Il Rossini opera festival di Pesaro apre con l’opera francese ambientata da Hugo De Ana nel mondo surreale di Bosch Diego Matheuz sul podio dell’Orchestra nazionale Rai Insieme al tenore peruviano Julie Fuchs e Maria Kataeva
Una scatola blu elettrico. Enorme. Illuminata tutt’intorno da led, quasi lucine da ribalta di un palcoscenico di avanspettacolo. Si apre. E dentro, come in un musical, prende vita un mondo fuori asse e sghembo, come il quadro appeso storto sulle note del preludio, che devi girare la testa per vederlo bene e dunque, metterti anche tu fuori asse rispetto a ciò che ti circonda… Da lì in poi sarà un vortice, un giramento di testa continuo dentro un mondo coloratissimo e visionario dove le donne, quando non sono in tuta per fare aerobica, hanno come cappello aiuole di fiori. E gli uomini, prima di finire in mutande e canotta con in testa un imbuto tipo Uomo di latta del Mago di Oz, si travestono da suore con sotto la tonaca sottogonne di tulle rosso da sollevare come fossero ballerine di can can. E poi animali giganti (compresi dinosauri e civette che danzano sulle punte), ovaie enormi e incombenti con dentro uova di Pasqua e folletti popolano questo mondo dove sfrecciano monopattini e carrelli della spesa. Un mondo onirico (ma a ben vedere, forse, nemmeno più di tanto) che ha la visionarietà pop di Hieronymus Bosch (i riferimenti sono chiari, a partire dal quadro sghembo dell’inizio), già pop tra Quattro e Cinquecento, molto prima che il termine pop venisse inventato. Frullatore di immagini surreali, mix di alto e basso, di scientifico e di irrazionale, shakerato di emozioni allucinogene e delicati tocchi poetici che aprono squarci su una perduta classicità. Un mondo psichedelico dove tutto può succedere – e dunque contesto ideale (e furbo) per giustificare qualsiasi scelta registica che, pertanto, è inutile spiegare… nel regno dell’assurdo, nello specchio di Alice nel paese delle meraviglie tutto può succedere.
E succede di tutto nel mondo surreale – ispirato a Bosch, ma che va oltre l’immaginario del pittore olandese per provare ad aggiornarlo al nostro presente (allucinato e onirico) – creato da Hugo De Ana come contenitore per Le Comte Ory di Gioachino Rossini, titolo inaugurale dell’edizione 2022 del Rossini opera festival di Pesaro. Contenitore, quello progettato dal regista argentino (anche visionario scenografo e raffinato costumista), che, però, tale resta. Certo, l’idea di partenza c’è. Ma è una e una sola, meglio, una suggestione che non si traduce in drammaturgia: ambientare le vicende del Comte Ory, della Comtesse Adele e del paggio Isolier nel mondo psichedelico di Bosch per raccontare come in un vaudeville (dove tutto può succedere, anche di imbattersi in suore in monopattino o in dinosauri che ballano su un vorticoso crescendo rossiniano) la storia de Le Comte Ory. Titolo nato, appunto, come vaudeville (una sorta di commedia musicale made in Francia, mix di prosa e numeri cantati) nel 1816, scritto con gran gusto letterario (citazioni colte, squarci poetici, ma anche parodia raffinata dei generi drammatici) da Eugène Scribe e Charles-Gaspard Delestre Poirson che nel 1828 hanno riadattato e ampliato il loro testo facendone un libretto (in francese, come l’originale) per Rossini – che lo ha fatto entrare perfettamente in un vestito già esistente, quello de Il viaggio a Reims perché molta della musica (bellissima) de Le Conte Ory è “riciclata” dalla cantata del 1825 per l’incoronazione di Carlo X re di Francia (e ascoltando Ory ti vengono inevitabilmente da cantare le parole del Viaggio).
De Ana – qui in una versione pop inedita rispetto ai tableaux pittorici dei suoi classici spettacoli – fa un Comte Ory surreale e ispirato a Bosch (di cui riproduce particolari dei quadri come elementi scenografici), ma anche, nei toni, al musical, alla rivista e a certa commedia (scollacciata) all’italiana: Ory/eremita in versione Mosé hollywoodiano con le tavole della legge che si illuminano (e il pubblico ride) e Ory/pellegrina che sfreccia su monopattino (e anche qui il pubblico ride), le fanciulle che Ory (ancora in versione eremita) porta nel suo antro, comprate e messe nei carrelli della spesa come al supermercato, le ancelle di Adele che fanno lezione di aerobica, gli uomini di Ory che, travestiti da suore, riproducono l’iconografia dell’ultima cena… Una rilettura in versione pop art per uno spettacolo (coprodotto dal Rof di Pesaro insieme al Comunale di Bologna) coloratissimo e gradevole, ma con tante immagini. Troppe. E il rischio è quello di un’abbuffata di trovate (alcune anche al limite del buon gusto come lo smanacciamento a tre del bellissimo e ispirato terzetto tra Ory, la Comtesse e Isolier che così prede di quella delicata sensualità di cui la musica è intrisa – e qui il pubblico ride meno) che restano sconnesse tra loro perché incapaci di dialogare, di raccontare, di illuminare il testo.
Un vortice di invenzioni che non si fanno drammaturgia. Intuizioni estetiche che restano in superficie. Niente di “sbagliato”, forse un’occasione persa. Tanto più che, dopo le riscoperte musicologiche dei primi decenni (il festival 2023 proporrà la prima esecuzione moderna in edizione critica di Eduardo e Cristina, ultimo titolo che mancava per il completamento del lavoro scientifico sul catalogo rossiniano), ora il Rof potrebbe trovare una sua strada originale e dire una parola nuova e autorevole sull’interpretazione scenica rossiniana (intanto per il 2024 pare sia in arrivo il tedesco Tobias Kratzer… strada giusta). De Ana ci ha provato… Non ha fatto totalmente centro. Cosa che, invece, ha fatto la musica. Grazie al piglio di Diego Matheuz sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, formazione che con il passare degli anni è sempre più “rossiniana” nel gusto e nello stile. Rossini è un territorio che si rivela ideale per Matheuz che guida i musicisti torinesi con braccio sicuro in una lettura raffinata e misuratissima: il direttore venezuelano lascia respirare la musica, la restituisce nella sua bellezza incontaminata e nella sua poliedrica costruzione in bilico tra la parodia di genere, il sorriso e la struggente malinconia, rende perfettamente i “tic” rossiniani senza farli diventare caricatura e asseconda benissimo il canto.
Sul palco è gara di bravura tra Juan Diego Florez (le Comte infoiato perché continuamente a caccia di donne del titolo, accolto dalle ovazioni del “suo” pubblico pesarese), Julie Fuchs (applauditissima Comtesse dalle colorature mozzafiato) e Maria Kataeva (una bella scoperta come Isolier). Florez (ancora una volta) vince la sfida del confronto con se stesso, misurandosi con uno dei suoi cavalli di battaglia e riuscendo a fare un Comte Ory di bellezza vocale immutata e non segnata dal tempo, scenicamente irresistibile, capace di passare con disinvoltura mattatoriale dal grottesco al patetico al drammatico al comico. Bellezza (scenica e vocale) mozzafiato per Julie Fuchs, voce musicalissima, affascinante, sicura in acuto e pirotecnica nelle colorature che, al di là del puro piacere dell’ascolto, ben disegnano il personaggio della Comtesse sin dalla grande aria di ingresso (stessa musica della Foleville del Viaggio a Reims) che arriva perfetta e compiuta. Voce potente (bellissima pasta e bellissimo colore), sempre presentissima in ogni momento quella di Maria Kataeva, Isolier dalla vivace presenza scenica e dal canto sempre raffinato e incisivo. Come raffinato e incisivo è il canto di Andrezej Filonczyk (Raimbaud) e Nahuel Di Pierro (Le Governeur) che, complice il fatto che la regia non li caratterizzi così marcatamente, restano scenicamente un passo indietro. Cosa che non capita a Monica Bacelli, sapore antico nella voce e sapienza scenica sul palco, che disegna una gustosissima Ragonde, come stralunata e ben centrata è la Alice di Anna-Doris Capitelli.
Personaggi surreali, che potrebbero stare in un quadro di Bosch. Ma anche in una qualsiasi delle nostre città. Perché il mondo, il nostro mondo, sghembo, fuori asse, fatto di solitudini che cercano una ribalta, a ben guardare è pieno di Ory.
Nelle foto @Studio Amati/Bacciardi Le Comte Ory al Rof