Donizetti a Bergamo, L’Aio nel Metaverso

Il regista Micheli porta l’opera del 1824 nella realtà virtuale Milletarì dirige Corbelli, Esposito e i giovani della Bottega

Occhiali trasparenti che sono uno schermo in grado di aprire una finestra sul mondo, anzi, sui mondi possibili. Tuta di fibra ottica da infilare sopra i vestiti, una seconda pelle digitale fatta di terminazioni nervose virtuali per dolori e piaceri comandati a distanza. Un tablet in mano, che è una piccola lastra di plastica, trasparente, chiave per aprire tutto. Il futuro è vicino. Anzi vicinissimo. Forse ancora più vicino di quello che si immagina Francesco Micheli portando gli ottocenteschi Gregorio Cordebono e Giulio Arquati, Enrico e Gilda, Pippetto e Leonarda in un futuribile – distopico come si usa dire in questi casi – 2042. Esercizio di fantasia alla 1984 o alla 2001 Odissea nello spazio – per dare qualche riferimento di fantascienza che ha lasciato il segno tra letteratura e cinema –, gioco intrigante da fare con L’aio nell’imbarazzo, melodramma giocoso (il gioco, appunto) di Gaetano Donizetti datato 1824. E come Verdi fa con Traviata per smascherare l’ipocrisia della società borghese, Donizetti mette in scena, sbeffeggiandoli per le loro manie e per i loro tic, i suoi contemporanei: un marchese bigotto, un precettore intimorito da tutto, ragazzi (di ieri) alle prese con sentimenti e amori che sono gli stessi di oggi. Contemporanei di Donizetti da far diventare nostri contemporanei, se vogliamo che l’opera parli ancora al nostro presente.

Nostri contemporanei in un 2042 che potrebbe, anzi, è quasi certo, potrà arrivare ben prima del 2042. Perché la strada imboccata dalla tecnologia (e non da ieri) è già quella che Micheli mette in scena, portando all’estremo la deriva social e l’eccitazione da Metaverso di questi nostri tempi, sul palco del Teatro Donizetti di Bergamo per il Donizetti opera 2022. Perché non passeranno vent’anni che le dirette Facebook e YouTube saranno modalità di interazione superate, gli incontri via Teams un ricordo quasi preistorico, gli aperitivi su Zoom che ci siamo inventati in tempo di pandemia un cosa da boomer. Computer e smartphone, quelli che oggi non abbandoniamo nemmeno per un minuto, in un attimo diventeranno vecchi perché faranno parte di noi, non più prolungamenti esterni di braccio e mano. Perché saremo interconnessi in tridimensionale in scenari creati dalla realtà virtuale, in contatto con persone digitali come noi che ci staranno di fronte… anche se saranno a migliaia di chilometri di distanza. Una vita in rete dove basterà un battito di ciglia per accendere una luce o un gesto del dito tracciato nell’aria per aprire documenti o scattare una foto.

Il Metaverso di Zuckerberg e di Facebook (ma anche di Apple e Google) che ci farà vivere le nostre vite digitali. Che è (anche) il Metavreso di Donizetti nello spettacolo ipertecnologico (ingranaggio perfetto che funziona alla perfezione) di Micheli (direttore artistico della rassegna che Bergamo dedica al suo concittadino) e di Vincenzo Milletarì che dal podio ben si sintonizza con il palcoscenico in una lettura trascinante e perfettamente donizettiana, il che, per una partitura del 1824, vuol dire dare ampio spazio agli echi rossiniani, ma anche saper metter in luce le “rivoluzioni” delle grandi opere del compositore già presenti in questa partitura ancora “giovanile”, ma già con aspetti di maturità ben evidenti – cosa che il direttore fa molto bene e con una libertà di interpretazione che gli deriva da una approfondita conoscenza della partitura. Una lettura, quella di Milletarì e di Micheli, dove si fondono alla perfezione alto e basso, pianto e sorriso, drammatico e patetico, tracico e comico – e sappiamo che l’effetto voluto dal compositore è quello del tragi-comico che ha già il sapore di certa commedia all’italiana.

E ha proprio questo sapore, quello di una commedia all’italiana del nostro cinema, l’antefatto che ci viene raccontato sulle note della sinfonia. Su un grande schermo che occupa tutto il palco – e che poi, posizionato nella parte alta del boccascena, diventerà la nostra interfaccia di ciò che i personaggi vedono nel loro Metaverso – assistiamo alla parabola politica del conservatore (che si vedrà sbattuto in prima pagina per lo scandalo del tradimento della moglie) Giulio Antiquati (uno “antiquato” non poteva che essere un conservatore), arrivato al potere grazie alle strategie dello spin doctor Gregorio Cordebono che mette in atto strategie comunicative che passano attraverso un nuovo social, Fastgram, il social dei social che li contiene tutti. Conservatore, tormentato dal dolore (tutto privato) del tradimento della moglie che torna come ossessione nelle visioni – queste fuori dal Metavreso – nelle proiezioni della mente (certo, a loro modo virtuali) di Antiquati. Ossessionato dal sesso e dalla possibilità che i figli restino “scottati” dalle donne – lo raccontano, questo, Donizetti e il librettista Jacopo Ferretti. E per questo li tiene segregati in casa, affidati al precettore Gregorio. Ma – e senza un ma non ci sarebbe il tragicomico – la situazione gli sfugge di mano. Perché il primo figlio, Enrico, ha sposato in segreto Gilda dalla quale ha avuto un figlio, mentre il secondo, Pippetto, si è invaghito della cameriera Leonarda, una milf (o una cougar), diremmo oggi. Il patatarc è fatto, Gregorio cerca di aiutare i ragazzi. Ma per non evitare un nuovo scandalo tutto deve restare in famiglia. O meglio, lontano dalla famiglia, perché il marchese non vuole sentire ragioni e scaccia i figli salvo poi, di fronte al nipotino e alla minaccia di suicidio della nuora, cedere e perdonare tutti (se amare è una colpa che necessita un perdono…).

Ed ecco la trama, da commedia (all’italiana) degli equivoci, dell’Aio nell’imbarazzo che Micheli, con una trovata via l’altra (e tante, sicuramente, sono frutto della mente del drammaturgo Alberto Mattioli), racconta sul palco del Donizetti, trasformato in un Metaverso, in uno scenario virtuale (le scene sono di Muro Tinti, i video che ci mostrano il Metaverso dei personaggi dello Studio Temp e di Emanuele Kabu, le luci di Peter van Praet) dove i personaggi interagiscono a distanza, senza (quasi) mai toccarsi. Ognuno vive nel suo mondo, una stanza/monade che fluttua in uno spazio vuoto e, attraverso gli occhiali, la tuta/seconda pelle (costumi colorati e pop di Giada Mansi), il tablet, intesse relazioni virtuali. Che si sgretolano, le relazioni virtuali, quando sul finale tutti si liberano degli strumenti tecnologici e ritrovano il piacere del contatto fisico. Grazie al piccolo Bernardino prima neonato (in scena un bimbo che prima guarda il pubblico con oggi grandi e poi accenna a un pianto subito placato) e poi ragazzino che assiste all’arrivo della mamma al Quirinale: perché così Micheli fa finire l’opera con Gilda che canta la sua aria finale dove esalta il coraggio delle donne davanti ai microfoni della Presidenza della Repubblica – anche qui futuro che arriverà (forse) prima del 2042, poteva già arrivare a gennaio, ma non è arrivato, un niente da fare per il Quirinale che però si è avverato a palazzo Chigi.

Realtà e finzione (proprio come nel Metaverso) si fondono nello spettacolo che Micheli affida agli allievi della Bottega Donizetti che per mesi, insieme al regista e a Milletarì hanno lavorato sullo stile donizettiano. Seguiti, nel loro percorso, da Alessandro Corbelli e Alex Esposito, tutor che i ragazzi hanno avuto al fianco in scena nei panni del marchese Antiquati e di Gregorio. La misura, la sottile perfidia scenica, l’intelligenza musicale di Corbelli non conosce età, il carisma, la capacità di aggredire il palco, il canto reso sempre teatro palpitante sono un marchio di fabbrica di Esposito. Gilda, alla quale Donizetti affida due arie (il modello è quello delle grandi arie delle primedonne che verranno), ha la bella voce e la buona tecnica e il temperamento di Marilena Ruta. Francesco Lucii restituisce con vocalità generosa (molto rossiniana) e giusto patetismo i tormenti di Enrico. Lorenzo Martinelli è un Pippetto giustamente caricaturale che amoreggia con la Leonarda di Caterina Dallaere. Lorenzo Liberali riveste del suo un canto nobile, sbalzandolo con gusto e puntualità, il personaggio di Simone. Li guida con mano salda Vincenzo Milletarì, sempre attento a far respirare il canto e a farlo planare sul suono dell’orchestra del Donizetti opera (un po’ meno incisivo l’apporto del coro).

Alla fine applausi per tutti. Catturati dagli schermi dei telefonini. Ripostati sui social. Per rivivere la magia del teatro. In attesa di esserci dentro, magari attraverso un paio di occhiali che ci porteranno direttamente sul palco o in buca d’orchestra. In un futuro, in un 2042 più vicino di quello che si immagina, che potrebbe arrivare, anzi, arriverà prima del 2042.

Nelle foto @Gianfranco Rota L’aio nell’imbarazzo al Donizetti opera di Bergamo