Prima volta al festival francese e con il Moïse rossiniano per il direttore di Pesaro che oggi guida l’Opera di Roma dove inaugurerà la stagione con le Carmelitane di Poulenc «Con il regista Kratzer portiamo Rossini tra i profughi»
La storia, che è quella raccontata nella Bibbia del duro confronto tra Mosè e il Faraone per l’esodo dall’Egitto degli ebrei, potrebbe suggerirlo. Due popoli. Due fedi. «Ma non raccontiamo il Moïse et Pharaon di Gioachino Rossini come uno scontro di religioni. Non ci saranno ebrei contro egiziani ad evocare i grandi conflitti che oggi attraversano il mondo. Ci saranno piuttosto liberali ed estremisti. Uomini che lavorano per la pace e altri che la ostacolano. Da una parte e dall’altra, perché non ci sono buoni e cattivi». Un Moïse et Pharaon radicato nella nostra contemporaneità quello che Michele Mariotti dirige da domani nel cortile del Place de l’Ancien Archevêché, storica ribalta del festival di Aix-en-Provence (nel 1998 nacque qui il Don Giovanni di Peter Brook e Claudio Abbado) con le voci di Michele Pertusi, Adrian Sampetrean, Jeanine De Bique, Pene Pati e Vasilisa Berzhanskaya. Mariotti, pesarese, classe 1979, debutta ad Aix. «E sarà un doppio debutto – dice il musicista, dallo scorso febbraio direttore musicale del Teatro dell’Opera di Roma – perché sarà anche il mio primo Moïse et Pharaon».
Una prima volta al festival francese con un autore che conosce bene, Rossini, pesarese come lei che è cresciuto al Rof.
«Rossini è un autore, come d’altra parte Giuseppe Verdi, di cui conosco il linguaggio in profondità. L’ho diretto tanto. E ora mi interessa in particolare affrontare il Rossini serio che sento molto vicino, in linea con la mia sensibilità di musicista: oggi il Moïse ad Aix, nella prossima stagione mi aspetta il Maometto II con la regia di Calixto Bieito al San Carlo di Napoli. Certo, di recente ho fatto un’eccezione dirigendo il Barbiere di Siviglia a Vienna perché si faceva un nuovo allestimento dopo più di mezzo secolo. Come dire di no?».
Come dire di no anche ad Aix..
«Qui si lavora davvero bene, c’è una grande qualità professionale e un calore umano incredibile. Avendo una “casa” lirica in Italia, il Teatro dell’Opera di Roma, scelgo con attenzione gli impegni fuori da questa casa, valutando bene cosa fare e dove farlo. Il progetto del Moïse mi ha conquistato e ho detto sì».
Perché proprio Moïse?
«Moïse et Pharaon e non Mosé in Egitto perché essendo in Francia mi sembrava la scelta più giusta proporre la versione grand opéra che Rossini pensò nel 1827 per Parigi, rielaborando e ampliando il Mosé del 1818, partitura più concentrata, che cerca un effetto più teatrale, un’opera rivoluzionaria che doveva iniziare al buio e finire in piano, ma sappiamo che questo finale a Rossini non fu concesso. Moïse invece non cerca l’effetto, è un’opera corale e di ampio respiro. Una partitura che va in profondità, meditativa che culmina in una pagina sinfonica mentre si richiudono le acque del Mar Rosso che hanno inghiottito gli egiziani. A questa farò seguire il coro di ringraziamento degli ebrei, Chantons, bénissons le Signeur. E ci saranno naturalmente le danze, pagina drammaturgicamente imprescindibile»
Come raccontate quest’opera insieme al regista Tobias Kratzer?
«Moïse offre grandi spazi di libertà interpretativa. Non abbiamo voluto leggerlo come uno scontro di religione, ma provare a raccontare una storia che metta in luce come ogni fazione abbia i suoi liberalismi e i suoi estremismi. Raccontiamo di un governo occidentale che deve accogliere alcuni rifugiati, sulle note dell’introduzione si vedono il Pharaon ed Eliézer, che firmano un trattato, un patto che sarà, però, disconosciuto da Moïse che, in questa rilettura, diventa un estremista – lo aveva riletto così anche Graham Vick a Pesaro, al Rof. Estremista è anche il sacerdote egiziano Osiride mentre Pharaon ed Eliézer sono due liberali, che lavorano per la pace. Moïse non ha fiducia nell’Occidente, spinge i suoi ad azioni estreme e lo fa, paradossalmente, per amore per il proprio popolo. Sbagliando, certo».
Come Rossini racconta questo in musica?
«Rossini racconta i personaggi tratteggiandoli con una grade cura psicologica. Le uniche due arie sono affidate alle due donne protagoniste, Anaï, nipote di Moïse, innamorata di Aménophis, il figlio di Pharaon, lacerata per non tradire il suo popolo e il suo dio. La stessa lacerazione che vive Sinaïde, un tempo ebrea e oggi regina d’Egitto. Mi piace la tenerezza mista all’ansia con la quale Rossini tratteggia il mondo ebraico: c’è una gioia nervosa, un’atmosfera schubertiana, c’è un popolo che anche imparato a sorridere delle proprie. Quando invece raccontagli egiziani è il ritmo che domina, con elementi nitidi e secchi. Ma tutta la musica è pervasa di grande spiritualità».
Come nei Dialogues des carmélites di Francis Poulenc, il titolo che ha scelto per inaugurare, con la regia di Emma Dante, la sua prima stagione a Roma.
«Una partitura nella quale sto entrando giorno dopo giorno, lavorando sul rapporto tra testo e note. “Una volta entrati nel Getsemani non si esce più” dice la Priora. Uno dei punti che mi toccano maggiormente di una partitura dove c’è il tema della spiritualità, del coraggio di vivere e testimoniare la propria fede perché il tuo credere è più forte della paura della morte. E la paura, lo sentiamo nella musica, è sempre all’esterno del Carmelo, riguarda gli altri, mentre per le suore il martirio è indispensabile perché diventa salvifico, morire per gli altri, come fa l’Agnello di Dio che non toglie, ma prende su di sé i peccati del mondo. Mi interessa il percorso umano che Poulenc fa fare ai personaggi, portandoli a conclusioni inaspettate: la Priora, la donna di fede, muore imprecando, Blanche che vorrebbe fuggire alla fine sceglie il martirio, Mère Marie la suora che anela al martirio è l’unica che non morirà».
Quale il suo progetto per il Teatro dell’Opera?
«Vorrei portare il teatro alla città e la città al teatro. Il teatro deve essere attuale, specchio della nostra realtà, per questo ci vogliono titoli in grado di raccontare la nostra società, i nostri problemi da affidare a registi che, in dialogo con i musicisti, ne sappiano evidenziare la modernità. Per Roma, dove vorrei dare spazio alla musica del Novecento, penso a un cartellone dal respiro internazionale che non rifiuta le proprie radici, ma che da quelle parte per una riflessione ad ampio raggio sul nostro tempo».
Il Teatro dell’Opera come “casa” lirica. Ne vorrebbe anche una sinfonica?
«Sicuramente il mio sogno è arrivare ad avere anche una “casa” sinfonica. Come nell’opera, è importante avere un’orchestra con la quale costruire un percorso e per questo serve conoscersi e lavorare insieme il più possibile. Tanto più che lirica e sinfonica sono complementari e devono andare di pari passo, compenetrandosi».
Tanta opera italiana nella sua agenda, Moïse ad Aix, Norma ad Amsterdam, il Requiem (che non è opera, ma quasi…) a Parma, Italo Montemezzi con L’amore dei tre re alla Scala. Si sente una delle bacchette di riferimento per il melodramma italiano nel mondo?
«Non ho mai cercato etichette, non ho mai seguito l’immagine, non so recitare e non sarei me stesso. Penso che a pagare debba essere sempre la qualità».
Nella foto @Rocco Casaluci Michele Mariotti
Intervista pubblicata in gran parte su Avvenire del 6 luglio 2022
In queste foto le prove di Moïse et Pharaon di Rossini ad Aix-en-Provence