Il grande attore sale sul palco del Teatro Costanzi di Roma voce recitante per Manfred di Schumann con Mariotti
Uno sguardo da lontano. Poi un abbraccio. «Carico di affetto. Quello che Michele mi ha dato alla prima prova, non una semplice stretta di mano, ma un abbraccio intenso. E mi sono sentito subito a casa». Glauco Mauri e Michele Mariotti non si erano mai incontrati. «Eppure la mia mamma Pina era l’infermiera di casa Mariotti a Pesaro. Infermiera di giro, che faceva punture, prelievi del sangue… amica del padre di Michele, il dottor Gianfranco. Amica della zia Paola, mia carissima amica, con la quale ci sentiamo spessissimo, ancora oggi». A casa. Perché anche Glauco Mauri, come Michele Mariotti, è nato a Pesaro. Nel 1930. «Il 1 ottobre saranno 93 anni» dice il grande attore che giovedì 20 aprile sale «per la prima volta» sul palco del Teatro dell’Opera di Roma. Mauri sarà la voce recitante di Manfred, il poema drammatico di Robert Schumann su testo di George Byron – appuntamento alle 20, diretta su Radio3. Mariotti dirige orchestra e coro dell’Opera. «E con me in scena – racconta Mauri – ci sono sei allievi, tre ragazze e tre ragazzi, dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico: in prova ho parlato loro di me, del teatro e ho trovato in loro un fresco entusiasmo».
Come dà voce, Glauco Mauri, alle parole di Byron e alla musica di Schumann per raccontare Manfred, una grande parabola sulla solitudine, ma anche sulla vita e sull’amore?
«Mi piace citare una frase dello stesso Byron: “Abito la mia disperazione – e vivo – e vivo per sempre”. Manfred è uno che vive per sempre questa disperazione. E vive l’ossessione di un grande amore, un amore inventato, quello per Astarte al quale Manfred dice: “Mi amavi troppo, così io te. Non potevamo torturarci a vicenda”. È uno dei passaggi più commoventi di Manfred perché racconta la certezza che l’amore è fondamentale per la vita dell’uomo. Certo, parlare di Manfred è difficile: per un attore un personaggio poliedrico e dai tanti colori è facile da interpretare, offre molti spunti, l’antieroe di Byron, invece, ha colori crepuscolari, oscuri, perché vive nell’ombra. La vita è piena di incertezze e Manfred è un personaggio solido solo nella sua disperazione».
Detta così viene da pensare ai tanti personaggi che lei ha portato in scena dal 1953, l’anno del suo debutto: gli uomini raccontati da Shakespeare, Beckett e Dostoevskij.
«Questi sono i tre autori che mi hanno aiutato a vivere. Shakespeare mi ha insegnato la grandezza dell’uomo, Beckett che la farsa del vivere si può trasformare in tragedia e la tragedia in farsa, Dostoevskij è quello da cui ho più imparato, mi hai insegnato che prima di giudicare bisogna comprendere.. E questa è la cosa più difficile della vita».
Si è mai hai sentito solo in 92 anni?
«No, mai. Ho scoperto nella mia vita una cosa che è forse ancora più bella e importante dell’amore, l’amicizia. L’amicizia che ho coltivato nel teatro, dove ho incontrato persone magnifiche. E questo sentimento mi aiutato a non essere mai solo».
Le capita di fare bilanci della sua vita?
«Non amo farlo. L’unica certezza che mi ripeto spesso è che non ho mai fatto del male a nessuno. Ora sono al tramonto della mia vita, una vita lunga, però ho la grande gioia di poter portare in scena ogni sera i personaggi del teatro. I muscoli con l’età si atrofizzano, tengo invece allenati i muscoli del cervello con i grandi testi che porto in scena».
E cosa le dà la forza, a 92 anni, di salire ogni sera sul palcoscenico?
«Ho chiarissime le emozioni che vivo quando si apre il sipario, non cerco, però, di spiegarle perché non tutto va spiegato. Amo il teatro perché mi ha dato la gioia di conoscere la vita e grazie al teatro io ancora oggi mi sento dentro la freschezza di un bambino che guarda la vita e il mondo con l’entusiasmo della prima volta. Ancora oggi, a 92 anni di età e con settant’anni di carriera sulle spalle».
Quale personaggio le è rimasto più addosso?
«Sicuramente Macbeth, un personaggio sublime. Poi Martino Lori, il protagonista di Tutto per bene di Luigi Pirandello, testo che insieme alla Tempesta di Shakespeare è quello che ho più replicato in giro per l’Italia. Portare in scena questo personaggio mi ha fatto comprendere cose di me e della mia vita che non conoscevo, mi ha fatto capire meglio me stesso, nel bene nel male».
Come è cambiato il teatro in questi settant’anni?
«Molto. E non sempre in meglio. Sono convinto che la tradizione serva per continuare: i grandi testi sono il materiale attraverso il quale andare avanti per fare cose nuove. Oggi, però, capita che per andare avanti si facciano cose strane… lo dico essendo uno che ha frequentato le cosiddette avanguardie e che è stato il primo Krapp di Beckett in Italia. Ma sono convinto che non stia necessariamente qui il progresso».
La sua è una delle poche compagnie private rimaste in Italia. Compagnia privata, ma con una funzione fondamentalmente di teatro pubblico per i testi che porta in scena e per il grande coinvolgimento dei ragazzi.
«Per le compagnie private la fine è all’orizzonte. Gli stabili stanno in piedi con compagnie fisse e scambi tra loro mentre come compagnie private dobbiamo fare tante piazze. Questo oltre che essere faticoso fisicamente è anche costoso, penso solo alle cifre che servono per pagare i camion che trasportano le scenografie. Capita che a volte andiamo in alcuni teatri lavorando in perdita, rinunciando alla paga, ma facendo lavorare chi è con noi».
E cosa la spinge a girare ancora l’Italia con il suo carrozzone?
«Vede, le compagnie private ti danno una grande libertà: io nel 1981 ho deciso di rifiutare offerte degli stabili, anche molto vantaggiose a livello economico, perché ho voluto fare ciò che volevo, scegliere testi e autori che volevo interpretare. Si dice che la fortuna aiuta gli audaci, ma penso che sono gli audaci che costruiscono la loro fortuna. Io ho voluto prendermi i rischi di questa grande libertà e non tornerei mai indietro».
Chi le manca?
«Mia mamma Pina. Non ho conosciuto il mio papà perché è morto quando io avevo otto mesi e i miei fratelli Aldo e Raoul 10 e 8 anni. Mia mamma non si è mai risposata e ci ha cresciuti facendo l’infermiera di giro. Aveva l’intelligenza nella vita. Grazie a lei ho conosciuto il compositore Riccardo Zandonai. Era il 1944 c’era l’oscuramento per la guerra. Spesso di notte a casa nostra arrivava il suo autista e ci portava nella sua villa a Trebbiantico, sui colli pesaresi perché la mamma doveva curarlo. Io stavo nel salotto dove una signora molto gentile mi offriva cioccolata e biscotti. Una volta vidi arrivare un uomo piccolo, magro e con i capelli grigi sorretto dalla sua cameriera e dalla mia mamma: era Zandonai che mi disse: “Glauco è proprio un bel nome”. E poi mi chiese scusa perché spesso mi portava via la mamma. Fu uno degli incontri più emozionanti della mia vita. Lo porto ancora nel cuore».
Nelle foto @Pablo Esparza Opera di Roma Glauco Mauri prova Manfred
Intervista pubblicata su Avvenire del 20 aprile 2023