziano che guarda i lavori e la vecchietta con il deambulatore e gli adolescenti che vivono i primi amori a suon di musica (rock, rap e trap naturalmente). Perché il Barbiere di De Angelis, il Barbiere targato Fanny & Alexander (il marchio di fabbrica è chiaro nelle tende svolazzanti, nel rigore e nel nitore del “set”, nella pulizia del gesto essenziale, mai macchiettistico, ma tragicomico nel raccontare con disincanto la vita, ma anche nell’ironia che scorre sottotraccia al testo), il Barbiere di Fanny & Alexander è il racconto di uno scontro generazionale. I giovani Rosina e Figaro da una parte, i vecchi (che vorrebbero però fare eternamente i giovani e hanno i loro stessi “pruriti”) Bartolo, Basilio e Berta dall’altra. In mezzo c’è il Conte, giovane, sì, ma già contaminato e sicuramente “corrotto” (non dimentichiamoci le Nozze in agguato) da una certa mentalità (che è stata ed è sicuramente quella di Bartolo e Basilio) economico-centrica, dove a muovere tutto è il denaro, che tutto (anche l’amore) sembra poter comprare.
Se Figaro canta «all’idea di quel metallo, portentoso onnipossente…» e non fa nulla per nulla (nemmeno un taglio di barba) perché «delle monete il suon già sento… l’oro già viene, viene l’argento che scende in tasca» per Basilio basta che «vengan danari». E il Conte ha sempre in mano mazzette di banconote. Paga tutti, musicisti (una band rock per la serenata) e Figaro (che alla fine mentre tutti festeggiano il lieto fine conta i soldi che si è guadagnato), suoi complici nella conquista di Rosina, una ragazza moderna ed emancipata che vive con un uomo anziano che vorrebbe sposarla, ma poi sceglie il Conte, più giovane di Bartolo (o forse non così tanto), ma già in doppiopetto e baffo supercurato da manager o politico rampante – e se non fosse che cronaca e bollettini medici suggeriscono rispetto, il pensiero andrebbe a feste eleganti, olgettine, bunga bunga finiti indistintamente nelle aule di tribunali e nei contenitori trash dei pomeriggi televisivi (a proposito Berta stira guardando la tv… come suggerisce di fare una nota conduttrice della tv commerciale).
Scontro generazionale. Ironia sottile della nostra società dove i vecchi guardano con sospetto i giovani, ma in realtà vorrebbero essere (nostalgicamente) come loro. De Angelis ci porta a guardare nelle loro case, spiando le vite degli altri da dietro il buco della serratura. Ne esce un racconto cinematografico, un lungo piano sequenza perché sul palco c’è lo spaccato di un condominio elegante, disegnato da un archistar dove (anche in contemporanea) si svolge l’azione: la bottega di Figaro, moderno Barber shop al (filologicamente esatto) numero 15 sulla sinistra (a mano manca) e con la facciata bianca; sopra un loft dove una band di ragazzi al motto di Music is my drug scritto a spray sul muro prova le sue hit (già dalla Sinfonia che si ascolta a sipario aperto, già in pieno racconto) e dove Berta si introduce di nascosto, spinta dai suoi pensieri impuri su un aitante giovane; e poi la casa di Bartolo, su due piani, il salotto di design con pianoforte a muro e immancabile dispenser di disinfettante (Bartolo è ossessionato dall’igiene, disinfetta tutto – d’altra parte siamo ancora in tempi di Covid) al piano superiore la camera di Rosina, pop e rosa, dove Figaro e Rosina si mangiano una pizza nel cartone consegnata da un rider. Davanti una strada, dove continuamente (forse anche troppo) passano tipi umani a fare da contrappunto (con controscene che a volte sono azzeccate, altre invece rischiano di essere ripetitive e distraenti) alla storia raccontata in musica da Rossini.
Che è restituita con bel gusto, piglio teatrale, passo drammatico e giusta punta di ironia da Giulio Cilona, al suo debutto in Italia. Il ventisettenne musicista (direttore, pianista e compositore) statunitense, attuale kappelmeister alla Staatsoper di Hannover e che da settembre sarà primo kappelmeister alla Deutsche oper di Berlino, guida la Filarmonica veneta e accompagna i recitativi al fortepiano con un’invenzione continua, ironica e colta al tempo stesso, popolare e raffinata: attinge a piena mani da Mozart, accenna a Traviata e introduce il Temporale citando quello drammatico del verdiano Rigoletto. Un Rossini misuratissimo, divertente, ma anche malinconico – bellissimo il tempo lento staccato per l’aria di Berta «Il vecchiotto cerca moglie» che diventa una riflessione patetica sul passare degli anni. Un Rossini in perfetto stile e senza eccessi ba-rock quello di Cilona che, si sente in ogni passo della sua direzione, ha fatto un grande lavoro di concertazione con l’orchestra (abbastanza buona la resa della Filarmonica veneta) e che tiene bene le fila con il palcoscenico (ma il Coro lirico veneto non è così impeccabile) sul quale si muove un cast musicalmente impeccabile e perfetto per la lettura registica.
A guidarlo Alessandro Luongo, un Figaro musicalissimo, trascinante e coinvolgente senza andare mai sopra le righe. Personaggio che il baritono rende modernissimo, spazzando via dal suo canto, intelligentemente calibrato e cesellato, i vezzi e gli eccessivi ammiccamenti di certa tradizione (che avrebbe fatto a pugni con il racconto moderno che si vede in scena). Voce bella e a fuoco tanto nei passaggi di coloratura quanto in quelli più lirici quella di Luongo, messa a servizio di un personaggio a tutto tondo, che il baritono ha interpretato tante volte (questa estate a Macerata la resa non era stata la stessa… ma non certo per colpa sua). E ci sono tanti Almaviva nella pur giovane (ma lanciatissima) carriera di Matteo Roma, voce di tenore tra le più belle di oggi, voce che ha dentro il colore antico e la sapienza preziosa della tradizione, voce che è avvolta da una luce capace sempre di sorprendere. Anche questa volta. Perché Roma restituisce un Almaviva di spessore, risoluto e presentissimo con una voce che sta evolvendo verso quella di tenore lirico (ascoltare su YouTube la sua Gelida manina o la sua Paterna mano per credere), ma capace ancora di piegarsi alle agilità rossiniane. Un fiume di voce sul quale il tenore lavora quasi per sottrazione con un alleggerimento continuo dello strumento senza che si perda una nota o una sfumatura di un canto multiforme.
Moderna e risoluta anche la Rosina che Mara Gaudenzi, interprete musicalmente intelligente e scenicamente efficace, colora del suo timbro brunito e avvolgente. Centri belli e acuti aguzzi, stile e agilità a fuoco per il mezzosoprano di Cattolica, tra le voci più interessanti e convincenti uscite dall’Accademia del Teatro alla Scala – e proprio alla Scala a settembre il mezzosoprano sarà ancora Rosina. A Milano (e non solo) Giovanna Donadini è stata tante volte Berta; lo è ancora una volta ora con un’interpretazione toccante e malinconicamente stralunata. Omar Montanari, voce limpida e capace di restituire l’ironia della parola rossiniana, fa di Bartolo una maschera tragica, lavorando ancora una volta per togliere dal personaggio rossiniano la polvere caricaturale della tradizione senza rinunciare a una caratterizzazione marcata e incisiva e moderna (seguendo anche la lettura registica) del vecchio che vuole sposare una ragazza giovane per assicurarsi la sua dote. Arturo Espinosa è Basilio, Francesco Toso Fiorello.
Chi ha vinto (?!) conta i soldi mentre i ragazzi del quartiere lanciano in cielo palloncini colorati. Segno di speranza nel futuro che De Angelis mette come inquadratura finale del Barbieredopo averci raccontato storie di personaggi che abitano un condominio di una qualsiasi delle nostre città. Personaggi che, ascoltando la musica di Rossini, osserviamo, spiando le vite degli altri. Come quelle che capita di incrociare in treno, un assonnato sabato mattina di aprile.
Nelle foto @Vaentina Zanaga Il barbiere di Siviglia