L’opera di Strauss apre la nuova stagione di Santa Cecilia affidata al talento vocale e scenico di Ausriné Stundyté Ultima inaugurazione di Pappano come direttore musicale
Un braccio, bianco. Che emerge da un magma nero – nero, ma con un manto rosso è l’abito di Ausriné Stundyté, “filologico” perché sul testo di Hoffmansthal, «dal buio e dalle torce cade su te rete mortale nera e rossa» l’immagine che si materializza a un certo punto, quando Elettra si avventa sulla madre Clitennestra. Un braccio bianco che si tende verso l’alto. Come a squarciare, se fosse possibile, le nubi che (nere) incombono. Per cercare uno spiraglio di luce. Un braccio che si tende a fatica, perché il peso che lo trascina verso terra, tenendolo ancorato alle radici, è enorme. Il peso del dolore. Il peso della tragedia. Il peso di un padre, che è Agamennone, morto ammazzato per mano dell’amante (che è Egisto) della sua sposa, ovvero Clitennestra. Il peso di una madre, sempre Clitennestra, morta ammazzata per mano del figlio, che è Oreste, chiamato a compiere la vendetta. Il peso del destino. Il peso dell’essere predestinati.
Il peso che Sofocle mette sul cuore di Elettra. Il peso che Richard Strauss mette sul cuore di Elektra, nome detto in tedesco perché Hugo von Hoffmansthal traduce e rimodella il testo greco. Un peso che, in un certo senso, Strauss mette anche sul nostro cuore, sul finire della sua partitura più sperimentale e più inquieta, quando Elettra, nel suo delirio, nella sua esaltazione tragica (a metà tra invasamento e orgasmo) per la vendetta che si è compiuta, danza su una musica bellissima e allo stesso tempo inquietante, che ti fa girare la testa.
Un braccio bianco che si alza. Che cerca di squarciare le nubi. Invano. Poi Elettra crolla su una sedia. Finisce così, immagine potente nella sua disarmante e astratta semplicità, Elektra di Strauss, titolo scelto da Antonio Pappano (che, incredibilmente, lo dirige per la prima volta) per inaugurare la stagione sinfonica 2022/2023 dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, la sua ultima da direttore musicale dopo 18 anni (alla prima più di dieci minuti di applausi). Una direzione tesa e bellissima quella di Pappano, capace di restituire la complessa scrittura di Strauss con una semplicità disarmante. Che avvince. Che cattura. Ti prende dalla prima all’ultima nota, tenendoti legato al destino di Elettra e di Oreste, spendo che (lezione della tragedia greca) è il destino di tutti gli uomini, già raccontato, già cristallizzato nel mito.
Così Elektra ancora oggi arriva in tutta la sua forza visionaria: a tirarti dentro la vicenda basta il primo accordo (bellissimo il suono dell’orchestra di Santa Cecilia, una folata di vento che ti spettina e ti lascia turbato per tutta l’ora e quaranta che ti aspetta, incredibile l’adesione dei musicisti al testo di Strauss, precisissimi, partecipi, appassionati), un accordo che diventa un grido che rompe il silenzio dell’attesa (prima del 18 ottobre, incredibilmente, non si era mai ascoltata a Santa Cecilia). Un magma di suono, impastato di parole. Le parole del dolore, ma anche della speranza per un’Elektra teatralissima, perché l’esecuzione in forma di concerto ha la stessa compostezza della tragedia greca, tutta centrata sulla forza del testo, azione modellata sulla parola, parola che è azione. Arriva, Elektra, in tutta la sua inquietante verità, quella di una musica (la partitura è del 1909, andata in scena la prima volta a Dresda) che ti butta in faccia le grandi domande dell’esistenza, i punti interrogativi sulla morte e sul dolore, sul senso della vita. Una riflessione sull’essere madre, sul significato profondo del dare (e del togliere) la vita. Perché Crisotemide sogna di diventare madre – bellissimo, sensuale e tenero il monologo in cui evoca, grida il suo bisogno «di figli, prima che sfiorisca il mio corpo». Perché Clitennestra si interroga su cosa (e soprattutto su chi) la sua maternità ha generato. Elettra vuole uccidere la madre (Edipo deve uccidere il padre) per essere finalmente se stessa. Potenza e al tempo stesso inquietante squarcio sull’anima dell’uomo che la tragedia greca ci offre.
Ce lo ricorda la sconvolgente (perché impastata di vita, ruvida come spesso la vita sa essere) interpretazione di Ausriné Stundyté, musicista straordinaria che domina con una voce potente e bella, tagliente morbida, inquieta e rassicurante, giuducante e suadente, la scrittura titanica di Strauss: il soprano di Vilnius mette nel suo canto tutta la verità di un personaggio al limite della follia, è costantemente sul palco e fatichi a toglierle gli occhi di dosso per il carisma che ogni suo gesto, anche il più piccolo, trasmette, marchio di fabbrica di una grande interprete, che lascia il segno scenico anche in un’esecuzione in forma di concerto. Una lucida follia. Lo senti nei serrati confronti con la sorella Crisotemide alla quale Elisabet Strid offre il suo timbro lucente. Lo capisci bene nello scontro con Clitennerstra, una dolente e fascinosa Petra Lang che fa della sua regina sfatta un personaggio alla Testori, uno degli scarrozzanti che lo scrittore di Novate ha raccontato tra mito e quotidianità. Incontro scontro tra una madre e una figlia, tra due visioni di maternità – Clitennestra genera l’odio, Elettra genera la vendetta ed entrambe sono destinate a soccombere – momento che Pappano, colorandolo di struggente malinconia oltre che di rabbia, fa diventare il cuore pulsante della sua lettura. Ne hai la certezza, che quella di Elettra sia una lucida follia, nei dialoghi con Oreste ed Egisto ai quali danno la giusta tragicità Kostas Smoriginas e Neal Cooper, composta e necessaria tragicità quella di Oreste, tragicomicità quella di Egisto.
Tragicomicità che è la stessa del mondo che ruota intorno alla corte di Micene, specchio e visione da incubo del nostro mondo nell’universalità che gli offre la tragedia greca. Un mondo dove si muovono le cinque ancelle (tutte bravissime, tutte voci da protagoniste che qui danno una marcia in più all’incipit di Strauss) di Ariana Licas, Anne Schuldt, Monika-Evelin Liiv, Katrin Adel e Alexandra Lowe. Dove il Giovane servo di Leonardo Cortellazzi (cameo di lusso per il tenore) dialoga con il Vecchio servo di Andrea D’Amelio, artista del coro di Santa Cecilia, come la Sorvegliante, la Confidente e l’Ancella dello struscio di Maura Menghini, Marta Vulpi e Bruna Tredicine. Come le sei serve di Cristina Cappellini, Sara Fiorentini, Antonella Capurso, Roberta De Nicola, Federica Paganini e Tiziana Pizzi. Alzano le amni al cielo. Sconvolte dalla mattanza. A cercare, come Elettra, di squarciare le nubi nere. Invano.