De Ana ambienta l’opera nella Seconda guerra mondiale raccontandola come una pellicola del cinema Neorealista Luisi dirige un super cast con due Elena, Rebeka e Meade Piero Pretti è Arrigo, Luca Micheletti Monforte
Nero l’abito. Nero il velo che porta in testa. Segno di lutto perché gli invasori le hanno ucciso il fratello. Lo sguardo, però, è fiero. Trattiene la rabbia stringendo in mano il tricolore. Trattiene il dolore. Che ricaccia in gola, ma che poi, inevitabilmente, le esce: «Si vendichi l’offesa, si spezzi il rio servaggio». Come un grido che le deforma il volto. Quel grido che ha un volto inconfondibile (deformato dalla rabbia e dal dolore) un volto che ha segnato per sempre la storia del cinema (e non solo). Il volto di Anna Magnani, Pina che in Roma città aperta grida «Francesco!». Maschera di rabbia e di dolore che urla la ribellione e che diventa quello della Duchessa Elena. Che, come la Magnani nella corsa disertata dietro la camionetta dei tedeschi, dice la sua rabbia e grida il suo no all’invasore. Per l’Italia di allora, raccontata sul grande schermo da Roberto Rossellini, l’invasore è (era) il tedesco della Seconda guerra mondiale. Oggi, lo sappiamo, l’invasore ha un altro volto e un altro nome, che sono i volti e i nomi di tanti dittatori, di tanti che fanno (ancora) la guerra. Un nome e un volto su tutti, il primo al quale inevitabilmente pensi vedendo carri armati e divise militari, quello di Valdimir Putin che ha sferrato il suo attacco a Kiev.
Nessun richiamo esplicito alla guerra in Ucraina, però, ne I vespri siciliani di Hugo De Ana. I vespri siciliani di Giuseppe Verdi in scena, in un nuovo allestimento con la bacchetta di Fabio Luisi, al Teatro alla Scala. Mancava, il titolo sperimentale e bellissimo – libretto nato in francese e poi tradotto in italiano, versione nella quale lo si ascolta ora a Milano – dal 7 dicembre 1989: dirigeva Riccardo Muti (e anche allora si era scelta la versione italiana, ma con i Ballabili de Le quattro stagioni, tagliati in questa edizione così come è stato tagliato il coro che apre il quinto atto) e il regista Pier Luigi Pizzi aveva riletto la rivolta dei siciliani contro i francesi del 1282 in chiave risorgimentale. De Ana adesso sceglie la chiave del neorealismo. Neorealismo cinematografico, come quello di Rossellini, perché il regista argentino non mete in scena un’invasione contemporanea, ma quella subita dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale, tragica e terribile conseguenza delle scelte di campo del regime fascista. Un passato (tutto sommato) recente dell’Italia, ma che rischia, visti i quasi ottant’anni che ci separano dai fatti, di perdere pian piano i testimoni diretti di quei fatti. Che rivivono sul palco della Scala nella regia di De Ana, contestatissimo (e forse anche in maniera eccessiva) alle uscite finali alla prima.
Neorealismo cinematografico, però. Perché quando si apre il sipario, dopo la celeberrima Sinfonia, sembra quasi di essere a Cinecittà: grandi pareti di ferro e cemento, americane ben visibili con appesi luci e proiettori, impalcature a vista, proprio come su un set. In mezzo la scena con un grande carro armato che incombe, comparse e attori (coristi e solisti) pronti a girare – sul palco, però, nessun regista con il megafono, nessun ciak, nessuna telecamera (quelle sono ben nascoste in sala, sono nove, perché Vespri è stata la prima opera trasmessa in diretta sulla piattaforma LaScalaTv). Il regista, forse, siamo noi. O è tra noi in sala e noi siamo gli spettatori di un film in presa diretta. Messa così può funzionare la regia di De Ana (che firma anche scene e costumi perfettamente neorealisti, filologici sulla Seconda guerra mondiale con qualche tocco kitsch nella Madonna infilzata di spade che prende vita e offre il pugnale della rivolta a Elena) solitamente apparecchiatore di allestimenti esteticamente perfetti, ma un po’ latitante sul fronte drammaturgico: qui un’idea c’è e anche su certa attualità. Certo, la recitazione a volte è lasciata ai vezzi operistici degli interpreti e le masse (al netto di qualche coreografia abbastanza sempliciotta – gesti di mani e piatti che vengono fatti roteare in aria – di Leda Lojodice) stanno per lo più ferme in versione opera in forma di concerto, con lo sguardo verso il podio o ai monitor in quinta (e va bene perché Vespri è un’opera complessa). Certo, i colpi di cannone e di pistola sulla musica possono disturbare… Ma basta a stroncare in toto un allestimento? Forse no. Anche senza il forse.
Tanto più che il neorealismo cinematografico funziona bene anche nella diretta streaming. E che l’idea del cinema sia centrale lo dice l’immagine – immediatamente riconoscibile – che De Ana mette sulle ultime note della Sinfonia, quella della Morte e del Cavaliere che giocano a scacchi come ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Idea che, però, resta un po’ lì, non ben esplicitata e approfondita – il Cavaliere è Monforte che alla fine perderà la sua partita con la morte? Il riferimento icono/cinematografico è per richiamare in scena il Medioevo del libretto? Idea – suggestione certo affascinante – che può funzionare in molti altri allestimenti, in altre opere che raccontano una sfida, una corsa verso la morte, un Trovatore, per esempio, o un Lohengrin.
E l’idea di morte che incombe c’è da subito nei Vespri. Così come li rilegge De Ana, certo. Così come li legge dal podio Fabio Luisi. Aderendo perfettamente alla scrittura verdiana dove la speranza è bandita, dove l’amore non riesce a vincere sulla morte – Elena e Arrigo si amano, ma le campane che annunciano il loro matrimonio sono il segnale per assaltare il dittatore che, ironia della sorte, è il padre di lui, dunque il più grande gesto d’amore diventa annuncio di morte. Terribile. E il finale rivoluzionario, con la ribellione ordita da quello spietato e (moralmente) bruttissimo e spietato personaggio che si rivela essere Giovanni Da Procida (canta la patria, ma non ha nulla di patriottico) non ha nulla di trionfale nella musica di Verdi, perché il compositore lascia il discorso in sospeso, non ci dice che fine faranno i protagonisti – De Ana li fa inghiottire dalla folla in rivolta. Una corsa tragica e bellissima nelle melodie che Verdi incastona in quest’opera strana, ma affascinante dove i temi della sinfonia si rincorrono continuamente – e anche i temi delle Stagioni che senti, anticipati o citati poi, nelle scritture vocali dei protagonisti. Opera che parte come tante, con una grande scena corale e con una grande aria del soprano (che qui ha quasi le caratteristiche di mezzosoprano) ma che subito dopo ti butta in faccia una novità, un quartetto a cappella, intenso, dove rabbia e dolore si impastano. Sguardi alla tradizione e anticipazioni di futuro si intrecciano continuamente. Luisi li mette ben in evidenza in una direzione capace di sbalzare i sentimenti sullo sfondo della storia.
I sentimenti di Monforte, uno dei più bei personaggi verdiani. Padre, come tanti baritoni di Verdi. Tiranno, ma uomo che ama e che ha bisogno di essere amato. Lo dice il suo grido disperato ad Arrigo, «chiamami padre!». Lo rende con una sofferenza e una verità impressionante che ti lasciano senza fiato Luca Micheletti, interprete sensibilissimo, che mette al servizio di Verdi e della sua scrittura la parola e l’intelligenza musicale e la capacità di scavare dentro le note e il suo inesauribile talento scenico – nessun gesto è fuori posto, nulla è eccessivo, tutto è calibrato sul testo musicale per restituire la grande modernità di Monforte. Micheletti scolpisce il dolore nel canto, cattura e ipnotizza quando entra in scena per il carisma innato che di volta in volta plasma e modella sui personaggi che interpreta. Voce bellissima la sua, come quella di Piero Pretti che con la classe, il talento e la musicalità che sempre mette nel suo canto viene a capo (alla grande e centrando una delle sue più belle interpretazioni di sempre) di una parte impervia come quella di Arrigo (l’ultima volta dei Vespri alla Scala, nel 1989, il rossiniano Chris Merritt venne contestato e non poco). Non è tenore rossiniano né belcantista Arrigo nonostante la scrittura tutta in acuto (specie nel quinto atto) e in perenne bilico tra il patetico (un capolavoro di misura il Voi per me qui gemete del quarto atto di Pretti) e l’eroico (nel duetto con Monforte del secondo atto commuove).
Arrigo non è l’unico tenore. Ci sono anche Danieli, che ha lo squillo di Giorgio Misseri, Tebaldo, che ha la grinta di Brayan Avila Martinez, e Manfredo, affidato al giovane talento dell’Accademia scaligera Andrea Tanzillo. Tutti presentissimi tra soli e concertati. Come Andrea Pellegrini e Adriano Gramigni, efficaci e convincenti Bethune e Vaudemont. Roberto è Christian Federici e Ninetta la grintosa Valentina Pluzhnikova, anche lei allieva dei corsi di canto scaligeri.
Con Procida, che ha la voce scura di Simon Lim, proprio non riesci a solidarizzare, per la meschinità e la cattiveria che mette nel suo patriottismo, che suona quasi finto e dettato (forse) da un desiderio di potere. Così Elena diventa una vittima sacrificale. Perché messa di fronte alla scelta tra l’amore e la morte (di altri, per la sua patria). Elena, donna forte. Ma anche fragile. Personaggio enigmatico. Complesso perché sempre sul filo dell’abisso. Alla Scala due le cantanti che danno voce alla Duchessa. Una, Marina Rebeka, Anna Magani nella figura scarna, l’altra, Angela Meade, Anna Magnani nel temperamento da leonessa che combatte sino all’ultimo – e che cos’è l’ultimo atto del soprano americano, specie nel terzetto dove la Meade sovrasta con la sua voce gli ottoni che squillano in orchestra. La Rebeka, con la sua voce di cristallo e velluto (che a volte, però, si perde nel magma orchestrale e corale) disegna una Elena musicalissima, perfetta nel seguire puntualmente la scrittura verdiana: ogni accento è giusto, ogni intenzione arriva. La Meade è un fiume in piena di voce, torrenziale, avvolgente, inebriante, sempre timbratissima e sulla musica negli acuti, nei centri e nei bassi. Una Elena dolente ed energica allo stesso tempo. Per entrambe, il celeberrimo bolero del Mercé dilette amiche, arriva come un’osai di speranza (e di invano sognata pace), un canto cristallino che subito si sporca di dolore. Di paura. Di vita che deve fare i conti con la violenza.
Come quell’ulivo che fa da sfondo al quinto atto, messo lì dove prima c’erano i cannoni. Albero di pace, che non avrà quel destino, però. Perché la raccolta delle olive che i giovani siciliani è solo una pantomima, non ci sono le olive, non ci sono i frutti, perché i frutti della pace non possono essere raccolti quando si medita vendetta. E perché alla fine, quei rami prenderanno fuoco. E resteranno rami secchi. Distrutti dalla violenza della guerra.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala I vespri siciliani