Alla Staatsoper funziona ancora la regia del ’79 di Dresen per l’opera di Cajkovskij con le belle scene di Herrmann Protagonisti Ruzan Mantashyan e Alexey Bogdanchikov
Il sapore che avverti, avvolto dal rosso e dal bronzo e dall’ottone e dal legno della sala della Staatsoper di Amburgo – stile inconfondibile anni Cinquanta dal fascino austero e a suo modo vertiginoso – il sapore che avverti è quello dell’aria impregnata di freddo. Quella di un gelido mattino di inverno che il riscaldamento globale (ah, forse ha davvero ragione Greta Thunberg…!) ti ha fatto dimenticare che sapore ha. Aria che ti entra dentro i polmoni e ti stringe il cuore come una mano che si chiude in un pugno di gelo. Aria che ti avvolge con i vapori che salgono dal terreno pesante di umidità, sollevati in alto da un debole raggio di sole. Aria umida. Aria opaca, che sfoca i contorni delle figure e te le fa vedere come fantasmi che fluttuano nel vuoto (quasi danzando), quella che incombe sulla scena più drammatica (e più iconica) dell’Evgenij Onegin di Petr Il’Ic Cajkovskij, il duello tra Onegin e Lenskij. Scena (questa volta fisica, quella che vedi sul palco) vuota, solo un fondale grigio che si confonde con la nebbia che sale dal terreno.
Poesia per immagini. Poesia per sottrazione. Perché per raccontare un’anima svuotata di senso non serve nulla. Basta un gesto, un colpo di pistola e un corpo che crolla a terra. Basta un movimento, quella camminata di Onegin – che poi sono solo tre passi, niente di più – in direzione del proscenio (e quindi di noi che stiamo in platea) quasi a rompere la quarta parete, a dare profondità a una scena sino ad allora bidimensionale. Perché lì, in quei tre passi che rompono il silenzio (un silenzio per immagini, in questo caso) c’è il grido di dolore di un uomo che ha appena ucciso un amico, l’amico più caro. Futili motivi, direbbe oggi un tribunale condannando senza appello l’omicida. Ma al tempo – siamo nella Russia del 1820 raccontata da Aleksandr Puškin – i conti si regolavano con i duelli. Anche i conti d’amore. Lo si faceva, spesso, in un’alba livida e abbagliante di bianco.
Aria umida. Aria opaca. Aria che stordisce. Come stordiscono, se rivisti in quella vertigine che è il dormiveglia tra la vita e il sogno (o tra la vita e la morte), i ricordi. Ricordi di un amore (che diventa poi dolore) non detto. Tenuto dentro. Congelato nel freddo dell’anima per la paura di lasciarlo libero, di lasciarlo respirare e riscaldare da un timido raggio di sole. Quel sole che non illumina l’alba di Onegin, mentre lui cammina verso noi e cerca di lasciarsi alle spalle il cadavere di Lenskij. L’amico che ha ucciso. Uccidendo, allo stesso tempo, la sua gioventù, la sua ultima possibilità di riscattarsi. E di dire quell’amore che non ha mai detto, o meglio, che non ha mai voluto dire. Perché è tutto qui il senso più profondo (drammatico, attuale, che ci fa paura perché può dirci tanto di noi) di Evgenij Onegin – titolo modellato sul personaggio a dire che è lì il centro del racconto – da Aleksandr Puškin. Storia di un uomo che è incapace di amare. O meglio, che ha paura di farlo. Che indossa una maschera che aderisce fin troppo al suo viso. Tanto che, quando cercherà di togliersela, sarà troppo tardi. Il tempo passato non può tornare. E dopo anni sarà Tatjana, la donna che in gioventù ha deriso ributtandole in faccia il suo amore, a respingerlo. Seppur a malincuore. Seppur soffrendo.
Vorresti accarezzarlo (per consolarlo) mentre è lì accoccolato su una sedia, in un angolo del palazzo del principe Gremin (l’uomo che Tatjana ha sposato, forse, per dimenticare Onegin), stanze vuote che sino a poco tempo prima erano piene di musica e danze. Distrutto Onegin. Vuoto. Annichilito. Resta solo il rimpianto. Certo, prima, dopo il tragico duello, mentre rompeva la bidimensionalità della scena venendoti incontro per chiudere aiuto, avresti voluto scuoterlo, prendendolo per le spalle, in quel momento di disperazione. Per dirgli: «Apri gli occhi». Lo avresti scosso anche prima (e forse schiaffeggiato) quando, con un gesto secco ha restituito a Tatjana la sua lettera, scritta dalla ragazza con dolore, con sudore in una notte insonne, per dire, per gridare, l’amore. Lui, però, quell’amore lo ha rifiutato. Tra gli alberi di un giardino di campagna dai quali alcune donne avevano raccolto frutti (inesistenti, immaginari nella finzione del teatro), inerpicate su scale di legno ad altezze vertiginose. In una scena realistica, non perfetta (una rete arrugginita che circonda il giardino, alberi dai rami non potati) e quindi ancora più vera.
Capolavoro di verità e poesia, come tutte le altre sei scene (perché il capolavoro di Cajkovskij è fatto di sette quadri, sette frammenti di vita) di questo Evgenij Onegin alla Staatsoper di Amburgo, di Karl-Erns Herrmann. Tocco cechoviano – la veranda tutta in legno di casa Larin del primo quadro è bellissima, la stanza di Tatjana è un quadro surrealista, il giardino ti cattura nella sua verità sporca di vita, la sala dove si festeggia il compleanno di Tatjana è claustrofobica, il paesaggio del duello spettrale e il palazzo Gremin è prima impeccabile, ma poi, quando la tempesta dei sentimenti si è abbattuta sui protagonisti, diventa un campo di battaglia dopo l’assalto con sedie rovesciate e lampadari a terra. Tocco poetico e rarefatto e grondante malinconia, per questo spettacolo con la regia di Adolf Dresen datato 1979 (a riprendere la regia è Petra Müller). Incredibile essere in platea oggi ad Amburgo per questo Evgenij Onegin (in Germania nessuna censura della cultura russa ad un anno dall’attacco di Mosca a Kiev) e pensare che quarantaquattro anni prima e novanta recite fa il pubblico tedesco di una Germania ancora divisa dal Muro applaudiva per la prima volta questo spettacolo, ancora perfettamente funzionante – e non può non venirti in mente la versione perfetta della pucciniana Bohème di Franco Zeffirelli.
Scene di Hermann (scomparso nel 2018, mentre Dresden è morto nel 2001), costumi di Margit Bárdy (lei c’è ancora, novantaduenne) che spostano l’azione all’alba del Novecento. Per raccontare, alla Cechov, appunto, i frammenti di vita che Cajkovskij, definendole proprio «scene liriche», mette in musica ispirandosi ai quadri tratteggiati da Puskin nel suo romanzo (libretto dallo stesso Cajkovskij insieme al fratello Modest e a Konstantin Šilovskij). E così vanno presi. Così arrivano sul palco della Staatsoper. Scene chiuse in sé, raccontate ciascuna come un lungo piano sequenza – e alla fine il sipario che cala è un andare a nero cinematografico che prepara la scena successiva. Quadri tenuti insieme dalla musica di Cajkovskij. Bella da togliere il fiato. L’ascolti e fai sintesi. L’ascolti e alla fine ti si compone chiaro il quadro complessivo di una vita spericolata sul filo dei sentimenti, raccontati con una potenza dirompente e una verità sconvolgente dal musicista russo.
Musica che nella lettura di Lidiya Yankovskaya arriva, però, fiacca, debole, quasi senza la forza che Cajkovskij le ha messo dentro. Lettura con il fremo a mano tirato per la direttrice d’orchestra russo-statunitense che guida a trenta all’ora una Ferrari come la Philharmonisches Staatsorchester di Amburgo (l’orchestra di Kent Nagano che dal 2025 passerà il testimone a Omer Meir Wellber). Lettura corretta (e ci mancherebbe con gli ottimi solisti in buca!), ma niente affondi (la bellezza di alcuni passaggi è lasciata ai singoli musicisti), niente scavo nella partitura, nella profondità della scrittura di Cajkovskij, un cardiogramma dell’anima irregolare, fatto di continui alti e bassi che la Yankovsaya, però, appiattisce. Peccato. Perché Cajkovskij, e in particolare il Cajkovskij di Evgenij Onegin ti tira dentro una storia che potrebbe essere la storia di molti, ancora oggi, storia de chi ha paura di amare, di chi ha paura di dire senza filtro i propri sentimenti, prima che sia troppo tardi. Poesia della vita.
Poesia in parole, musica e immagini questo Onegin, poesia restituita da un cast dove a lasciare senza fiato è la Tatjana di Ruzan Mantashyan, capace di prendersi da subito la scena (bellezza di timbro e presenza scenica efficacissima), di calamitare l’attenzione con una voce capace di colorarsi di malinconia, di dolore, di rassegnazione. Intelligenza musicale e scenica, piglio da interprete consumata, il soprano armeno è una grandissima Tatjana grazie a una voce che ti resta impressa per bellezza e musicalità. E la senti subito, nel canto fuori scena che prepara il suo ingresso, impastata (ma capace di svettare) a quella della sorella Olga, una corretta (ma non di più) Marta Šwiderska. Onegin ha il piglio e il giusto distacco dai sentimenti (ma non sempre il peso vocale che occorrerebbe) di Alexey Bogdanchikov, mentre a sbalzare bene il tormento di Lenskij è Dovlet Nurgeldiyev, tenore dalla voce di velluto. Artisti dell’ensemble di Amburgo, come Katja Pieweck che è Larina, la madre di Tatjana e Olga. Janina Bachele è la nutrice Filipjewna, Alexander Tsymbalyuk un credibilissimo Principe Gremin, applauditissimo (giustamente) nella sua difficile aria. Centrato (perché caricaturale al punto giusto, mai troppo) il Triquet di Peter Hoare.
Danzano, insieme al coro preparato da Christian Günther, sulle coreografie di Rolf Warter. Balli di gruppo. Dove ognuno, però, sembra solo. Chiuso nella sua solitudine. Avvolto da un’aria umida, opaca. Che se respiri ti fa sentire freddo dentro. Un’aria che sfoca i contorni delle figure. Ma se provi a metterle a fuoco, chiudendo gli occhi in una fessura che fa entrare un filo di luce, puoi vedere chi ancora oggi, come Onegin, non sa (o non vuole) amare.
Nelle foto @Jörg Michel Evgenij Onegin alla Staatsoper Hamburg