I sogni di Freud nello Schiaccianoci di Nureyev

Alla Scala torna la versione perfetta del coreografo russo che rilesse in chiave psicanalitica il balletto di Cajkovskij Protagonisti Nicoletta Manni e Timofej Andrijashenko

Crescere è sempre difficile. Perché vuol dire attraversare un dolore. Il dolore di una perdita. Il dolore di una trasformazione. Un dolore da comprendere. Da accettare. Da elaborare. Magari in quel magnifico (e allo stesso tempo inquietante) laboratorio che sono i sogni. E da rendere fecondo. Così se l’età dei giochi si fa prova generale dell’età adulta (nel «facciamo che io ero…» tipico della finzione dei bambini, con buona pace delle femministe che contestano che nel giocare con le bambole le bambine anticipano il loro desiderio e il loro istinto di maternità), così se l’età dei giochi si fa prova generale dell’età adulta, l’adolescenza diventa la fucina dove temprare i sentimenti. Quelli che ti segnano. Ti sconvolgono. Ti fanno battere forte il cuore. Ti fanno anche male. E ti forgiano, ti fanno diventare uomo/donna attraverso quel dolore. Tempo da guardare, un domani, con il sorriso di chi è cresciuto non solo nonostante, ma soprattutto grazie (difficile pensarlo, certo) a quel dolore.

Freud avrebbe molto da dire a questo proposito. Rudolf Nureyev lo ha detto, proprio con Freud, a passo di danza. Con la sua versione psicanalitica de Lo schiaccianoci di Petr Il’Ic Cajkovskij. Il più bello Schiaccianoci di sempre. Il più perfetto (non c’è una cosa di troppo), il più commovente di tutti. Anche il più difficile, modellato nel 1962 dal danzatore e coreografo russo sul suo mix inarrivabile di genio (tecnico) e sregolatezza (interpretativa). Bastava il suo ingresso in scena avvolto nel mantello del signor Drosselmeyer che tutti gli sguardi erano su di lui. Perché nello Schiaccianoci di Nureyev a trasformarsi (nel sogno… sogno?) in principe che fa innamorare Clara non è il giocattolo (lo schiaccianoci del titolo ispirato ad un racconto di E. T. Hoffmann ambientato la sera di Natale), ma il vecchio amico di famiglia che regala quel giocattolo alla ragazzina che alla fine del songo (sogno?) si ritroverà sulla soglia dell’età adulta.

Quello Schiaccianoci, “lo” Schiaccianoci dopo sedici anni (l’ultima volta era nel 2006, una vita fa) torna in scena, titolo inaugurale della nuova stagione di danza, al Teatro alla Scala – che nel frattempo ha proposto sul palco del Piermarini le versioni di Nacho Duato e George Balanchine, carine, graziose, ma nulla a che vedere con la perfezione inarrivabile della coreografia di Nureyev. Che attraverso il sogno di Clara racconta il passaggio all’età adulta di tutti noi – e sarà forse anche per questo (la musica di Cajkovskij fa abbondantemente la sua parte) che si fatica a trattenere le lacrime quando Drosselmeyer scompare e appare il principe che traghetta la ragazzina oltre i suoi sogni.

Sogni e incubi, nello Schiaccianoci freudiano di Nureyev, ben ancorato alla fonte ispiratrice di Hoffmann, che nei suoi racconti, dietro la confezione favolistica, mette sempre una vena malinconica e una (a volte spietata e inquietante) analisi psicologica della vita. Perché nel sogno/incubo di Clara la casa diventa enorme, l’albero di Natale cresce a dismisura. Ci sono i topi giganti (come da tradizione sconfitti nella battaglia dei soldatini) che la ragazza cerca di “addomesticare” gettando loro in pasto le bambole (addio ai giochi…). E ci sono i genitori e gli adulti che sono pipistrelli che si palleggiano il giocattolo/feticcio di Clara (geniale il fatto che Nureyev metta la stessa scena anche nel primo atto, quando il sogno non è ancora iniziato, perché lo sappiamo nel sogno elaboriamo le immagini della vita) togliendo alla ragazzina l’oggetto del desiderio in modo sadico. E poi le danze di carattere (la spagnola, l’araba, la cinese, la russa e la pastorale) sono una porta aperta sul futuro. Il Valzer dei fiori (non siamo in una favola, dunque niente fiori che ballano) una sorta di ingresso in società (suggellato dal difficilissimo passo a due) ad una festa bellissima che introduce nel mondo dei grandi – le scene e i costumi sono le stesse di sempre, irrinunciabili (e non ne immagini di diversi per questo Schiaccianoci) di Nicholas Georgiadis, “patrimonio” scaligero come la coreografia di Nureyev.

Nessun ospite, ma ruoli tutti per i primi ballerini scaligeri in questa ripresa dello Schiaccianoci di Nureyev (lo hanno rimontato Aleth Francillon e il direttore del ballo scaligero Manuel Legris) dove Drosselmeyer e Clara sono Timofej Andrijashenko e Nicoletta Manni, tecnicamente impeccabili nel restituire intatti i difficilissimi passi immaginati da Nureyev. Come tecnicamente impeccabile è tutta la compagnia di ballo scaligera: sul palco, tra i tanti, ci sono Gabriele Corrado (che è un elegante dottor Stahlbaum e un acrobatico solista nella danza russa, insieme a Beatrice Carbone), Mattia Semperboni e Vittoria Valerio (Fritz e Luisa che nel sogno sono i solisti della danza spagnola), Nicola Del Freo (che guida la pastorale con Linda Giubelli e Agnese di Clemente), Maria Celeste Losa e Gaia Andreanò (limpidi fiocchi di neve nel quadro bianco che chiude il primo atto, dove anche il picchiettare delle punte di gesso sul palco è musica e parte integrante della perfezione creata da Nureyev), i “cinesi” di Domenico Di Cristo, Federico Fresi e Rinaldo Venuti. Accanto a loro (e tanti, quando erano alla sbarra per formarsi, hanno danzato questa versione – qualcuno lo riconosci nelle foto del programma di sala) gli allievi della Scuola di ballo diretta da Frederic Olivieri.

Impegnati, tutti, a raccontarci, a passo di danza, sulle note di Cajkovskij (tempi spesso slentati, ma a loro modo affascinanti, nella direzione di Valery Ovasyanikov, ottime le Voci bianche di Bruno Casoni nel canto che accompagna la discesa di fiocchi di neve), quello che diventando adulti abbiamo perso in spensieratezza – o forse no, ma solo messo in un angolo della mente, pronto a tornare fuori, prepotente, evocato da un sogno. (Sogno?)

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Lo schiaccianoci