Il musicista milanese, classe 1996, racconta i suoi studi: prima il violino, poi il podio perché «direttori si nasce». Orchestre italiane ed europee nell’agenda del direttore che ai coetanei dice: «Fatevi coinvolgere dalla musica»
Un disegno. Che ha il tratto inconfondibile di un bambino. Un uomo stilizzato, disegnato con un pennarello nero. Lo sguardo serio. Le braccia aperte. E nella mano sinistra una bacchetta, di quelle da direttore d’orchestra. In una storia sul suo profilo Instagram Diego Ceretta ha postato un disegno che porta la data del 2000. Un disegno fatto da lui, quando era bambino, a quattro anni. «Si direbbe che avevo già le idee abbastanza chiare» scrive il musicista milanese, classe 1996, come commento al post. Diego Ceretta aveva le idee chiare, perché direttore d’orchestra oggi lo è davvero: ad ottobre dirige Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa ad Ancona mentre a novembre affronta Macbeth di Giuseppe Verdi a Fano, Fermo e Ascoli Piceno per la stagione della Rete lirica delle Marche. In agenda poi l’Hungarian state opera di Budapest, la Krakow philharmonic in Polonia, il festival Rossini di Wildbad, l’Orchestra regionale della Toscana e la Toscanini di Parma. «Mi rivedo in lui, nel modo in cui affronta determinate cose» dice Daniele Gatti, che per tre anni lo ha avuto come allievo ai corsi di direzione d’orchestra dell’Accademia Chigiana di Siena e che lo scorso novembre lo ha voluto come suo assistente per il Julius Caesar di Giorgio Battistelli che ha inaugurato la stagione del Teatro dell’Opera di Roma. Una sorta di investitura per il giovane musicista milanese, finalista al Premio Cantelli 2020. «Anche se all’inizio non dicevo a nessuno che avrei voluto fare il direttore d’orchestra, non lo ammettevo, anche se sentivo che era quella era la mia strada».
E allora perché non dirlo, Diego Ceretta?
«Vengo da una famiglia di musicisti e da subito ho avuto tra le mani un violino. Papà fagotto nell’orchestra dei Pomeriggi musicali di Milano, mamma flautista, anche se ha smesso di suonare quando sono nato io. Mia sorella è pianista. Tutti conoscono bene il mondo della musica. Complesso. Nel quale è difficile affermarsi, specie come direttore d’orchestra, papà me lo ha sempre detto. Così, quando a 14 anni suonando il violino in orchestra sono rimasto affascinato dalla figura del direttore e mi sono detto che quella sarebbe stata la mia professione, non ho voluto farlo sapere a casa… insieme al violino ho studiato direzione, ma come scusa dicevo: lo faccio per essere un musicista più consapevole, per capire come funzionano le cose. Ho resistito per tre anni poi a 19 anni ho “confessato” e mi sono dedicato totalmente alla bacchetta».
A casa come l’hanno presa?
«Non mi hanno fatto mai mancare il loro appoggio e il loro sostegno. Anche perché uno dei miei maestri, Gilberto Serembe, con il quale ho studiato all’Italian conducting academy, ha chiamato mio papà che era stato suo allievo e gli ha detto che avevo talento e che dovevo proseguire lo studio della direzione d’orchestra».
Questo il percorso che l’ha portata sul podio, ma come è nata la sua passione per la musica?
«La musica è entrata da subito nella mia vita, d’altra parte era la quotidianità in casa. Non ho ricordi, ero troppo piccolo, ma i miei mi hanno sempre raccontato che sin da bambino ero attratto dal violino. A quattro anni ho iniziato a studiare con Fulvio Luciani che poi è stato il mio maestro sino al diploma in Conservatorio. Con mia sorella andavamo spesso a sentire papà in teatro e da subito ho avuto il desiderio di suonare in orchestra: così a 9 anni ero tra i leggii dei Piccoli pomeriggi musicali per poi passare alla FuturOrchestra che in Lombardia proponeva l’approccio musicale inventato in Venezuela da José Antonio Abreu con El Sistema. Avevo 14 anni e giù suonavo le pagine del repertorio sinfonico. E suonando in orchestra sono rimasto affascinato dalla figura del direttore. Così accanto al violino ho iniziato a studiare direzione… ho capito che volevo fare quello».
Cosa l’affascina della figura del direttore d’orchestra?
«Sicuramente la possibilità di poter interpretare il grande repertorio lirico e sinfonico, il poter dare idee mie a questa musica. Il direttore ha sotto le sue mani il suono molto più di ciascun musicista dell’orchestra. È quasi un paradosso perché io agito la bacchetta e non c’è nulla nell’aria, ma poi quest’aria si riempie di suono e io lo sento, posso modellarlo e plasmarlo come se avessi tra le mani un pezzo di creta a cui dare una forma».
Se dovesse scegliere, lirica o sinfonica?
«Non si può scegliere. Dico entrambe perché si completano a vicenda: perderne una vuol dire inaridire l’altra quando la si dirige. Il maestro Serembe mi ha sempre detto: la nostra anima è come un campo, se lo coltiviamo solo a patate si inaridisce e alla lunga anche le patate non sono più buone. Così anche per la musica».
Quali gli autori che ama di più?
«Nel repertorio sinfonico senza dubbio Ludwig van Beethoven. In questo periodo sento anche una vicinanza con Robert Schumann e Felix Mendelssohn. Li dirigo. Un domani arriveranno anche Gustav Mahler e Anton Bruckner, ma si va per gradi perché per affrontare certi autori occorre avere un’esperienza di vita che non vuol dire per forza solo cose tragiche, ma anche esperienze belle per avere occhi maturi per leggere le partiture e restituirle in tutta la loro profondità. Poi mi piace l’idea di lasciarmi alcuni traguardi da raggiungere: se faccio tutto ora poi il rischio è che tra un po’ di anni ci sia solo routine e gli stimoli si azzerino».
Sul fronte lirico?
«Direi in assoluto Giuseppe Verdi e Richard Wagner. Simon Boccanegra, Don Carlo, Otello e Falstaff e poi il Ring, sono tutti traguardi che mi pongo».
C’è, invece, qualche autore che non ama?
«La musica spagnola non è una musica che mi attiri particolarmente. Dal punto di vista dell’opera ho qualche difficoltà con il Verismo».
Se le proponessero di dirigere queste musiche se le farebbe piacere per non perdere l’occasione di salire sul podio?
«Non si deve farlo. Non si deve accettare tutto. Si possono e si devono dire dei no. Cito ancora il maestro Serembe che mi dice sempre: ricordati di fare solo quello che ti piace per mantenere un entusiasmo nell’approccio alla musica».
Qualche no lo ha già detto?
«Sì e sono stati dei no sofferti. Ma a distanza si sono rivelate scelte giuste. Chi ha ricevuto quei no ha capito, ha compreso il mio desiderio di non adeguarmi a questa corsa frenetica che oggi sembra prendere tanti alla ricerca del tutto e subito. Ho detto no a una Rondine al Festival Puccini di Torre del Lago, ma il direttore artistico Giorgio Battistelli ha capito, ha apprezzato e mi ha espresso la sua stima».
E per la musica ha dovuto fare molte rinunce?
«Fare il musicista è un mestiere che richiede rinunce: quando gli altri sono in vacanza, quando vanno alle feste, a divertirsi tu devi stare a casa a provare, a studiare e a preparare gli esami. Lo sapevo, vedendo come era la vita dei miei genitori, ma ho scelto di fare il musicista e le rinunce che ho fatto non mi sono pesate, perché tutto è stato fatto per amore della musica. Questo me lo hanno insegnato da subito i miei genitori a cui devo tanto».
Oltre ai suoi genitori chi ha segnato il suo percorso?
«Sicuramente Daniele Parziani direttore dei Piccoli pomeriggi musicali che mi ha fatto capire la disciplina, necessaria quando si fa musica. Giliberto Serembe, con il quale ho iniziato a studiare direzione nel 2015, mi ha insegnato come ascoltare e vivere la musica. Daniele Agiman, con il quale mi sono diplomato in Conservatorio a Milano, mi ha trasmesso l’amore per l’opera. Luciano Acocella è un supporto che c’è ogni volta che serve. E poi Daniele Gatti che mi ha sempre consentito di seguirlo in ogni momento, in tutte le prove segnando indiscutibilmente la mia crescita artistica e umana: parlare con lui, discutere non solo di musica, ma anche della vita è stata per me un’occasione di crescita umana e personale unica».
Ci sono stati momenti di sconforto?
«Il maggior momento di sconforto è stato durante la pandemia, specie nel secondo lockdown: non c’erano occasioni di fare musica, non dico in orchestra, ma anche con due o tre amici per leggere insieme la musica. Però non ho mai perso la fiducia, ho studiato e mi sono esercitato».
Foto @Roberto Testi e @Priamo Tolu
Suo padre le diceva che quello della musica è un mondo nel quale è difficile emergere. Lei oggi come la vede? C’è meritocrazia in questo campo?
«È un mondo duro, indubbiamente, a prescindere dalla bravura o meno. La meritocrazia? Penso sia una cosa complessa perché arrivare a dirigere un concerto o un’opera può essere anche frutto di un’occasione, indipendente dal merito o dal talento. Quello che conta è confermare il proprio talento e il proprio valore professionale nel momento in cui si sta facendo il proprio mestiere: quando ci si trova sul podio se c’è il talento è lì che ci si gioca tutto, altrimenti si può dirigere per qualche tempo, ma alla lunga il castello di carte crolla».
Se non avesse fatto il direttore cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Studiare le lingue o fare il doppiatore. Però non ho mai smesso di pensare che la musica avrebbe potuto essere il mio mondo».
E quando ha capito che poteva vivere di musica?
«Su quello non ho mai avuto dubbi, essendo cresciuto in una famiglia di musicisti che di musica vivono. Diciamo che a 19 anni ho iniziato a pensare che la strada che avevo intrapreso era quella giusta, perché qualche soddisfazione era già arrivata. La certezza è arrivata dopo il primo anno di corsi alla Chigiana a Siena, nel 2018».
I corsi con Daniele Gatti, che dice di rivedersi in lei. Chi sono i suoi riferimenti, i direttori ai quali guarda come esempio?
«Da ragazzo ascoltavo Leonard Bernstein, Herbert von Karajan, Wolfgang Sawallish, Carlo Maria Giulini e Karl Bohm. Aprivo una partitura e mi attenevo scrupolosamente a quanto scritto. Poi il mio gusto musicale e la mia idea di direzione d’orchestra sono cambiate, si sono fatte più personali, plasmate anche dai miei insegnanti. In Conservatorio Agiman chiedeva più libertà nell’interpretazione e voleva che nel restituire una partitura mettessimo noi stessi, un esercizio che può spiazzare, ma che serve. Confesso che inizialmente facevo fatica, poi ho imparato. Acocella e Gatti mi hanno spinto ad andare ancora oltre, non per dimenticare o non riconoscere la tradizione, ma perché la verità musicale non è solo una e si può ricercare attraverso varie strade, purché ci sia un’onesta di fondo. Cerco di non dimenticare mai questa lezione».
Direttori d’orchestra si nasce o si diventa?
«Si nasce. Perché c’è dentro di te un’esigenza, una fame talmente forte di fare musica con uno strumento che non è un violino o un flauto, ma è quello dell’orchestra che devi dare risposta a questa urgenza. Come farlo poi lo si impara perché l’esperienza gioca un ruolo fondamentale. Però direttori si nasce».
La classica è una musica per vecchi?
«Certo che no. È una musica che parla a tutti proprio come fanno i classici, in qualsiasi campo. Certo con il passare dell’età la si apprezza maggiormente perché si cercano (e si trovano in questa musica) altre cose. Quando si è giovani e si è estranei al mondo della musica classica capisco che cinquanta minuti di sinfonia possano sembrare una montagna da scalare, qualcosa di poco immediato perché un ragazzo cerca messaggi vivaci, concisi, che arrivino in fretta e che in tre minuti, come succede con una canzone, abbiano esaurito il loro contenuto. Con il passare dell’età, con la maturità, con i bioritmi che rallentano, il nostro spirito cerca qualcosa che è più affine al nostro ritmo biologico, qualcosa di più lento e che ha bisogno di più tempo per spiegarsi. Capisco che in un’epoca come la nostra in cui i social promulgano contenuti che si esauriscono nel giro di pochi secondi o di un minuto al massimo una Seconda di Mahler che dura un’ora e mezza possa sembrare un ostacolo insormontabile. La sfida è proprio qui. Quello che passa poco tra i giovani è che la musica classica, che porta sempre con sé un messaggio, ha bisogno di tempo per dispiegarsi: mi piacerebbe che i miei coetanei capissero questo, dando alla musica il tempo che le serve per coinvolgerli».
I suoi amici vengono a sentirla in teatro?
«Certo. Se ci sono aneddoti interessanti li racconto loro prima per prepararli all’ascolto. Mi piace che provino ad avere un approccio sensoriale e quasi tattile alla musica, a capire che l’impatto del suono è una cosa molto fisica: il suono che prende il nostro corpo, lo abbraccia, lo accarezza o lo stritola».
E cosa pensano del suo lavoro?
«Apprezzano e mi supportano. Un amico che ho da tutta la vita forse fa un po’ fatica a comprendere fino in fondo questo mondo, non capisce perché occorra sempre stare a studiare e non si possa mai vivere di rendita. Però è affascinato e mi chiede tantissime cose».
Ascolta la musica che ascoltano i suoi coetanei?
«Diciamo che ascolto sempre musica classica, solo classica perché ho il brutto vizio di non voler perdere nemmeno un minuto, di non staccare mai e di scoprire, anche nel tempo libero, nuove musiche che non conosco».
Come si vede tra vent’anni?
«Non molto diverso da come sono oggi, almeno spero. Da un punto di vista musicale sicuramente più strutturato, più ricco di esperienze. Mi auguro di non perdere quell’entusiasmo che ho oggi nel leggere una partitura, dicendo qualcosa di mio, ma rispettando sempre la musica. Vorrei essere sempre un musicista onesto».
Foto @Francesco Cappelletti e @Concertodautunno