Alla Scala il balletto di Cranko su musiche di Cajkovskij ispirato al personaggio di Puskin, dandy che non sa amare Intesa perfetta sul palco tra Bolle e Marianela Nuñez
Quando Onegin straccia la lettera di Tatjana e gliela chiude nei pugni – e lei la lascia cadere incredula e affonda il viso tra le mani, in un misto di vergogna e rabbia – quando Onegin straccia la lettera di Tatjana e gliele restituisce in pezzi non puoi non sentire un pugno nello stomaco. Perché pensi agli/alle Onegin che ti hanno fatto soffrire. E ce ne sono, nella vita di tutti. Magari nascosti in un angolo della memoria, pronti a tornare, evocati dalla musica di Petr Il’Ic Cajkovskij (nessuno come lui racconto lo strazio di un amore impossibile, di un amore tormentato, di un amore lasciato a metà per incapacità di amare). Vorresti apostrofare malamente il dandy raccontato in parole da Aleksandr Puskin. Ma trattieni in gola le parole. D’accordo, perché sei a teatro. Ma forse perché certi dolori devono sedimentare dentro per poter dare frutto. E anche quando (in scena) la situazione si ribalta, quando è Tatjana a restituire in mille pezzi la lettera che le ha scritto Onegin – perché per lei, sposa del principe Gremin, un tale scritto è irricevibile – il dolore è troppo forte (e tu, vedendolo, non riesci a gioire, a godere di questa “vendetta”). Un dolore che si disegna sul volto (e lo trasfigura) della donna che vorrebbe urlare – e tu con lei – ma che ricaccia in gola quell’urlo, quel dolore. A sedimentare. E dare (forse) frutto.
Una tempesta di sentimenti capace di “spettinare” una vita (che è comunque splendida come canta Tiziano Ferro). Raccontati, nel giro di due ore, a passo di danza. Perché Onegin di John Cranko è un balletto dove le emozioni sono a fior di pelle. Perché il coreografo ha raccontato (racconta ancora oggi ogni volta che la sua coreografia torna a prendere corpo) insieme a Puskin (che ambienta la sua storia nella Russia dell’Ottocento, ma il tempo non importa) la vita come potrebbe viverla (come la vive) oggi ciascuno di noi. Onegin è la storia di un uomo incapace di amare. O meglio, che ha paura di farlo. Che indossa una maschera che aderisce fin troppo al suo viso. Tanto che, quando cercherà di togliersela, sarà troppo tardi. Perché il tempo passato non può tornare. Dopo anni è Tat’jana, la donna che in gioventù ha deriso ributtandole in faccia il suo amore, a respingerlo. Seppur a malincuore. Seppur soffrendo. Ricacciando in gola un dolore che vorrebbe trasformare in amore – ma non può. Non deve farlo. Un dolore che (forse) il tempo trasformerà in qualcos’altro.
Onegin è tornato in scena al Teatro alla Scala, primo titolo di danza dopo la pausa estiva e ultimo della stagione 2021/2022 disegnata dal direttore del Corpo di ballo Manuel Legris. Unico tiolo (Gala Fracci a parte) del cartellone di balletto che ha visto sul palco l’étoile di casa, Roberto Bolle. Onegin sempre più sfaccettato, interiorizzato, cesellato dal ballerino che asciuga la sua danza mettendo da parte qualsiasi esteriorità, qualsiasi esibizione di tecnica e bravura fine a se stessa, andando al cuore del linguaggio coreografico di Cranko per costruire un personaggio inquieto e irritante al tempo stesso, tormentato da un male di vivere che lo porta a scelte sbagliate e a rovinarsi la vita da solo. Bolle che, ancora una volta, ha al suo fianco la Tatjana di Marianela Nuñez. E alla fine sul volto della ballerina argentina, principal al Royal ballet di Londra, scendono lacrime vere. Perché è difficile sopportare un dolore grande, un peso come quello che grava sull’addio di Onegin e Tatjana. Bolle disegna un dandy giovane e sbruffone, che ammicca come i giovani di oggi per poi trasformarsi poi nell’uomo maturo che il tempo e il dolore hanno forgiato nel corso degli anni. La Nuñez è perfetta nel disegnare la scoperta dell’amore di Tat’jana che non è una ragazzina sprovveduta, travolta dalla passione, che agisce d’istinto, ma una piccola donna che ama e pesa ogni sua scelta e non amata (inevitabilmente) soffre. Un’intesa perfetta (ancora e più di sempre) quella tra i due danzatori: tecnica impeccabile ed emozioni a fior di pelle, appunto, per restituire il teatro sulle punte che è quello che Cranko ha realizzato sulle musiche di Cajkovskij – la dirige, con passo teatrale efficace, Felix Korobov, sul podio dell’Orchestra del Teatro alla Scala.
Teatro dove la coreografia (piena di insidie, di prese vertiginose) diventa il tracciato di un cardiogramma dell’anima dei personaggi. Teatro sulle punte che si fa vita – ed è un peccato che non si provi ad asciugare alcune controscene troppo macchiettistiche, come quelle della festa del secondo atto con le caricature di vecchi sordi, claudicanti e tremebondi che stonano con l’asciuttezza e il racconto essenziale di musica e coreografia. Un balletto da camera, tutto in primo piano, spesso in bilico tra sogno e realtà quello di Cranko che imprime al suo racconto un taglio cinematografico (e in questa direzione va l’ormai classico allestimento di Pier Luigi Samaritani). Un linguaggio coreografico ancora moderno (a rimontare la coreografia datata 1965 è arrivato Reid Anderson) ben restituito dal Corpo di ballo della Scala. Gabriele Corrado è un autorevole (e affidabilissimo nel passo a due con Tatjana del terzo atto) principe Gremin. Martina Arduino incarna perfettamente la freschezza e la leggerezza di Olga, ma anche la tragica disperazione di una ragazza che vede morire l’uomo che ama. Lenskij, che è un sempre più bravo Nicola Del Freo, capace di disegnare con misura e partecipazione l’innamorato, facendo trascolorare la gioia e l’entusiasmo della gioventù nella disperata malinconia di un prematuro addio alla vita.
Nelle foto @Brescia/Amisano teatro alla Scala Onegin