La tragica attualità delle tante donne vittime di violenza nella regia di Rosetta Cucchi per l’opera di Rossini al Rof diretta da Yves Abel e raccontata con un lungo flash back Cantano Enea Scala, Eleonora Buratto e Dmitry Korchak
Mettiamola così. Mettiamola così di fronte a chi potrebbe storcere il naso – condizionale d’obbligo perché oggi lo abbiamo capito che l’opera per compiere appieno la sua funzione (artistica) deve parlare al nostro presente… ma per alcuni, può anche essere “reperto” di un tempo passato, da osservare come si osserva un quadro in un museo… Mettiamola così di fronte a chi potrebbe storcere il naso (e non gradire, pensando a un tradimento) nel vedere un Doge in smoking, una Desdemona in abito nero stile Armani, un Rodrigo e uno Jago in camicia (una bianca e una nera) e giacca (una più sobria, l’altra volutamente chiassosa) e un Otello, che non ha il volto scuro della tradizione, in alta uniforme. Mettiamola così. Il primo a “tradire” William Shakespeare è stato proprio Gioachino Rossini. Basta leggere la trama del suo Otello e (lo sappiamo, certo, non è novità di oggi) nel libretto di Francesco Berio di Salsa tante cose non tornano rispetto alla tragedia: personaggi, legami, parentele, fatti… anche snodi fondamentali della vicenda. Dunque, se sul palco del Rossini opera festival 2022 Otello non è moro ma bianco, se Rodrigo invece che brandire un pugnale impugna una pistola, non c’è problema, perché il primo a “tradire” William Shakespeare è stato proprio Gioachino Rossini.
O meglio. Più che a tradire… a tradurre. Stessa radice per le due parole, radice che affonda nel tradere latino che ha dentro il germe del raccontare, del tramandare, del consegnare… Il significato? Cambia? Forse no. Potrebbe essere lo stesso, a ben guardare. Perché Rossini, quando scrive il suo Otello nel 1816 per il Teatro del Fondo di Napoli, non ha tanto come intento quello di mettere in musica la tragedia shakespeariana, facendo un copia e incolla del testo e rivestendolo di note, ma il compositore pesarese vuole andare al cuore della vicenda, l’uccisione di Desdemona da parte di Otello – tutta l’opera è costruita per arrivare a quel momento e dopo tante (bellissime) melodie la musica si scarnifica, i suoni diventano rarefatti, il canto si fa quasi parola e tutto si spegne in un silenzio sconcertante, che inquieta e interroga. Vicenda da raccontare e tramandare. Partendo da quel nucleo scelto da Rossini, la morte di Desdemona per mano del marito, che oggi chiamiamo femminicidio, parola che abbiamo imparato a conoscere perché ce la butta in faccia (purtroppo pressoché quotidianamente) la cronaca. Rossini lo ha messo in musica più di duecento anni fa, tramandandoci un racconto, consegnandoci un messaggio (un monito), traducendo e (allo stesso tempo) tradendo Shakespeare.
Ecco perché oggi (passaggio necessario per non fare dell’opera solo reperto museale) la morte di Desdemona racconta le tante, troppe morti di donne uccise dalla mano dei loro uomini. Lo dice chiaro (ben evidente sin dalle note della sinfonia con quegli strilli e qui titoli di giornale che in una sorta di cinegiornale raccontano dell’ennesima vittima) Rosetta Cucchi che rilegge così, come la cronaca di una morte annunciata, Otello di Rossini, terzo titolo dell’edizione 2022 del Rof di Pesaro. Un segno forte, contemporaneo quello impresso dalla regista che colloca in un “non tempo” un fatto che attraversa con la sua drammatica attualità il tempo. Un “non tempo” e un “non luogo”, una sala da pranzo (immersa in una perenne penombra, atmosfere psicologiche e cinematografiche alla Hitchcock) che diventa un luogo della memoria, una proiezione della mente (storia di fantasmi di un tempo che tornano) dove passato e presente si fondono nei ricordi di Emilia, testimone impotente della tragedia, chiamata (come Orazio in Amleto) a raccontare – a tramandare, a consegnare a noi – le vicende di Otello e Desdemona. Tradendole, forse, come accade sempre quando si rielabora qualcosa.
Tutto parte dalla fine, quando la tragedia si è compiuta. La casa (il libretto dice il palazzo di Elmiro, padre di Desdemona) dove si sono svolti i fatti è in vendita. La scena del delitto è stata ripulita. Tutto – tavoli, sedie, poltrone, statue… – è coperto di teli bianchi. La morte, però, l’avverti ancora nell’aria. Emilia, cameriera di una casa un tempo piena di gente, unica sopravvissuta e custode di questo luogo deserto, sta facendo le valigie, se ne deve andare. Deve trovare un altro posto di lavoro. Arrivano i possibili compratori. Un uomo. Poi una coppia, marito e moglie, e lui, irritato, assesta una sberla a lei. Davanti a tutti. Davanti ad Emilia che soffre perché ha ancora dentro il dolore per la morte dell’amica, quella ragazza con cui da bimbe andavano a scuola di danza – il ricordo si materializza dentro due grandi specchi, flash di un passato in bianco e nero, spesso sfocato, evocato per dare corpo ai demoni che hanno offuscato la mente dei protagonisti. Ed ecco che la memoria riaffiora. La memoria delle violenze subite da Desdemona. E parte il lungo, tragico flash back.
Il nastro si riavvolge. Si riparte da quando Otello ritorna vincitore dalla guerra con i turchi, salutato da tutti, ma poi messo in un angolo, solo, emarginato da una società che non lo accetta. Tutto accade durante una cena di famiglia, in un viavai di camerieri, Elmiro e la figlia Desdemona a capotavola, dall’altra parte Otello. Solo. In un angolo a tramare (e a sniffare coca) Iago e Rodrgio. Rodrigo vuole Desdemona e Iago mette in piedi fake news per dimostrare a Otello l’infedeltà della donna. E anche se per regolare i conti ci si prova a nascondere nella stireria del palazzo (le scene di Tiziano Santi ambientano qui il secondo atto dell’opera) tutto avviene sotto gli occhi di tutti. Anche la violenza. Ma si preferisce non vedere, ci si gira dall’altra parte, in un’indifferenza che sconcerta. L’indifferenza che è la stessa di chi per strada riprende con il telefonino un omicidio invece di provare a fare qualcosa per impedirlo. La cronaca, appunto. Che irrompe nello spettacolo della regista pesarese – giocare in casa non è facile e due piccoli dissensi Rosetta Cucchi se li è presi, incassati, però, con un signorile sorriso.
Uno spettacolo che ha la forza di un reportage in presa diretta (anche a costo di qualche forzatura del libretto e di dire e ridire più volte, quasi a volerlo sottolineare bene, lo stesso concetto) che nulla concede al sentimento per mettere uno in fila all’altro i fatti e lasciare il giudizio a chi guarda. Ma che ha anche in sé una visionarietà potente fatta di immagini che contrappuntano continuamente il racconto, portandolo su un piano psicologico. I ricordi scontornati e volatili dell’infanzia di Otello e Desdemona (lui piccolo soldato, lei ballerina classica senza futuro perché il padre non la vuole artista… li vediamo nei video in dissolvenza negli specchi), figli di padri severi che al sentimento anteponevano la disciplina. E le immagini concrete e carnali di donne violate, uccise da chi diceva di amarle, fantasmi grondanti sangue, come quelli delle donne che rispondono al canto di Desdemona nella grande scena che chiude il secondo atto, buttando in faccia al pubblico un «no» scritto sulla mano (come gli slogan che certe femministe si disegnano sul corpo nelle manifestazioni di piazza); fantasmi come quello di Isaura, accoltellata dal marito, che danza nel vuoto (richiamando le stesse fattezze delle sculture/fantasmi di Davide Dall’Osso che fluttuano nell’aria) mentre Desdemona la evoca nella Canzone del salice.
Personaggi (li veste Ursula Patzak) che popolano un mondo inquieto (immerso nella penombra delle luci di Daniele Naldi) nel quale il nostro oggi si specchia drammaticamente. Raccontato dalla musica di Rossini. La dirige Yves Abel che sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai (e del puntuale coro del Teatro Ventidio Basso) offre una lettura lineare e corretta della partitura, attenta alla scrittura rossiniana, ma a volte forse troppo generica (e un po’ roboante) a discapito di uno scavo nel testo musicale, ricco di novità e proiettato in avanti – è il 1816, Rossini ha ventiquattro anni, ma in Otello, nella sua drammaturgia musicale e nella concezione delle grandi scene si sentono già i capolavori che verranno. E dentro il racconto musicale ispirato a Shakespeare c’è una tensione che ti prende dalla prima all’ultima nota, perché senti addosso il dolore di Desdemona, ma anche la disperazione di Otello, tormentato dai fantasmi dell’infanzia, come tutti i personaggi della storia.
Eleonora Buratto è una risoluta e dolente (e splendida) Desdemona, personaggio che nel corso dell’opera diventa sempre più il centro del racconto – e il carico per il soprano è notevole tanto più se, come a Pesaro, si fanno secondo e terzo atto senza intervallo, con la grande scena del secondo atto alla quale segue subito il Salice e tutta la tensione emotiva della morte. La Buratto affronta questo nuovo ritratto di donna (il soprano mantovano è già stata la Desdemona di Verdi) con la sua grinta scenica e la sua voce luminosa, che sa anche incresparsi di dolore, avvolgersi di ombre, farsi piccola (ma non perdi un sospiro, mai) per evocare il dolore di un’anima, troppo grande da dire a parole.
Otello è l’opera dei tre tenori. A Pesaro ci sono. E sono tutti eccezionali. Enea Scala, vigoroso e sicuro protagonista, è uno dei pochi interpreti (due, tre…?) che oggi possono cantare una parte così impervia, che dall’acuto più svettante scende in un registro baritonale. Il tenore, che sfodera una presenza scenica di grande fascino, restituisce un Otello musicalissimo, con agilità e acuti, ma anche con bei momenti lirici, come nel drammatico e commovente finale. Dmitry Korchak (in grandissima forma vocale tanto da prendersi un lungo applauso a scena aperta dopo la grande scena del secondo atto) è un tormentato Rodrigo che sgrana acuti con una facilità impressionante, senza mai, però, cadere nella tentazione dell’esibizione muscolare. Il figlio del Doge, che ama Desdemona, ne esce come un personaggio al limite della follia – e Rosetta Cucchi mette al culmine del duetto con Otello una roulette russa che va ad accrescere ulteriormente la tensione della musica – una figura ai margini, che nasconde dietro un apparente normalità il suo disagio. Fomentato da Iago che Antonino Siragusa disegna con la sua sicurezza vocale e il suo temperamento scenico che, da anni, sono una garanzia.
Tre tenori, anzi quattro. No cinque. O forse sei. Perché anche il Doge è un tenore e qui ha lo squillo di Antonio Garés. E anche per Lucio, confidente di Otello, Rossini sceglie il registro tenorile: lo interpreta con bel piglio e sicurezza (facendosi anche carico della canzone del Gondoliere) Julian Henao Gonzalez. Elmiro, il padre di Desdemona, ha la nobiltà del canto e la voce piena e avvolgente di Evgeny Stavinsky, mentre Adriana Di Paola è Emilia, testimone impotente della tragedia, chiamata a consegnarci la tragedia. Tradendola. Come accade nel finale. Con un corto circuito – modellato, però, dalla regista sul testo e sulla musica – di quelli che ti costringono a pensare e che ti fanno ritardare l’applauso. Perché la mente è sull’immagine finale. Otello ha appena ucciso Desdemona. Lei stesa sul tavolo. Lui sopra di lei, a fissarle il volto. E sul fondo si materializza la scena dell’inizio, la cena di famiglia. Tutti intorno a un tavolo, anche Otello e Desdemona. Vivi. A loro Elmiro e Rodrgio (proprio come nel libretto) raccontano di aver smascherato le trame di Iago. E benedicono il loro matrimonio. Ma è solo un’allucinazione di Otello che in punto di morte immagina come le cose sarebbero potute andare se… O è una ricordo di Emilia. Che in un disperato grido di dolore (o di speranza) traduce e tradisce – come Rossini ha fatto con Shakespeare – i fatti.
Nelle foto @Studio Amati/Bacciardi Otello al Rof