A Köln riuscitissima regia rossiniana di Cecilia Ligorio ambientata negli studios cinematogarfici di Hollywood Squadra tutta italiana con Matteo Beltrami sul podio
Sembra di stare al cinema entrando nella Sala Grande dello Staatenhaus dell’Oper Köln, lo spazio espositivo lungo il Reno che ospita gli spettacoli del teatro lirico tedesco in attesa della fine dei (lunghissimi) lavori di ristrutturazione della storica sede. Al cinema, davanti ad uno schermo in cinemascope. Lungo. Schiacciato in alto e in basso. Con già ben visibile la prima inquadratura. Un fermo immagine che ti cattura subito. Da una parte una strada, immersa nel buio della sera. Dall’altra l’interno di una casa borghese di New York o di Los Angeles, dentro la quale ti viene immediatamente da curiosare: il divano in pelle e il camino, la scrivania (con tanto di macchina da scrivere e inconfondibile lampada Churchill) e il mobile bar con bicchieri e bottiglia di whisky. E poi la tappezzeria e le lampade a parete, tutto ti fa venire una vertigine vintage. Anche le foto (nelle sue pose iconiche) di Fred Astaire, appese a fianco al camino insieme ai manifesti dei suoi (di Fred) successi danzanti The Continental, brano di Con Conrad (prima canzone a vincere l’Oscar come Miglior canzone originale nella storia dell’Academy) ballato con Ginger Rogers in The gay divorce di Mark Sandrich, e Cheek to Cheek di Irving Berlin, colonna sonora del Cappello a cilindro, altra pellicola di Mark Sandrich interpretata dalla coppia più bella della danza sul grande schermo. Inconfondibile lo stile anni Trenta. In piena epoca d’oro di Hollywood.
Ed è lì, tra sceneggiatori e aspiranti dive di celluloide, nell’America di Hollywood che sogna con i musical di Fred Astair (ma anche di Gene Kelly) che Cecilia Ligorio ambienta la sua (bellissima e riuscitissima) Cenerentola di Gioachino Rossini, Das Aschenputtel in traduzione tedesca. Una Aschenputtel fatta, però, da una squadra tutta italiana. La regista veronese e, sul podio, il genovese (milanese di adozione) Matteo Beltrami. E si sente, nel calore e nel colore rossiniano che Beltrami chiede ed ottiene dalla notevolissima Gürzenich-Orchester di Colonia. E si vede. Le scene di Gregorio Zurla, accuratissime e curatissime, sono perfette per un set cinematografico, si smontano e si rimontano, ti fanno scoprire il dietro del quinte oltre la facciata tirata a lustro, proprio come in un teatro di posa. I costumi di Vera Pierantoni Giua sono in stile e dal taglio perfetto. Luci centrate, da direttore della fotografia, di Marco Giusti – americana, californiana di Oakland (e dunque “filologiamente” perfetta per un musical da grande schermo), la coreografa Daisy Ransom Phillips.
Si vede nella regia della Ligorio, che convince e rivela una grande capacità di narrazione, tutta sulla musica – e l’impressione è che in Germania, dove si guarda all’opera italiana con un po’ meno di timore reverenziale rispetto a casa nostra, Cecilia Ligorio lasci libero sfogo alla sua fantasia, si lasci andare riuscendo a trovare quella libertà di espressione, gestita con grande intelligenza, che in alcuni allestimenti italiani, più trattenuti e forse meno riusciti, sembrava mancare. Si vede in una regia dove la narrazione è scandita dalla musica. Così, dopo L’italiana in Algeri al Cabaret della Rete lirica delle Marche, questa riuscitissima (sarebbe bello vederla in Italia) Cenerentola ad Hollywood conferma una speciale sintonia della regista con il Rossini buffo. Che poi, troppo buffo non è. Perché Rossini definisce la sua partitura mozartianamente «dramma giocoso». Proprio come il Don Giovanni del Salisburghese. C’è il dramma di una ragazza che vive con il patrigno e le sorellastre, costretta a servirle – e l’Angelina della Ligorio, vestita da Vera Pierantoni Giua, ha divisa e grembiule da cameriera di una casa borghese. Personaggi, Don magnifico, Clorinda e Tisbe, sbalzati da Rossini con il tratto del sarcasmo. Specchio (tragicomico) di tanti nostri tic.
Così Angelina sogna il cinema. In un gioco di specchi e di rimandi tipico di Hollywood. Perché sul palco si gira un film che racconta di una ragazza che sogna il cinema. Perché Alidoro è uno sceneggiatore (in maniche di camicia e bretelle) alle prese con un soggetto da scrivere. Lo vediamo sulle note della Sinfonia alla macchina da scrivere – lo vediamo moltiplicarsi in una sequenza in slow motion, con movimenti in loop (perfetti e sincroniuzzatissimi gli attori/figuranti) come avessimo davanti i fotogrammi di una pellicola – lo vediamo battere i tasti e stracciare fogli su fogli. Fino a quando alla sua fantasia – quasi pirandellianamente – gli si affacciano i personaggi in cerca d’autore. Che chiedono di raccontare la loro storia. Quella di Angelina, che per fuggire dalla realtà sogna il cinema. Quella di Ramiro, attore (e forse anche produttore) che, inseguito dai paparazzi che lo tempestano di flash, cerca la primadonna per la sua pellicola, cerca il nome da mettere in locandina. E manda avanti il suo segretario, Dandini – non più cameriere, ma talent scout che cerca volti nuovi per il cinema – anche lui con sogni di celluloide tanto che si mette a cantare (e ballare – le coreografie da musical sono di Daisy Ransom Phillips) sotto la pioggia attaccato a un lampione, come il Gene Kelly di Singin’ in the rain. Così il ballo al Palace del Principe è una sorta di provino dove Clorinda e Tisbe cercano di ottenere la parte (la mano del principe), ma dove il lieto fine – con tanto di scritta finale The End – sarà solo per Angelina, ormai libera dai fogli della sceneggiatura, diva di celluloide, ma anche ragazza in carne ed ossa che, grazie al trionfo della bontà (il sottotitolo della Cenerentola), può amare. Un racconto, quello della Ligorio, che ti prende dalla prima all’ultima inquadratura, campi lunghi, primi piani, piani sequenza. Dalla casa di Don Magnifico al The End finale passando per il palazzo/studios di Ramiro fatto con le grandi lettere luminose della scritta Palace che continuamente si scompone e ricompone, mosse dal corpo di ballo in frak e cilindro (proprio come il miglior Fred Astaire).
E non c’è movimento, non c’è gesto che non sia sulla musica. Che non sia rossiniano. Tutto funziona alla perfezione. Grazie anche alla direzione serrata di Matteo Beltrami, che padroneggia ogni minimo dettaglio della partitura (ma perché il suggeritore, a vista sotto il palcoscenico, “doppia” il direttore? non ci sono distanze incolmabili tra podio e palco…) e la restituisce in tutta la sua drammatica comicità: c’è il patetico e c’è il comico, c’è il drammatico e c’è il lirico, ci sono tutte le sfumature (ben dosate ed equilibrate) che Rossini mette nella sua musica – e forse Cenerentola per ricchezza di materiale musicale e bellezza di melodie, per scrittura intelligente e sorprendente e tutta proiettata in avanti (il Nodo avviluppato non è già rap?) è ancora più affascinante e più compiuta di Barbiere. Sfumature, colori… stati d’animo che vedi nei primi piani sui volti (meglio, sulle voci) degli interpreti. Anna Alàs i Jové è un’Angelina dalla voce corposa e avvolgente, capace di scendere e salire senza difficoltà, di prendersi la scena e di tenerla. Come Omar Montanari, spassosissimo (e, cosa importantissima, mai volgarmente sopra le righe) Don Magnifico. Azzeccati i ritratti delle sorellastre petulanti, ben differenziate da Jennifer Zein (Clorinda) e Charlotte Quadt (Tisbe). Dandini ha il bel colore e l’efficace presenza scenica di Wolfgang Stefan Schwaiger. E, al netto di un po’ intimorito Pawel Konik arrivato all’ultimo a cantare davanti al leggio la parte di Alidoro (mentre in scena c’era il titolare, Christoph Seidl, senza voce), qualche perprelssità la lascia il Ramiro di Dmitry Ivanchey, al quale manca la sfrontatezza (e la musicale leggerezza) dell’acuto rossiniano.
Nomi che scorrono nei titoli di coda (immaginari) sugli applausi finali. Calorosi per tutti. Che ti riportano all’opera (perché al cinema non si applaude), ma ti lasciano l’illusione (o il sogno, per restare a Hollywood) di aver appena visto un (bellissimo) film.
Nelle foto @Matthias Jung Cenerentola all’Oper Köln