Il dramma buffo di Mozart nel circuito di OperaLombardia Regia di Martone, sul podio il 22enne Riccardo Bisatti Protagonisti i giovani vincitori del concorso AsLiCo 2022
Anche a metterti d’impegno proprio non riesci, alla fine del Don Giovanni, a gioire per la punizione del «dissoluto». Non riesci a solidarizzare con le sue “vittime”, donne che lui ha amato – e che si sono lasciate amare, anzi si sono fatte amare perché non c’è mai violenza nelle conquiste del burlador come lo racconta in musica Wolfgang Amadeus Mozart. Non riesci a solidarizzare con gli uomini “traditi”, tutti riassunti in un’unica tipologia, ben raccontati dalla personificazione dell’inettitudine maschile che è Don Ottavio. Dichiarazione politicamente scorretta, sì. Ma proprio non ce la fai a godere mentre Don Giovanni viene trascinato tra le fiamme dalla statua del Commendatore, monito tragico di un’etica (laica, la religione stavolta non c’entra nulla) marmorea e granitica che dovrebbe guidare l’azione dell’uomo. Anzi, provi un certo disagio davanti a quelli che gli fanno (e che ti fanno) la morale spiegandogli (spiegandoti) che «questo è il fin di chi fa mal». Sprofondare nell’inferno, appunto. Perché «de’ perfidi la morte alla vita è sempre ugual». Un brivido. E qui al disagio si aggiunge l’irritazione. Il fastidio. Tanto più che quelli che gioiscono della punizione del «dissoluto» non sono poi così tanto felici. Perché Donna Anna rimanda ancora di un anno il suo matrimonio con Ottavio (nella speranza che dall’inferno torni Don Giovanni a portarla via dall’inetto fidanzato?), Elvira se ne va «in un ritiro a finir la vita mia», Masetto e Zerlina tornano a casa per una mesta cena, senza la scossa di adrenalina delle “cene eleganti” a casa del libertino, Leporello va «all’osteria a trovar padron miglior», ma non è detto che lo trovi, almeno Giovanni lo pagava e lo sfamava.
Sepolcri imbiancati, verrebbe da dire… come quello del commendatore, bianco cadaverico nella statua imponente che si presenta a cena per portare Don Giovanni tra le fiamme dell’inferno. E a loro Mozart ride in faccia. Perché hanno proprio il precipitare di una risata beffarda le note che, dopo il sestetto di quelli che ci fanno la morale, chiudono il Don Giovanni – meglio Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, libretto inarrivabile di Lorenzo Da Ponte datato 1787 e definito, appunto, dramma giocoso che parte con un accordo drammatico si chiude con una risata, giocosa. Basta fare la prova, riderci sopra quella manciata di note, e tutto torna. Torna il disagio, torna l’irritazione, torna il fastidio nei confronti di questa piccola umanità, borghesi e contadini di una città della Spagna – il tempo non è indicato perché una storia così non ha, non può avere tempo – raccontati da Mozart. Torna l’affetto (la pietas) per un uomo che da subito cerca attraverso l’amore, la conquista compulsiva, il sesso di sfuggire alla morte – eros e thanatos, la pulsione di vita e la pulsione di morte come avrebbe teorizzato poi Freud, riassumendo quello che la letteratura da sempre racconta. Amore e morte – subito all’inizio Don Giovanni compie, come gli dice Leporello, «due imprese leggiadre, sforzar la figlia ed ammazzare il padre» – impastati indissolubilmente nel Don Giovanni che torna nel circuito di OperaLombardia (torna ciclicamente nel cartellone perché è uno di quei capolavori che vanno riascoltati per farli parlare “al” e “del” tempo presente), inaugurando la stagione 20220 – debutto a Como, passaggio da tutto esaurito al Fraschini di Pavia, seconda metà di ottobre tra Brescia e Cremona.
Il dissoluto punito, detto così potrebbe essere una sentenza. Emessa da un tribunale che, ricostruiti i fatti, analizzate le prove, sentiti i testimoni, condanna il dissoluto. Lo punisce. E in un aula di tribunale (che potrebbe essere anche un’arena o un Globe) si svolge lo spettacolo di Mario Martone (allestimento del San Carlo di Napoli, ripreso da OperaLombardia che coproduce con Parma e Reggio Emilia), ripreso da Raffaele Di Florio. Una tribuna. Fatta di legno. Che incombe sul proscenio. Passerelle, sempre di legno, che avvolgono l’orchestra (a dire che il teatro di Mozart parte è parola e musica) e portano l’azione in primo piano, la portano dentro la platea. Così siamo anche noi dentro l’azione. Pubblico, ma anche giuria popolare, che assiste al processo. Come gli uomini e le donne seduti sulla tribuna. Tra loro anche i personaggi del dramma. Nella doppia veste di testimoni e giurati, di imputati e giudici. Quando la musica li chiama vengono in proscenio, al banco degli imputati, alla sbarra a fare da testimoni. Dicono la loro verità che non è mai una, ma piuttosto variazione sul tema, declinazione non sempre disinteressata dei fatti – d’altra parte Donna Anna nel suo resoconto dell’uccisione del padre, «Era già alquanto avanzata la notte…», racconta una versione diversa da quella che abbiamo visto all’inizio dell’opera, si contraddice, vacilla…
“Tradizionale”, con la scena fissa di legno e i costumi d’epoca e gli oggetti di scena come richiede il libretto (tutto disegnato da Sergio Tramonti mentre le luci sono di Pasquale Mari), lo spettacolo di Martone. Moderno, modernissimo nella verità con cui disegna i personaggi, i loro caratteri, i loro tic, avvicinandoceli e imparentandoli con chi ci passa quotidianamente accanto. E così li racconta dal podio anche Riccardo Bisatti, con un gesto elegante e ieratico, ben calibrato per quel che riguarda l’affondo sinfonico in orchestra, preciso, ma con margini di miglioramento (che arriveranno con l’esperienza e la gavetta) nell’accomoagnamento delle voci. Ventidue anni. Un filo di incoscienza, forse, nell’affrontare una di quelle partiture dentro le quali c’è la vita. Ma la scommessa è vinta. Grazie ad un talento indubbio che vede il direttore protagonista di una lettura profonda e intensa del dramma mozartiano che arriva in tutta la sua composta e al tempo stesso febbrile bellezza – ma i tempi scelti da Bisatti non sono mai indiavolati, anche nei momenti più concitati, così da far respirare la musica, ben resa dall’orchestra dei Pomeriggi musicali. Un Mozart dove tutto, musica e parole, ha il giusto peso, leggero e solenne al tempo stesso. Dove il canto è sempre teatrale.
Merito del podio. Merito degli interpreti, molti dei quali vincitori del Concorso AsLiCo 2022. Come il protagonista Guido Dazzini, che ha presenza scenica e voce ideali per Don Giovanni, canto nobile e avvolgente, bel timbro baritonale, giusto fare da spaccone per raccontare il perverso gioco di amore e more del «dissoluto». Vincitore AsLiCo anche Adolfo Corrado che fa un centratissimo Leporello (acclamatissimo dopo il Catalogo e agli applausi finali) grazie a una voce bella e piena, a una tecnica solidissima e a un carisma scenico davvero notevole. Mozartiano (e meno ingenuo di come lo dipingono di solito) il Masetto di Francesco Samuele Venuti che ha a fianco la Zerlina gustosa e musicalissima di Gesua Gallifoco. Elisa Verzier è una dolente Donna Anna, voce di cristallo, acuti sicuri, giusta partecipazione al dramma del suo personaggio. Fin qui i vincitori AsLiCo. Marianna Mappa, che arriva dalla fucina della Fabbrica del Teatro dell’Opera di Roma, è un’Elvira che lascia il segno per autorevolezza e forza scenica e vocale, risoluta nell’«Ah chi mi dice mai», malinconica nel «Mi tradì». Didier Pieri, pur non avendo una voce propriamente mozartiana, risolve con eleganza la parte di Don Ottavio – ma, scelta di cui non si capisce il perché (musicale e drammaturgico), canta la sua prima aria, «Dalla sua pace», non dopo che Donna Anna riconosce in Don Giovanni l’assassino del padre, dove Mozart la collocò quando mise mano alla versione di Praga per Vienna, ma subito dopo la scena iniziale dell’uccisione del Commendatore. Che è un non sempre impeccabile Pietro Toscano.
Giudice che condanna, questo Commendatore che Martone fa apparire bianco e imponente. Pronto a sprofondare nelle fiamme dell’inferno insieme a Don Giovanni mentre la gradinata implode. Non c’è più nessun giudice. Ci siamo noi, in platea. Che abbiamo visto la ricostruzione dei fatti, abbiamo analizzato le prove, abbiamo sentito i testimoni. E, mentre i sei superstiti ci fanno (gli fanno) la morale, proprio non riusciamo a gioire per la punizione del «dissoluto». Non riusciamo a solidarizzare con le sue “vittime”. Non riusciamo a condannare Don Giovanni.
Nelle foto @Alessia Santambrogio Don Giovanni di OperaLombardia