Al Festival Verdi la versione del 1857 del Boccanegra portata da Valentina Carrasco negli anni ’70 tra gli operai che lavorano in una macelleria tra enormi quarti di bue Dirige Frizza, cantano Stoyanov, Mantegna e Pretti
Che Verdi, Giuseppe Verdi, «non era mica un macellaio» lo sapevamo. Senza bisogno che ce lo ricordasse la loggionista di turno – con una voce, in verità, più malinconica che arrabbiata – in apertura di secondo atto del Simon Boccanegra al Teatro Regio di Parma. Cupa apertura di secondo atto, perché si trama la morte. Una puntualizzazione, quella del Verdi macellaio, che arriva mentre sul palco avvolto dal silenzio, senza musica che sale dalla buca dell’orchestra (ingenuità registica il silenzio nel quale si è insinuata la contestazione o buco voluto per lasciare sfogare lì e non durante il canto le proteste?), appaiono quarti di bue, appesi. Macellati e messi lì a frollare. Carne da macello, mentre si progetta un delitto. Sangue che cola, mentre si pensa di far scorrere altro sangue. Appesi, quei quarti di bue, in un capannone/cella frigorifera che affaccia sul porto di Genova: le gru, il cielo grigio, il mare immobile. Terreno di scontro, il mattatoio, tra fazioni di operai. La tensione, come si dice, si taglia con il coltello. Come la carne sui banchi di lavoro. Un clima plumbeo, da anni di piombo. Siamo nel pieno delle proteste sindacali degli anni Settanta, Simone è un leader operaio (non più il doge del libretto di Francesco Maria Piave), un sindacalista scelto dal consiglio di fabbrica negli anni Cinquanta e ancora in carica – il libretto di Francesco Maria Piave fa passare venticinque anni tra il prologo e le vicende raccontate nei tre atti dell’opera –, un tipo alla Terry Malloy di Fronte del porto nel prologo e un po’ il Libanese di Romanzo criminale nell’opera, nei costumi ben caratterizzati di Mauro Tinti. Leader suo malgrado, mandato avanti a fronteggiare i padroni, assorbito dalla lotta talmente tanto da mettere in un angolo gli affetti. E che come tutti i leader ha i suoi oppositori. Quelli che vogliono farlo fuori e prenderne il posto. Farne carne da macello.
Come quella che è lì appesa, nella visione potente dei quarti di bue – le scene sono di Martina Segna. Visione alla Francis Bacon. Realistica ai limiti della nausea. Che disturba, certo. E non poco. Ma che racconta bene quella carne viva, grondante sangue che è, a ben vedere, la stessa carne di Simone. Vivo, ma fatto carne da macello, appunto, dal popolo che vuole un leader, un uomo di lotta e non di governo. Ma lui, Simone, è uomo di pace – e anche per questo non piace a tutti. Agnello condotto al macello in una via dolorosa che è lo spettacolo firmato per il Festival Verdi dalla regista argentina Valentina Carrasco. Crudo. Duro da “digerire”. Ma verdiano nel profondo. Non solo. Evangelico, marcatamente evangelico. Perché «se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto». Pensi al passo evangelico di Giovanni mentre Simone, ormai morto (avvelenato dai rivali), viene ricoperto da spighe di grano. Sepoltura lieve. Poetica. E profetica… «se il chicco di grano caduto in terra…». Immagine potente e abbagliante, nel giallo del grano e nel bianco dei costumi e nel chiarore delle luci (di Ludovico Gobbi) che ti accecano (straniante la comparsa in scena dei proiettori) dal fondo del palco. Popolato, nel finale rarefatto dove la marcia funebre diventa quasi una ninna nanna, di uomini vestiti di bianco. «Sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello» il paradosso dell’Apocalisse che ti si affaccia alla mente. E che si materializza in scena: uomini e donne vestite di bianco, ricoprono di spighe Simone. Una di loro ha in braccio un agnello. Vivo.
Immagine che ti resta stampata negli occhi, come luce abbagliante che scontorna le immagini, del Simone secondo Valentina Carrasco. Presentato a Parma nella prima versione, quella scritta da Verdi per la Fenice di Venezia nel 1857, poi completamente ripensata nel 1881 per il teatro alla Scala di Milano. Giustamente – per il rilievo scientifico che un festival come il Verdi di Parma deve avere – proposto nella prima versione, dopo che lo scorso anno, seppur in forma di concerto, si era ascoltata la versione definitiva. La partitura è sul leggio di Riccardo Frizza che non ha paura (anzi, è questa la forza della sua lettura) di restituirla in tutta la sua incompiutezza, nel suo essere “laboratorio” del Verdi che verrà. E non solo nel Boccanegra del 1881. Perché, inutile negarlo, nelle orecchie hai il Boccanegra definitivo, compiuto e perfetto, musicalmente e drammaturgicamente, figlio del suo tempo, un tempo in cui Verdi era tra Aida e Otello. Mentre il Simone del 1857 arriva tra la Trilogia di Rigoletto, Trovatore e Traviata e Un ballo in maschera. Con qualche radice affondata ancora nel belcanto (quella di Amelia è l’ultima cabaletta che Verdi scrive per un soprano in una scena che comprende recitativo, aria e cabaletta) e nella forma a numeri chiusi, ma con lo sguardo rivolto già in avanti, work in progress verso un racconto musicale dal flusso continuo, sempre più teatrale, sempre più drammatico, banco di prova per sperimentare colori e suoni drammaturgici e capaci di sporcarsi le mani con la vita. Di incarnarsi.
Come suggerisce la Carrasco. Con i suoi quarti di bue appesi. Che si moltiplicano. Diventano labirinto nel quale i personaggi, con il loro carico di dolore, si perdono. Si inseguono senza mai trovarsi davvero. Visione alla Francis Bacon. Alla Giovanni Testori, il poeta della carne viva – e ti sembra di sentirla la voce quasi afona dello scrittore di Novate che dice i versi di In Exitu o Factum Est contrappuntando la musica di Verdi incarnata nelle immagini della Carrasco. Carne viva, appunto, che palpita e che sanguina, che ama e che soffre. Che si offre. Come Simone. Leader suo malgrado. Eletto dal popolo (degli operai) che vede in lui un possibile uomo forte, per denunciare le ingiustizie, per tenere testa ai padroni. Vittima, però, di logiche perverse. Di fazioni. Di chi non si riconosce in un uomo di pace e vorrebbe solo violenza. Immagine senza tempo. Immagine che attraversa il tempo e arriva sino a noi. In questa via dolorosa che la Carrasco fa percorrere a Simone.
Tutto inizia nel buio di una macelleria. Dove Simone è scelto (imposto) come leader (il libretto, lo sappiamo, ci dice come doge) per arginare il potere dei Fieschi che «taceranno». Simone il corsaro, l’uomo di lotta. Che nasconde un segreto. Una ferita. La figlia perduta. Che ritrova in un mondo incontaminato (il tema della tutela dell’ambiente scorre sul fondo del racconto della Carrasco), in quella serra di fiori coltivati da Amelia/Maria, un container che si apre e scopre una serra da catalogo di arredi da giardino, fiori dai colori pop. Un mondo dove tutto sembra essere bello, paradiso (perduto) terrestre dal quale la ragazza sarà strappata a forza. Perché la violenza, il male, serpeggiano, circondano quel mondo incontaminato e lo avvolge con ombre lunghe e inquiete. Ed ecco le trame di Paolo, che si svelano in una festa in fabbrica, tra bandierine colorate e salamelle grigliate. La scena di popolo (benissimo il Coro del Regio di Martino Faggiani) che nel Boccanegra del 1881 diventerà il cuore dell’opera, la scena del Consiglio dove Boccanegra andrà «gridando pace… gridando amore». Perché il Simone del 1857 è meno politico. Più intimo. Più “sentimentale”. Più di pancia. E dunque una lettura cruda non stride. Anche se la Carrasco non rinuncia a dare una connotazione politica – che passa attraverso l’ambientalismo, la lotta per i diritti, il riscatto delle classi operaie – al suo Simone. Più Simone quello del 1857 perché al centro ha l’uomo, più Boccanegra quello del 1881 perché racconta il doge.
Anche se, lo sappiamo, Verdi pur dipingendo, in musica, il ritratto di un personaggio pubblico racconta sempre l’uomo. Come fa Frizza dal podio della Filarmonica Arturo Toscanini. Una lettura, quella del direttore d’orchestra bresciano, tesa e appassionata, dal respiro ampio, capace di sbalzare tutti i colori attraverso i quali Verdi racconta le vicende di Simone. C’è l’impeto giovanile, c’è la lotta, c’è la maturità di un uomo solo al comando nel Simone di Frizza che mette in luce il già e il non ancora della partitura, il Simone che è e il Boccanegra che verrà. Aspetti che ben si ritrovano e si compenetrano nel Simon Boccanegra di Vladimir Stoyanov, interprete sensibilissimo, che fa un doge tutto ripiegato su se stesso, intimo, meditato. Il baritono (ogni volta ascoltarlo è un piacere e ogni volta è un piacere apprezzarne la costante e compiuta maturità) colora di malinconia il suo Boccanegra, riservando accenti struggenti al Simone privato, al padre che cerca la figlia e che muore invocando la sua Maria – l’amore di un tempo o la figlia di oggi? Il dubbio resta ogni volta che ascolti questa pagina. Ritratto di un uomo, prima che dei un leader quello di Stoyanov. Come capita con il Fiesco di un convincente Riccardo Zanellato, prima freddo calcolatore, poi vecchio che cede al dolore, lasciandolo penetrare nella sua carne.
I “cattivi” (nonostante i nomi da santi, Paolo e Pietro) sono Devid Cecconi e Adriano Gramigni, che offrono le loro voci piene (basta ascoltare come si stagliano nei concertati), belle, timbrate ai due fedelissimi del leader, centrandone bene la caratterizzazione scenica. Un mezzo cattivo è Gabriele Adorno che ha lo squillo limpido e arioso (qui insolitamente venato di malinconia) di Piero Pretti, sicuro in acuto, avvolgente nei centri, affascinante nel fraseggio e nella teatralità con la quale restituisce la parola verdiana. Come fa Roberta Mantegna che con Amelia, personaggio che le calza alla perfezione, aggiunge un ulteriore quadro alla sua galleria di ritratti femminili in musica. Voce verdiana, tecnica sicura (tra belcanto e scrittura del Verdi maturo), la Mantegna commuove per come aderisce sorprendentemente al travaglio tutto interiore del suo personaggio. Affiancando il (ritrovato) padre nella sua via dolorosa di agnello condotto al macello.
Verità e attualità di Verdi. Che, lo sappiamo, «non era mica un macellaio». Ma ha saputo e sa ancora lacerare la nostra carne. E far sanguinare la nostra anima.
Nelle foto @Roberto Ricci Simon Boccanegra al Festival Verdi di Parma