Der fliegende Holländer allo Staatenhaus dell’Oper Köln trasformato in una nave dal regista Benjamin Lazar François-Xavier Roth sul podio della Gürzenich Orchester
Le procedure di imbarco non ci sono state. O meglio, sì. Ci sono state, ma non come accade in un porto di mare, quando devi prendere una nave. È bastato il biglietto con stampato sopra il logo dell’Oper Köln e l’orario di inizio (di imbarco), le 18. E poi una breve fila, ordinata, sulle scale di metallo. Come quelle di una nave. Stesso rumore tagliente dei passi. Ma queste scale portano sulla gradinata della sala grande dello Staatenhaus. Poltrone, comode, dove sedersi. Eppure è un attimo ed eccoci tutti sulla nave dell’Olandese volante. Che è già lì, materica e metallica, prima ancora che le luci si abbassino. Nessuna musica ad evocarla, nessuna apparizione del vascello (l’altro titolo dell’opera romantica wagneriana, non per nulla, è il Vascello fantasma) dalle nebbie dei mari del Nord. La nave c’è già, presenza ingombrante e imponente. E noi ci siamo sopra, su uno dei ponti. Insieme a Senta a Erik a Daland. La nave dell’Holländer dove sono (siamo? dato che ci siamo sopra anche noi) tutti già morti quando inizia la musica. Quella densa, intrisa di nebbia e umido e salsedine, impastata di paura e inquietudine, ma anche di malinconica poesia, la musica della lunga ouverture dell’Holländer, il Der fliegende Holländer di Richard Wagner.
Senta è già lì che ci aspetta, sembrerebbe un fantasma, ma in realtà presenza inquieta che, in attesa di essere traghettata verso un altrove ignoto (un altrove del corpo e dell’anima), si aggira sul ponte della nave, la grande nave che ci accoglie. Una nave che non ha vele o alberi. Perché, forse, non deve navigare verso nessuna meta, immobile limbo tra un al di là e un al di qua, purgatorio sulla terra (o forse, meglio dire, sul mare) fatto di container e passerelle. Il container a destra è azzurro, colore che prefigura il paradiso. Quello a sinistra, il castello di container a sinistra che alla fine si spalancherà inondandosi di luce, è rosso, rosso che nell’immaginario collettivo è il colore delle fiamme dell’inferno. In mezzo il grigio. Colore e sapore indefinito. Il grigio dell’attesa. Il grigio del girare a vuoto aspettando che arrivi qualcuno a tirarci fuori dalla palude. Noi, come Senta. Che sogna l’amore. Che ama un uomo ideale e idealizzato, come i terroristi della mala degli ani Settanta, belli e dannati. Senta ama un marinaio, un avventuriero, un trafficante di armi di cui parlano tutti i giornali, giornali che lei ha collezionato appendendo ritagli di articoli sulle pareti metalliche del suo azzurro angolo di paradiso. Lui, l’Holländer che non ha nome, ma è solo un aggettivo, l’Olandese appunto, personaggio di un romanzo criminale che si nasconde tra i container di una nave ancorata in un porto, la base dei suoi traffici.
Quella nave che nella Saal 1 dello Staatenhaus, la fiera sulla riva del Reno, sede temporanea dell’Opera di Colonia in attesa della riapertura del teatro di Offenbachplatz, ha preso il posto del palcoscenico. L’orchestra sta sottocoperta, nel ventre della nave, inglobata dalla scenografia ideata e costruita ad hoc per questo Der fliegende Holländer, nuova produzione dell’Oper Köln di Hein Mulders – e lo spazio insolito dello Staatenhaus accende la fantasia e offre la possibilità di sperimentare nuove soluzioni registiche e musicali (e il canto con questo assetto insolito, diciamolo subito, ci guadagna). Titolo pasquale con la bacchetta del direttore musicale François-Xavier Roth e la regia di Benjamin Lazar, Der fliegende Holländer (la versione in forma di concerto, sta girando tra Aix-en-Provence e Parigi) è in cartellone nei giorni di Pasqua, che vuol dire Pasqua e anche tempo pasquale, perché in Germania le festività civili e religiose si “onorano” anche con la musica, con titoli che abitano il tempo presente del qui ed ora: in questo tempo pasquale Passioni di Bach, oratori di Haendel, Wagner a tema, Strauss riflessivo-esistenziali… per dire, mai si sognerebbero di debuttare con un melodramma buffo nella Settimana Santa. Ma questa è un’altra storia.
Quella che Benjamin Lazar racconta mettendo in scena Wagner a Colonia – e l’Holländer è stato l’ultimo titolo andato in scena nel 2012 nella sala di Offenbachplatz prima che chiudesse per i (lunghi e prolungati) restauri che proseguono ancora oggi (orizzonte è il 2024) – è una storia di anime perse. Anime inquiete in un mondo che è il nostro, immerso in un limbo di incertezza – Lazar non evoca la pandemia, la guerra, la crisi economica, ma queste presenze le senti sottopelle. Anime perse, anime inquiete come, certo, voleva il compositore tedesco mettendo in musica nel 1842 per Dresda la leggenda nordica del capitano della nave condannato a vagare in mare, sino al giorno del giudizio (si parlava di inferno e paradiso…), e a sbarcare a terra, nel bel mezzo di una tempesta, ogni sette anni per cercare una donna che gli prometta amore eterno, salvandolo dalla dannazione. Racconto del terrore, l’Holländer, racconto di paura, infestato di fantasmi. Che non ci sono, però, sulla nave di Lazar. O meglio, sono nella mente dei personaggi. E nei riti tribali che si compiono per propiziare il domani. Nave, quella immaginata dal regista, dove tutto è concreto, materico. Dove tutto ha uno spessore, una consistenza. La senti, quasi, la fredda lucidità del metallo dei container o la calda ruvidezza della lana della giacca di Senta, della giacca di Dalan, delle giacche dei marinai (scene e costumi, molto realistici e belli nella loro verosimiglianza, sono di Adeline Caron).
Materico, concreto come la musica di Wagner che esce dal ventre della nave. Ti pare di toccarla negli impasti sonori di ottoni e archi. La sbalza, al di là di facili wagnerismi, François-Xavier Roth alla guida della magnifica Gürzenich Orchester di Colonia. Niente cascate di suono a tutta forza, niente turgori di ottoni o di soprani e tenori a tutto acuto, ma sciabolate di suono che illuminano di luce tagliente e sinistra il racconto, ripiegamenti intimi e umanissimi che si intrecciano a momenti da capogiro collettivo (eccellente la prova del coro dell’Oper Köln preparato da Rustam Samedov) dove le credenze popolari diventano religione laica alla quale aggrapparsi – il fantoccio di una donna che alla fine brucerà è un retaggio di riti pagani che, a loro modo, inquietano. E poi squarci di inaspettata poesia. Nel canto e negli echi sinfonici che Roth mette nella sua lettura della partitura, senza rinunciare a imprimere un passo teatrale serrato al racconto dell’Olandese. Holländer che si ascolta tutto d’un fiato, due ore e mezza senza intervallo – ed è giusto così per non interrompere il flusso del racconto e il precipitare emotivo degli eventi – che passano rapide. La musica racconta l’attesa. Febbrile, irrequieta attesa di Senta che si costruisce, con quei ritagli di giornale che ha collezionato, l’immagine di un uomo ideale. Perché, diceva Dostoevskij, «alcune persone inventano avventure e interi romanzi e inventano la vita per vivere almeno come desiderano», squarcio di verità che ci suggerisce la drammaturgia discreta di Svenja Gottsmann che restituisce un Holländer che è un thriller psicologico, vicino, per estetica, nella lettura di Lazar, al cinema di Bergman.
Tutto ruota intorno a Senta. Attende l’Olandese. Vorrebbe che quell’uomo dannato, trafficante di armi, arrivasse presto e la portasse via. Magma nero della sua anima. Così l’amore di Erik può attendere. Può attendere una vita tranquilla. Perché – e qui la drammaturgia ci indica Anton Cechov – «la vita di un essere umano si svolge nel contorto, come sotto il velo della notte… E ogni esistenza è un mistero».
E c’è Checov nella lettura di Lazar, c’è quell’attesa che attraversa tutti i racconti dello scrittore russo. Attesa che avrà un esito inaspettato. Perché l’Olandese arriva, con il suo carico di inquietudine. Ma di fronte a ciò che ha sempre sognato, Senta, pur promettendo fedeltà all’uomo, sceglie di non scegliere, di non stare con Erik, ma di non seguire nemmeno l’Olandese. Che sarà condannato (nel libretto Senta, gettandosi in mare, consente al suo Holländer di veleggiare verso il paradiso) ad essere ancora un criminale. E lei se ne andrà, scomparendo nel ventre della nave, condannata, meglio, dannata, ad essere una donna insoddisfatta e inquieta, prigioniera di un limbo dove tutto è destinato a ripetersi in eterno. Come in quel rito, tribale e crudele (perché si brucia una donna, un manichino, certo, ma l’intento è quello dei sacrifici umani propiziatori), del rogo del fantoccio, preparato per tutto il tempo dal popolo e da Mary, celebrato alla fine, mentre Senta se ne va.
C’è Checov (e c’è anche Bergmann) nell’interpretazione, tutta psicologica, di Ingela Brimberg (che nella vita ha studiato davvero Psicologia, a Stoccolma). Il soprano svedese mette una verità inaspettata nel disegnare un personaggio che appartiene ad una leggenda, ma che qui diventa reale e concreto: ritratto di tante donne quello che la Brimberg fa di Senta, una femminista che rivendica il suo ruolo, il suo diritto di scegliere in una società che vorrebbe (vuole) bruciare la donna nuova (il fantoccio è coperto di fiori primaverili) sul rogo. Lo fa. E Senta, che ha la voce ancora bella e musicalissima nonostante i segni del tempo (che rendono, però, ancora più affascinante e vero il personaggio) della Brimberg, se ne va. La guardano, attoniti, il padre Daland, che è un puntuale Karl-Heinz Lehner, e Erik al quale Maximilian Schmitt offre la sua voce bella, il suo squillo luminoso, la sua tecnica infallibile; il tenore tedesco (che compare raramente in opere, preferendo concerti e oratori), lontano da eroici wagnerismi che vogliono il canto dal forte in su, disegna un personaggio intimo e ripiegato sul proprio dolore, per l’amore respinto. James Rutherford è l’Olandese del titolo, baritono chiaro (e anche qui le convenzioni wagneriane – piacevolmente e giustamente – saltano, nella lettura proposta da Roth) che fa dell’Holländer un personaggio terreno, concreto con un canto minuzioso e cesellato. Dalia Schaechter e SeungJick Kim, artisti dell’ensemble dell’Oper Köln, sono Mary e lo Steuermann. Voci che ben si impastano con l’orchestra e, cantando spesso in primo piano, arrivano nitide in platea.
Loro e noi, sulla nave dell’Holländer. Dalla quale è tempo di sbarcare. Nave che non è mai partita. E non è mai attraccata. Limbo immobile, specchio di certa nostra società. Dalla quale occorre scendere. Per vivere quell’altrove ignoto e bellissimo che è la vita.
Nelle foto @Karl e Monika Forste Der fliegende Holländer all’Oper Köln