Al Festival Verdi di Parma un’intensa Messa da Requiem con le voci di Rebeka, Abrahamyan, Pop e Zanellato Mariotti dirige l’Orchestra Rai e il coro del Teatro Regio
D’accordo, il Dies Irae ti fa fare un salto sulla poltrona e il Tuba Mirum, dove ti avvolgono le trombe del giudizio, ti proietta nella vertigine del giudizio universale. Ma l’attacco in pianissimo dell’Ingemisco, il nervosismo e le frasi spezzate del Lascrymosa, la lama tagliente del Lux Aeterma, il canto che diventa quasi parola nel finale del Libera me Domine ti spiazzano. Non suonano “rassicuranti”, se tali possono essere note e parole che evocano la morte, come spesso accade quando si ascolta la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi. Stavolta ha dentro qualcosa di inquieto il Requiem. Quello che Michele Mariotti dirige al Teatro Regio di Parma per l’edizione 2022 del Festival Verdi.
Ha dentro una domanda, una sfida a Dio che assomiglia tanto a quella di Giobbe che nel racconto biblico, di fronte al dolore della separazione, chiede «perché mi fai questo?», sentendosi rispondere un secco «dove eri tu quando io creavo le stelle del cielo?». Risposta con la quale per Mariotti dio «sommerge Giobbe di bellezza». Forse, però, non basta. Perché ha dentro qualcosa che non ti lascia tranquillo il Requiem di Mariotti. Certo, la morte non può lasciare tranquilli. Quantomeno indifferenti – anche se, lo sappiamo, la morte di tanti sotto le bombe, in mezzo al mare, in un continente che non ha cibo, spesso lascia (tragicamente) molti indifferenti. La morte non dovrebbe fare questo effetto. Dovrebbe (sempre) inquietare, nel senso di non lasciare quiete, requie per dirla con una parola latina che ha a che fare con la musica della Messa verdiana e con la liturgia. Anche se capita – spesso nel mondo dell’opera – che la morte sia idealizzata. Esaltata. Resa “bella” da una confezione romantica che i grandi autori del melodramma ottocentesco le hanno costruito intorno.
Nel Requiem di Verdi, però, non è così. Non è così nella lettura della grande pagina che Mariotti affronta con l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai e il coro del Teatro Regio e le voci di Marina Rebeka, Varduhi Abrahamyan, Stefan Pop e Riccardo Zanellato. Non c’è nulla di rassicurante, nulla di “bello”, inteso come un bello estetico fine a se stesso, nel Requiem di Mariotti che inizia con un pianissimo che è preghiera umanissima e tutta interiore sul Requiem aeternam. La musica di Verdi è bella, può essere esteticamente appagante. Ma farla così, restituendola nella sua pur compiuta perfezione, non avrebbe senso. Perché ogni nota della Messa da Requiem è modellata sulla parola. La parola della liturgia funebre. Dove echi dell’Apocalisse raccontano il Dies Irae, il «giorno dell’ira in cui distruggerà», il soggetto però non è indicato, in cui «distruggerà il mondo nel fuoco». Raccontano il giorno nel quale Liber scriptus proferetus, nel quale sarà «aperto il libro dove tutto è scritto». E «io che sono misero chi chiamerò in mia difesa», Quid sum miser tunc dicturus? Ecco la sfida di Giobbe, che da’ del tu a Dio, che gli chiede perché. Ma anche, nel Requiem, di Recordare che «sono la causa» del tuo esserti fatto uomo e di essere morto in croce. «Prendo la Bibbia e rileggo il Libro di Giobbe ogni volta che devo dirigere la grande pagina sulla morte scritta da Verdi nel 1874. Sentire il Dio di Giobbe nel terrore del Dies Irae è facile. Ma il cuore della Messa non è solo qui, non solo nelle trombe del Tuba Mirum perché la partitura ha pagine introspettive, delicate, dove a prevalere è il dubbio più che il dolore gridato» racconta Mariotti.
Ecco allora l’inizio in pianissimo, quasi alito di vita che si alza al cielo, dell’Ingemisco, la preghiera dell’uomo che piange perché sa di essere peccatore. Dove c’è uno sguardo umanissimo. «Quello di un uomo non fragile, ma meno sicuro, che si sente piccolo di fronte alla grandezza di chi lo governa. Un uomo che si pone delle domande. Le domande esistenziali di Giobbe, quelle che rivolge a Dio. Le nostre domande di fronte alla morte» riflette ancora Mariotti che fa un Lacrymosa dove le frasi si spezzano, le parole restano quasi in gola mentre la musica prende l’andamento di una marcia funebre inquieta. Sulla quale si staglia il miracolo dell’Hostias, un pianissimo immacolato e contemplativo introdotto, però, da un tremolio dei violini.
Una scarica. Una scossa. Che inquieta. E che non lascia tranquillo. Come le tre invocazioni all’Agnus Dei «dove il Qui tollis peccata mundi non è l’arrivo di qualcuno che cancella le colpe, ma le prende su di sé» riflette Mariotti che le vuole asciutte, dirette. Come il Lux Aeterna, tagliente e secco, dove c’è qualcosa di ancestrale. Che apre allo sguardo sul baratro, all’affaccio sull’abisso che è il Libera me Domine. «Immagine di una pacificazione finale. Come dopo la lotta di Giobbe con Dio. Con l’uomo che dice che ha capito che non gli è dato di capire, ma accetta questa situazione dove il male fa parte della vita. Che arriva anche nell’accordo in maggiore che chiude il Requiem». Un sussurro. Un canto che si fa parola, frammentata, sillabata «li-be-ra-me». La “dice”, insieme al coro ben preparato da Marino Faggiani, Marina Rebeka, voce splendida, capace di illuminarsi di cielo e di scendere negli abissi del dolore con una facilità e una verità che affascinano e stordiscono. Voce “verdiana” perché racconta, inquietando, la bellezza di una musica impastata di morte, ma anche illuminata a tratti dalla speranza in quel Libera me sussurrato dal coro e dal soprano, approdo di un viaggio nel dolore alla fine del quale un dubbio resta. Un punto interrogativo che non lascia tranquilli, che inquieta, che interroga nel profondo. Dopo il quale c’è solo il silenzio. Il lungo silenzio che resta in teatro mentre la musica svanisce e Mariotti resta immobile, la bacchetta a mezz’aria, a cercare una risposta che solo la vita – che riparte dopo la sospensione meditativa del tempo musicale – può dare.
Nelle foto @Roberto Ricci la Messa da Requiem al Festival Verdi di Parma