Marco Alibrando dirige il popolare melodramma di Puccini che il regista Gianmaria Aliverta porta nella Milano da bere Protagonisti i vincitori del concorso di VoceAllOpera
Oggi potrebbero essere quei ragazzi che stazionano in tenda, davanti a una qualsiasi università italiana, a protestare contro il caro affitti. Hanno una passione per lo studio. Per la letteratura e la musica. Anche per la politica, quella militante. Amano, magari amori “irregolari” perché senza regole precise, che durano il tempo di una sessione d’esame, ma con l’illusione di essere eterni. Assomigliano a Mimì e Rodolfo. A Musetta e Marcello. Quelli raccontati in musica da Giacomo Puccini che ha dato universalità (senza tempo) a quei ragazzi catturati in scatti, in quadri di vita, da Henri Murger nelle sue Scènes de la vie de bohème (riadattate in forma di melodramma da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa regalandoci frasi che sono diventate proverbiali… «che gelida manina…», «dammi il braccio mia piccina…», «sono andati, fingevo di dormire…» e così via). Perché ogni tempo ha avuto e ha i suoi bohémiennes.
Gianmaria Aliverta, nella Bohéme messa in scena con VoceAllOpera allo Spazio Teatro89 di Milano (due repliche una diretta da Marco Alibrano, l’altra da Nicolò Jacopo Suppa), prova a raccontare i bohémienne degli anni Ottanta della Milano da bere e dei primi fast food all’ombra della Madonnina, i paninari (anche se non erano squattrinati perché spendevano centinaia di mila lire per Timberland, Moncler, jeans Americanino, cinture del Charro…, ma forse anche i ragazzi di Puccini erano un po’ figli di papà). Così niente soffitta e niente quartiere latino parigini, ma un appartamento in affitto in un condominio di periferia della metropoli, illuminato dalla luce di un televisore che mal riceve il segnale e i tavolini di Burghy (la risposta italiana di allora ai vari Mac, Wendy… statunitensi). E niente tisi perché Mimì che «è una civetta che frascheggia con tutti», modo elegante di Rodolfo per dare della poco di buono alla sua ex, si becca la tbc degli anni Ottanta, l’Aids, conseguenza di sesso non protetto e scambio di siringhe tra tossici. E di quello muore nello spettacolo di Aliverta – come succedeva nella rivoluzionaria Bohéme, messa in scena proprio negli anni Ottanta e in quelli ambientata, di Ken Russel, con Mimì stroncata da un’overdose.
Suggestione che ci sta e che funziona. Anche perché funziona in Puccini che è riuscito a dare universalità al suo racconto – poco importa allora il manicotto (accessorio ormai fuori moda) o il riparo che Musetta cerca «perché la fiamma sventola». Importa la verità del racconto che ti riporta indietro a un epoca dove ci si credeva invincibili, impuniti, dove si pensava (o non si pensava, perché lo si faceva e basta) i poter vivere al di sopra delle proprie possibilità. Salvo poi doversi scontrare con i limite che era la morte, l’Aids, la malattia mentale… perché tanti nodo che oggi vengono al pettine sono forse più figli degli anni Ottanta che del famigerato Sessantotto.
Ci pensi vedendo la fine che fanno i personaggi di Puccini mimetizzati da Aliverta tra i paninari. Ragazzi inconsistenti, incapaci di prendersi le proprie responsabilità, uomini mancati (non lo saranno mai, non lo sono oggi quando i quindici/ventenni di allora dovrebbero essere i cinquantacinquenni classe dirigente del paese) che di fronte alla morte scappano, perché tutti (tranne uno Schunard rannicchiato in un angolo con il suo inseparabile stereo a cassette in preda a convulsioni e allucinazioni) se la danno a gambe, lasciando Mimì, morta sul divano – pugno nello stomaco che il regista modella pressoché identico (dandogli quasi il sapore di un tributo) sul finale della Bohéme bolognese del compianto Grahm Vick.
Si fumano spinelli nell’appartamento di Rodolfo e Marcello, che sono gli “atti” della commedia che Rodolfo “brucia”, meglio accende per scaldarsi. E l’editoriale che il poeta deve scrivere (la scusa che lo porta a restare in casa dove arriverà Mimì a chiedere di accendere la candela perché è saltata la corrente, tanto che il televisore di Rodolfo si spegne) l’editoriale è l’ennesimo spinello che Rodolfo fuma davanti a un telefilm che potrebbe benissimo essere Happy Days o una puntata di Cuore e batticuore. Riferimenti anni Ottanta – tanti interpreti, soprattutto tra i cantanti, non li hanno vissuti, altri del team artistico, invece ci sono nati e ne conservano il ricordo, tra mito (sempre legato alle cose dell’infanzia) e leggenda (si stava meglio quando si stava peggio). Come il Burghy con i suoi tavolini affacciati sulla piazza – dove un clochard evoca come un miraggio le «prugne di Tours» e dove un inquietante pagliaccio alla It seduce (allungando sulla scena di festa l’ombra della pedofilia) i bambini (eccellenti le Voci bianche del Comunale di Bologna) con l’illusione di un palloncino. O come i tavoloni di una mensa dei poveri dove Aliverta ambienta il terzo quadro, quello della Barriera d’Enfer, rendendo il racconto ancora più duro – e se l’essenzialità della scenografia di Francesca Donati aiuta l’asciuttezza della narrazione, certa eccessiva caricaturalità impressa a figure di contorno rischia di distrarre l’attenzione dal flusso scarno e ininterrotto del racconto musicale.
Che è già di quelli che fanno male. Perché la musica di Puccini, con le sue melodie struggenti (alcune, certo, ruffiane) intrise di malinconia e sentimento, racconta la fine della giovinezza, la fine dei sogni e delle illusioni decretata dalla morte. Marco Alibrando la dirige con grande sensibilità e gusto, riuscendo a sbalzare tutti i colori e i sentimenti che il compositore toscano mette in Bohéme. Alibrando ha braccio saldo nel guidare (dopo una manciata risicatissima di prove) l’Orchestra Senzaspine: organico ridotto, ma mai hai l’impressione che sia una Bohéme in minore grazie agli impasti di suoni che Alibrando chiede e ottiene e al bell’equilibrio con il palcoscenico, pur in una condizione logistica non ideale: leggii sistemati al lato del palco con l’effetto, per gli spettatori che sono in platea, di essere avvolti dalla musica, ma con l’incombenza per il direttore di essere sempre ancorato ai cantanti.
Che sono della fucina di VoceAllOpera, alcuni vincitori dell’ultimo concorso Giancarlo Aliverta, altri già scritturati nelle produzioni low coast dell’associazione (senza scopo di lucro) milanese. Giuseppe Infntino ha pasta di voce bellissima, squillo luminoso e tecnica (certo, da migliorare sempre per conservare a lungo lo strumento vocale) sicura per rendere al meglio il personaggio di Rodolfo. Alessia Panza è una Mimì più dolente che spensierata, Aliverta la vuole punk e lei, già dal suo ingresso, colora il personaggio della fioraia di ombre inquiete. Rocio Faust è una vivace e presentissima Musetta. Alfonso Michele Ciulla piega la sua naturale vena comica alla tragica quotidianità di Marcello. Francesco Bossi un puntuale Schunard, Yuri Guerra un non sempre a fuoco Colline. Dietro la maschera inquietante del pagliaccio/Parpignol c’è Domenico Tagliavini, Luca Gallo disegna con tratti da vaudeville Benoit e Alcindoro.
Tutti usciti da un immaginario anni Ottanta. Mitizzato da chi lo ha vissuto essendo ragazzo, leggenda (ma poi non più di tanto) per chi lo conosce solo nei racconti dei genitori o in quei video che su YouTube ci mostrano, tra spezzoni tv e interviste improbabili prese da tg e documentari, come eravamo. Tipi strani che, un secolo prima Puccini ha saputo raccontare con la sua musica.
Nella foto @Mario Mainino/Concerto d’autunno Bohéme allo Spazio teatro89