Il Festival Verdi di Parma inaugura con La forza del destino affresco popolare che racconta l’inutilità di tutte le guerre Sul podio Roberto Abbado, spettacolo di Yannis Kokkos Eccellente la squadra vocale in scena capitanata da Kunde con Enkhbat, Monastyrska, Stroppa, Mimica e De Candia
La guerra non «è bella», come canta Preziosilla che la esalta con un «evviva». Lo sappiamo che la guerra non «è bella», qualcuno forse non vuole ammetterlo, inebriato com’è dall’odore del sangue (o dal delirio di onnipotenza). Se occorresse una conferma che la guerra non «è bella», come canta appunto Preziosilla spingendo i ragazzi al reclutamento (e oggi, gancio drammatico con la nostra attualità, c’è chi li chiama alle armi per legge mentre loro cercano di fuggire), se occorresse una conferma basta guardare le immagini che ogni giorno arrivano dall’Ucraina – ma potrebbero essere benissimo le immagini di uno qualsiasi dei numerosi focolai accesi in quella che Papa Francesco prima definiva «terza guerra mondiale a pezzi», ma che ora non esita a chiamare «terza guerra mondiale totale». La guerra non «è bella». Con buona pace di Preziosilla. Perché la guerra deforma. Distorce. Fa vedere il mondo attraverso una lente di ingrandimento che falsa la realtà (chiamiamola anche verità). La deforma, appunto, modificandone i contorni e restituendola quasi irriconoscibile. La rende inquieta e inquietante.
Come inquiete e inquietanti sono le facce – facce allungate, facce scheletriche, ghigni sinistri e inorriditi come il volto livido dell’Urlo di Munch – dei militari e del popolo che, inebriati dall’odore del sangue, cantano Rataplan «pim-pum-pam», immaginifica pagina verdiana che anticipa di decenni le invettive futuriste di Marinetti e soci. Avanzano quei militari e quel popolo guidati da una Preziosilla in un inquieto e inquietante costume alla Portiere di notte (canotta, bretelle, pantaloni infilati negli stivali e in testa un cappello) verso il proscenio. Avanzano come in un Quarto stato da incubo. E ti buttano in faccia il loro Rataplan «pim-pum-pam». Sghembi e sinistri. Figure di un cabaret espressionista dove si canta e si balla e si ride sguaiatamente mentre sta per scoppiare il male. Deformati, questi strani personaggi, dalla lente di ingrandimento della guerra. Che distorce tutto.
Ecco la cifra, che è poi l’unica vera idea drammaturgica di uno spettacolo dall’impianto (e dalla recitazione, spesso lasciata ai singoli interpreti che disegnano con gesti codificati i loro personaggi) tradizionale se non tradizionalissimo, de La forza del destino, primo titolo del Festival Verdi 2022 del Teatro Regio di Parma – debutto contrappuntato dalle proteste di alcuni contestatori che a suon di fischietti (e poi di volantini lanciati dall’alto) hanno funestato ogni uscita sul podio di Roberto Abbado, “colpevole” di aver affidato il titolo inaugurale a orchestra e coro del Comunale di Bologna e non al coro del Regio; questione già peraltro chiarita con le maestranze artistiche locali, ma cavalcata da alcune associazioni musicali cittadine (politicamente? a fine anno scade il mandato di Abbado come direttore musicale e il direttore generale Anna Maria Meo lascerà, con qualche mese di anticipo, a fine festival e i giochi per la successione sono aperti).
Idea, si diceva, quella della guerra che non «è bella» e che deforma la realtà (la verità), che il regista Yannis Kokkos rende ben visibile nella scena del Rataplan alla fine del terzo atto (il quadro che Verdi dedica alla guerra in questa sua opera composita, sperimentale, ardita sia musicalmente che teatralmente). Guerra che, comunque, leggi in filigrana in tuto lo spettacolo (coprodotto da Parma con il Comunale di Bologna, il Massimo di Palermo e Montpellier) che porta integralmente la firma di Kokkos (l’artista franco-greco firma regia, scene e costumi di Forza, mentre la drammaturgia è affidata alla moglie Anne Blancard). Kokkos, in una narrazione agile, fedele al flusso musicale verdiano, racconta la guerra che si combatte con le armi, ma anche quella che scardina famiglie, che divide fratelli, che mina dal di dentro rapporti umani. Che sono poi le “guerre” che Verdi mette nella Forza. Opera che procede per grandi quadri – la taverna, il convento, il campo di battaglia, poi ancora il convento. Ma che parte da un interno, dove si consuma un delitto per caso, quello del marchese di Calatrava da parte di don Alvaro.
Un interno borghese, lineare e settecentesco. Poi un colpo di pistola che cadendo a terra uccide. E inizia la guerra. Inizia un incubo. Kokkos lo racconta deformando la realtà. Come avviene nei sogni, appunto. Scenografie dal tratto marcato, sghembe, inclinate a raccontare un mondo fuori asse, un mondo che vive l’incubo della guerra: una cancellata, una croce, la chiesa, tutti in equilibrio precario, e gli edifici bombardati, i tanti troppi edifici sventrati che vediamo nei reportage di guerra, edifici di Kiev o di Sarajevo, ma anche brandelli delle Torri gemelle tra i quali si aggira un’umanità che vive fuori da un tempo connotato, ma che abita ogni tempo. Perché la narrazione di Kokkos corre attraverso i secoli, parte dal Settecento del libretto di Francesco Maria Piave e arriva a una modernità grigia e fumosa, quasi postatomica (drammatico monito per il nostro presente) fatta di ultimi che chiedono «fate la carità». Perché privati di tuto dalla guerra.
Eccoli, vuoti e inquieti, i personaggi del grande romanzo in musica che è la Forza. Leonora, Alvaro, Carlo (ma anche il padre Guardiano, Melitone, Preziosilla pure loro in guerra con il mondo e con se stessi e con le regole e con le convenzioni) fuggono l’uno dall’altro, si inseguono senza trovarsi mai e senza mai ritrovarsi. Se non nel finale, quando la morte (che arriva come estrema vendetta, estremo atto di una guerra dove la pietà è bandita) apre le porte ad un mondo, una «promessa terra» dove «cesserà la guerra» e dove «santo l’amor sarà». La guerra che si combatte con le armi, certo. Ma soprattutto la guerra interiore che i personaggi vivono. E combattono. Uomini tra gli uomini. Ed è – questa guerra interiore – il centro della lettura di Roberto Abbado. Il direttore musicale del Festival Verdi restituisce la partitura, presentata in edizione critica senza tagli (ed è così che dovrebbe essere sempre ascoltata!) nella versione del 1869 della Scala, nella sua complessa poliedricità, sin dalla sinfonia. Inquieta e asciutta. Come il racconto di Abbado che procede per grandi quadri, per campate ampie, un lungo piano sequenza musicale che fa dell’opera un kolossal cinematografico, ma anche una serie di quelle che oggi vanno per la maggiore. Diversi quadri/puntate, ognuno caratterizzato da un suo colore, da una sua luce. Sempre tendente al cupo, però. Il blu della notte nel primo atto, il grigio, come di una nebbia che non si è ancora diradata, nel secondo (tutto spirituale) atto, il rosso e il nero del sangue delle armi nel terzo, un azzurro polvere nel quarto atto che si rischiara solo nel finale. Un chiarore che è si rarefatto (come la musica che si spegne nel silenzio) e proteso al cielo, ma che forse non è proprio così aperto alla speranza. Lo dice quella camminata verso il fondo della scena, tra le rocce, di don Alvaro, mentre Leonora è morta in proscenio: immagine che resta in sospeso mentre il buio avvolge tutto e che non può non far pensare al primo finale pensato da Verdi per l’edizione del 1862 di San Pietroburgo, che si chiude con il pessimismo del suicidio di Alvaro.
Una lettura tesa, quella di Abbado, ben assecondata da orchestra e coro del Comunale di Bologna e da una squadra di interpreti capitanata da un (ogni volta sempre più) sorprendente Gregory Kunde, che disegna un Alvaro lirico e malinconico, più romantico che eroico, grazie ad una voce che il tenore riesce con grande intelligenza a far aderire alla scrittura verdiana – bellissima la sua O tu che in seno agli angeli, commovente il Solenne in quest’ora. Commuove Kunde nella disperata parabola di Alvaro quanto irrita Amartuvshin Enkhbat (ma perché a irritare è il suo personaggio, negativo e pessimo sino alla fine) che ben rende l’imperturbabile freddezza di Carlo, antagonista che il baritono riveste della sua bellissima voce, timbratissima e musicalissima, che esce facile e avvolge chi l’ascolta. Liudmyla Monastyrska è una Leonora solida, affidabile perché non sbaglia un acuto e un accento, ma il personaggio resta tale e non si incarna in un’umanità di cui la donna che cerca nella fede la pace dalla guerra familiare trabocca.
La cerca affidandosi al padre Guardiano, tormentato, ma sempre roccia solida a cui aggrapparsi, che Marko Mimica restituisce con la sua voce piena e bella, con un’intelligenza interpretativa e una partecipazione davvero notevoli. Come accade con il Melitone di Roberto De Candia, personaggio nel quale il basso-baritono mette la sua sapienza musicale dove la lezione rossiniana dei grandi interpreti di ieri (che De Candia ha fatto propria modellandola su una modernità di canto che ogni volta sorprende e convince) si unisce alla capacità di leggere nella scrittura verdiana per restituire al frate tutto il suo peso tragico (le gelosie, le arrabbiature… non possono essere solo caricatura comica), di uomo dalla fede semplice incarnata nella vita.
Vita, concreta e vissuta a mille, nella Preziosilla di Annalisa Stroppa, voce morbida e ampia, capace di affrontare con piglio ed eleganza la scrittura verdiana e di rendere credibile scenicamente un personaggio che Kokkos dapprima abbozza solo su vecchi stereotipi (i datatissimi passi di danza in proscenio sono francamente inguardabili) e poi rende inquietante nel suo Rataplan dove si canta, si balla (coreografie di Marta Bevilacqua) e si ride con ghigno sinistro (le facce inquiete e scheletriche sono amplificate nelle proiezioni di Sergio Metalli e illuminate da Giuseppe Di Iorio).
Quel Rataplan sul quale si staglia un’umanità che Verdi ben disegna nei piccoli ritratti che compaiono qua e là, dettagli, particolari preziosi di un grande quadro che fanno la differenza in un racconto dal respiro epico e popolare come la Forza. Così se Marco Spotti è un generico e non precisissimo Marchese di Calatrava, Andrea Giovannini ben caratterizza Trabuco (con una voce che mai è petulante o irritante, come spesso capita con questo personaggio). Natalia Gavrilan è Curra (in ogni opera che si rispetti non può mancare la confidente della protagonista), Jacobo Ochoa e Andrea Pellegrini mettono precisione e temperamento nel disegnare un Alcade e un Chirurgo.
Combattono. Lottano. Sono resi brutti, deformi, dalla guerra. Che non è, non può esserlo, non lo sarà mai «bella».
Nelle foto @Roberto Ricci La forza del destino al Festival Verdi di Parma