Biennale, in San Marco le Visioni sacre di Tulve

Nella basilica di San Marco a Venezia la prima assoluta della partitura commissionata alla compositrice estone Un lavoro creato su frammenti di sacre rappresentazioni Musicisti tra l’altare e le navate per un suono che avvolge

La sensazione più bella, quasi come di un abbraccio che ti avvolge, arriva nel cuore di Visiones. Un abbraccio che ti riporta all’infanzia. Alla prima volta che hai sentito pronunciare il tuo nome. Detto con una tenerezza, con un amore che cerchi per tutta la vita di ritrovare nell’inflessione di chi il tuo nome lo pronuncia ogni giorno. Arriva, quell’abbraccio, esattamente a metà del cammino – drammaturgico, musicale, emotivo. Perché ha questo andamento, di un cammino appunto, la partitura di Helena Tulve, Visiones, che è una Sacra rappresentazione contemporanea, costruita artigianalmente, nota per nota, sul modello dei Misteri medievali dalla compositrice estone alla quale la Biennale musica e la direttrice Lucia Ronchetti hanno commissionato un nuovo lavoro nell’ambito di Out of stage, la Biennale musica 2022, incentrata sul teatro musicale, ma su quello che avviene out of stage, lontano dal palcoscenico.

Siamo a Venezia. Nella basilica di San Marco. Che non è – non può esserlo per sua natura – un palcoscenico. Non lo è perché il mistero che si compie ogni giorno nella celebrazione eucaristica non è rappresentazione, ma è memoria, memoria viva, incarnazione che si avvera ogni giorno, in un eterno hic et nunc del sacrificio salvifico di Cristo. Non lo è nemmeno (o tanto più) in questa occasione in cui la musica di Helena Tulve diventa riflessione (al di là della fede e del credo di ciascuno) spirituale sul mistero della vita e della morte. Una riflessione che arriva tra i mosaici bellissimi e al tempo stesso fragili (come l’uomo) grazie alla Biennale musica che, in collaborazione con la basilica e la procuratoria di San Marco, ha voluto portare nella basilica l’evento centrale dell’edizione 2022 del festival. Visiones, appunto, in prima esecuzione assoluta la sera del 21 settembre, all’imbrunire, mentre l’estate trascolora nell’autunno nei colori unici di Venezia.

Sui gradini dell’altare della basilica di San Marco a Venezia, avvolto dall’iconostasi, Gesù. Il baritono che fa Gesù. Al centro del transetto, proprio sotto i mosaici che ti stordiscono di oro, le spalle al pubblico, Maria Maddalena. Il soprano che fa Maria Maddalena. «Maria» dice Gesù. Con quella tenerezza, quell’amore che ha il sapore della prima volta. Una prima volta che è una presa di possesso, un dare un nome alle cose e alle persone. Potenza creativa della Parola. «Rabonì» risponde la Maddalena, che era andata al Sepolcro, ma lo aveva trovato vuoto. Sconvolta perché «hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto». Chiede a quell’uomo che crede essere il custode dei sepolcri «se tu l’hai preso, dimmi dove lo hai portato e io lo prenderò con me». Ma poi quell’uomo le dice quel «Maria» carico di tenerezza e di amore. E lei capisce. Capisce che «il Signore è vivo». Che la morte non ha (non avrà) l’ultima parola.

Parole avvolte dalla musica semplice, lineare, quasi severa che Helena Tulve ha rimodellato a partire dai frammenti di manoscritti veneziani sacre rappresentazioni trovati nella chiesa di Santa Maria della Fava nel 1994 da Giulio Cattin (che li trascrisse) e ascoltati, nella loro frammentarietà, alla Biennale di quell’anno, per volere dell’allora direttore Mario Messinis – così questo Visiones diventa un doveroso omaggio di Venezia ai due studiosi. Frammenti (ma la partitura è monumentale, dura un’ora e mezza, come il Requiem di Verdi) che la Tulve impasta drammaturgicamente con passi del vangelo apocrifo di Maria Maddalena, dando forma a un Mistero, ma anche a una sinfonia sul modello di quelle “sacre” di Gustav Mahler – i sonagli che tornano ciclicamente nel Primo dialogo non possono non far pensare alla Quarta, alla Vita celeste, mentre il taglio decisamente speculativo del secondo dialogo che ha per protagonista l’anima (quello che conclude la partitura) richiama la struttura dell’Ottava, che dopo un roboante Veni Creator propone una riflessione filosofica sulla vita eterna con la scena finale del Faust di Goethe.

Tutto torna al silenzio iniziale. Quello dal quale la Tulve ha fatto cominciare la sua partitura. Un silenzio che evoca un buio. Il buio delle tre del pomeriggio sul Calvario. Siamo lì, piroettati nel cuore della scena del Golgota nel Flete, fideles anime, il Lamento della beata vergine Maria, prima statio di questa Sacra rappresentazione. Uno Stabat Mater (che sconfina anche nella seconda tappa del Mistero, il Planctus Mariae) che non è quello di Rossini o di Verdi, dove il dolore della Madonna sotto la Croce era filtrato attraverso gli occhi di chi oggi (o ieri) guardava alla drammatica scena lasciando risuonare in sé un sentimento di pietà. Quello della Tulve è uno Stabat Mater sceneggiato, dialogato, agito. Pieno di domande e di interrogativi, certo. Ma messi in bocca a chi quel momento lo ha vissuto. Il gregoriano (a cui la compositrice, che porta avanti la lezione di Arvo Pärt si rifà esplicitamente) racconta prima un dolore bidimensionale (come bidimensionali sono i mosaici dai quali sembra provenire il suono) che poi esplode in una scrittura tutta proiettata in avanti facendosi più che pianto trattenuto grido disperato. Te lo senti addosso, sulla pelle, ti martella in testa. Perché la Tulve in partitura scrive una “regia del suono” che è spazializzato all’interno della basilica. Nel transetto ci sono le Vox clamantis di Jann-Erik Tulve, nelle cantorie il coro della Cappella Marciana di Marco Gemmani, nelle navate le voci dell’ensemble barocco del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia di Francesco Erle, a gruppi di due, accompagnati da violini barocchi, viole e corni.

L’effetto da vertigine è quello di uno spiazzamento continuo, di un non sapere da dove provenga il suono – che non è solo quello delle voci, ma anche di sonagli e campane, suono fatto dal soffio del respiro (l’Heu me che chiude il Planctus Mariae) e dei colpi che i cantori si danno sul petto, gesto sonoro di un confiteor senza parole che apre il primo dialogo, incentrato sul peccato e sulla colpa. Cerchi il suono, lo rincorri per capire se arrivi da un’altra dimensione e ti accorgi che diventa proiezione delle voci interiori di chi prega, di chi piange e implora. Eco, voce di un popolo, tanto più che nelle prime due stazioni non è così netta la divisione tra “coro” e solisti, perché il canto di Maria è affidato a una voce singola, ma anche a tante voci, che si rincorrono, si fanno canto (e pianto) collettivo. Frammenti di melodie struggenti che si interrompono, si spezzano. Scompaiono. Proprio come le visioni che danno il titolo a questa partitura – il Calvario, la Croce, il Sepolcro. Frammentate, perché i manoscritti sono incompleti. Ma anche perché è la natura stessa della visione, l’essere indicibile.

«Ciò che è a voi nascosto ve lo rivelerò» dice Maria in copto, la lingua del vangelo gnostico della Maddalena nella stazione della Visione, quadro che introduce il cammino (ecco ancora la natura del Mistero della Tulve) al sepolcro. Scena dialogata, quella della Visitatio sepulcri in Pascha, dove la Tulve, con un meccanismo straniante, quasi brechtiano, ma anche ancorato alla parola e dunque a un aspetto “letterario” imprescindibile, mette in musica le didascalie – «Tutte le Marie dicano», «Allora l’Angelo dice», «L’Angelo, uscendo, le faccia entrare nel sepolcro» – affidate al canto del coro. Che si è raccolto in cerchio, nel lato sinistro del transetto. Perché oltre alla regia “sonora” della Tulve c’è una regia – ulteriore contributo alla spazializzazione del suono, al teatro totale che Visiones offre – affidata a Marius Peterson. Ecco il cuore della partitura, quell’abbraccio che racconta anche il cuore della fede cristiana, la Resurrezione. Che è detta con la parola dell’Alleluia. Ma soprattutto l’incontro con una persona. Da raccontare, come ha fatto la Maddalena, riferendo la sua visione ai discepoli – e qui la Tulve affida il canto di Maria a tutte le donne, che si fanno voci di chi ha visto, ma anche di colori i quali, nel tempo, «pur non avendo visto crederanno». Che dicono «Scimus Christum surrexisse a mortuis vere», che qui diventa un Credo illuminato dalla certezza di un secondo Alleluia, più luminoso e sfolgorante.

La visione terrena finisce. Inizia quella senza tempo dell’eternità. Il secondo dialogo dove l’anima racconta che «da questo momento in avanti sono destinata ad ottenere il resto del tempo in silenzio». E il suono voluto dalla Tulve (prodotto dai cantori che strofinano il dito bagnato sul bordo di un bicchiere) si fa siderale. Senza tempo. Un suono che si riempie (che riempi) della tenerezza, dell’amore di una voce che pronuncia il tuo nome.

Nella foto Andrea Avezzù Visiones nella Basilica di San Marco