Al Teatro alla Scala il regista rilegge l’opera di Strauss ispirata al racconto della Bibbia tra Shakespeare e Freud Intensa protagonista Vida Miknevičiūtė, dirige Axel Kobor
Quel teschio che Salome tiene in mano dopo averlo dissotterrato – e che alla fine bacia, bacio necrofilo, bacio incestuoso perché è (immagini) il teschio del padre – fuga ogni dubbio. Ogni dubbio sul fatto che nella “sua” Salome di Richard Strauss in scena al Teatro alla Scala, Damiano Michieletto sovrappone il personaggio biblico raccontato in teatro da Oscar Wilde e ispiratore di pittori e poeti (per la sensuale crudeltà e il sottile sadismo che emana), lo sovrappone ad Amleto. Un Amleto al femminile (in teatro lo si è visto già, certo, la lettura più bella nell’antifemminilità impressa al Principe interpretato da Federica Castellini, quella di Antonio Latella al Piccolo teatro di Milano) alle prese con lo spettro del padre. Che, corto circuito della visione psicanalitica del regista veneziano per il Teatro alla Scala, è incarnato da Giovanni, Jochanaan, il profeta rinchiuso nella cisterna, per aver detto qualcosa di scomodo, perché ha osato buttare in faccia ad Erodiade, madre di Salome, quel «non ti è lecito» che gli è costato la vita, meglio, la testa – ucciso uno o due anni prima di Cristo, raccontano le cronache del tempo dello storico romano Flavio Giuseppe. Non ti è lecito ripudiare tuo marito (assassinato nella visione amletica di Michieletto) e sposare suo fratello – e non può esserci eco più shakespeariana nel monito del Battista, che rimprovera a Erodiade di aver ucciso/fatto uccidere il marito Erode Filippo e di aver sposato il fratello di lui, Erode Antipa (che non è l’Erode che ordinò la strage degli innocenti…), tetrarca di Gerusalemme ai tempi in cui Giovanni si faceva «voce di uno che grida nel deserto» per preparare «la venuta del Signore».
Erodiade, dunque, come Gertrude, la madre di Amleto, che sposa il cognato Claudio dopo che questi ha ucciso il fratello. Erode come Claudio. E Salome come Amleto. O anche come Edipo (ma mettiamoci pure Elettra, incastrata nel triangolo tra Clitennestra, Agamennone ed Egisto), sembra dire Michieletto con Freud. Perché deve “uccidere” il padre per conoscere davvero chi è. Ma per lei andrà a finire male – d’altra parte come al povero Edipo. Quel padre che nella mente malata della ragazza ha le sembianze di Jochanaan, che appare come uno spettro, appunto, racchiuso in una cisterna dove c’è anche, nascosta, celata da cumuli di terra, la tomba di Erode Filippo. Su quella si erge Giovanni. Che appare in scena, emergendo dal ventre del teatro, dopo che abbiamo sentito la sua voce, perché il profeta, ci dice la Bibbia, è «voce di uno che grida nel deserto».
Una visione della mente ottenebrata di Salome? Come quegli angeli della morte (sensuali nei loro corpi scultorei e celestiali nelle ali piumate che si protendono in alto) che versano sangue sull’agnello sacrificale – e anche qui Michieletto e il suo scenografo Paolo Fantin attingono ampiamente alla simbologia biblica, all’Agnus dei che toglie il peccato del mondo, l’Agnello che lo stesso Giovanni indica alla folla che va da lui a farsi battezzare al Giordano: «Ecco l’agnello di Dio» dice quando tra le gente si fa avanti Gesù. Agnello che Jochanaan tiene in braccio al suo apparire in scena. Agnello che prefigura il sacrificio di Giovanni. E quello di Salome, perché alla fine, dopo averlo fatto con l’animale candido, gli angeli della morte verseranno il sangue anche sul collo di Salome, sangue che scorre da un calice dorato, quello della celebrazione eucaristica, quello che il sacerdote alza insieme alla particola, pane e vino che nel mistero eucaristico si trasformano nel corpo e sangue di Cristi, indicato, in ogni celebrazione dal celebrante, come «l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo».
Visione, il corpo sporco e stanco di Jochanaan? O corpo concreto, reale? Salome non lo tocca mai. Eppure c’è. Presente, come le altre visioni che la ragazza ha. Visioni di lei bambina (stesso vestitino, stesso caschetto nero) e del padre che le rimbocca le coperte, che le regala una bambola. Che forse Salome, nel giorno in cui ha sepolto il genitore, ha buttato nella sua tomba. Perché anche quel giocattolo emerge dalla terra. Sporco, lacero. Simbolo di un’infanzia violata. Dallo zio/patrigno.
Ecco un’altra delle visioni di Salome. La più inquietante. Quella di lei bambina (stesso vestitino, stesso caschetto nero) e di Erode Antipa che la prende per mano e la porta in quella stanza, un tempo luogo sicuro, avvolto dalla luce, ma ora attraversato da un bagliore livido. Quello della violenza. Ed eccoci dentro la mente di Salome. A rivivere la sua infanzia violata in una Danza dei sette veli che, nell’asciutta coreografia di Thomas Wilhelm, non è una seduzione per convincere il tetrarca a darle la testa di Giovanni, ma un drammatico fare memoria in un qui ed ora allucinato (un transfer psicanalitico) di abusi che hanno segnato inevitabilmente la vita. E il vestito bianco macchiato si sangue che sale al cielo – vestito di una sposa che Salome non potrà mai essere – è troppo grande per avvolgere la ragazza in un abbraccio rassicurante.
Dentro la mente di Salome. Dove ci porta Michieletto nella sua Salome. Inizialmente prevista (con la bacchetta di Riccardo Chailly) per marzo 2020, bloccata dalla prima ondata di Covid, andata in scena a porte chiuse e indiretta tv (diretta da Chailly, arrivato a raccogliere il testimone del previsto Zubin Mehta) nel febbraio del 2021 e ora, finalmente, proposta con il pubblico in sala, secondo titolo della stagione scaligera. Con la bacchetta sensibile e raffinata, attentata ai colori e alle sfumature straussiane (ma senza calcare mai troppo la mano) di Axel Kober (chiamato a sostituire, anche questa volta, Mehta) e con un cast in parte diverso rispetto a quello della diretta tv. A iniziare dalla Salome strepitosa di Vida Miknevičiūtė, generosissima e incredibilmente credibile sulla scena, perfetta vocalmente, fuoco dal quale non riesci a staccare lo sguardo. E dal solenne e ieratico Jochanaan di Michale Volle. E dallo stralunato Erode (ma perché gli Erodi sono sempre in bilico tra mascolinità perduta e cabaret?) di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke. E dall’incisivo Narraboth di Sebastian Kohlhepp. Mentre Herodias era ancora una (giustamente) eccessiva Linda Watson, vocalità e figura perfette per rendere i lati oscuri (e squallidi e volgari) della madre di Salome. E il paggio di Herodias, che nella lettura di Michieletto è una vecchia nutrice che guarda incredula il precipitare degli eventi, anche questa volta affidato a Lioba Braun.
Diversa anche la regia. Seppur identica nell’estetica tutta geometrica e simbolica impressa alla visione da Paolo Fantin (ma Carla Teti questa volta ha vestito Salome di oro e nero, i colori del lusso e della morte, preferendoli al glicine e al bianco che si erano visti indosso a Elena Stikina). Diversa perché diversa è Salome. Ma anche perché diversi sono i tempi. Nel 2021, quando il Covid teneva ancora chiusi e teatri e ci imprigionava in un limbo di zone rosse e gialle, il finale, dopo che il monologo allucinato di Salome era stato accompagnato dalla visione del sangue che colava ininterrottamente dalla testa del Battista rappresentata come nel quadro L’apparizione di Gustave Moreau, vedeva la scenografia implodere, chiudendosi su se stessa e schiacciando un mondo fuori asse. Ora quel mondo fuori asse (citazione da Amleto) resta. Non implode, però, si fa invece testimone muto e vuoto della tragica fine che Salome sceglie, quella di buttarsi nel vuoto della cisterna. Dopo essere stata, come noi che abbiamo visto questa sua allucinata follia, sull’orlo del precipizio.
Identica la paura nella quale ti tira dentro la regia di Michieletto. La paura di Salome che diventa la nostra paura di guardarci dentro e di scoprirci fragili. Perché, come in un sogno di quelli che alla mattina cerchi di decodificare, il racconto di Michieletto intreccia simboli e immagini tra Freud e Jung a un dramma borghese alla Strindberg. La scena di Fantin è una scatola bianca e nera (illuminata dalle luci acide e raggelanti di Alessandro Carletti) che si popola di angeli dalle ali nere, nera anche la luna che incombe dall’alto e che scende sino a terra, pendolo che oscilla e segna inesorabile lo scorrere del tempo, spinto da Salome che vuole quasi accelerare il corso della storia.
Salome che trova in Vida Miknevičiūtė un’interprete trascinante, perfetta nell’essere, con la sua voce tagliente e musicalissima, sempre sull’orlo del precipizio, perennemente in bilico tra la concretezza della vita e la visionarietà del sogno. Inquietante nel suo essere piccola e fragile in un mondo di giganti che la sovrastano. Mai piegata, disegnata con quel tratto deciso e asciutto nel caschetto nero che le incornicia il volto, parrucca che alla fine si toglie, un calare la maschera, un segno di resa di fronte al peso della vita.
Che, mentre le appare la visione di lei bambina, setsso vestitino dorato, stesso caschetto nero, stessa bambola in mano, la inghiotte in quel buco nero della mente e della memoria evocato, sinistramente perché ci fa specchiare in quell’inquietudine, dalla musica di Strauss.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Salome